Laicismo e clericalismo, stereotipi da superare

Il termine laicità indica la separazione, storicamente avvenuta in Occidente soprattutto con la nascita e l’affermarsi dello Stato moderno, fra la sfera religiosa e ogni altra sfera, a cominciare da quella politica. Agli albori della modernità, soprattutto l’Italia ha dato un contributo di pensiero non indifferente a questo processo di autonomizzazione o affrancamento dalla religione degli ambiti di vita: dal Machiavelli teorico dell’ “autonomia del politico” al Galilei con la scienza, fino al Vico con la teoria della conoscenza e l’estetica. E ciò è avvenuto nonostante il nostro Paese fosse in forte ritardo sui processi reali di modernizzazione, dovendo aspettare il 1860 per creare finalmente uno Stato nazionale unitario improntato ai caratteri della laicità. “Libera Chiesa in libero Stato” fu allora l’efficace espressione di Camillo Benso conte diCavour a suggello della nuova entità.

Il processo di separazione in cui consiste la laicità si basa su una distinzione anch’essa tipicamente moderna: quella fra foro interiore o sfera privata e ambito politico o sfera pubblica. La religione, così come in genere ogni visione del bene e dei fini ultimi, deve essere, secondo i laici, una scelta di coscienza e individuale: può informare i comportamenti dei singoli, ma non può avere nessuna pretesa particolare sui comportamenti altrui o sulle leggi dello Stato. Le quali, al contrario, devono essere rigorosamente neutrali: devono cioè mantenersi su un terreno il più possibile formale, garantendo ad ogni concezione o confessione religiosa la massima libertà di espressione e una uguaglianza sostanziale rispetto alle altre.

Il termine laicità è oggi usato solamente nelle lingue francese e italiana. Di origine greca, riferendosi allora al popolo guerriero nella sua relazione con il capo; variamente presente in ambito cristiano-medioevale, allorché indicava i credenti che non avevano preso gli ordini sacerdotali; il lemma riappare nel Settecento in Inghilterra per un breve lasso di tempo per indicare l’usurpazione dei diritti sacerdotali. Oggi in inglese si usa soprattutto il termine saecularism, che ha tuttavia un significato più avalutativo richiamando anche la “seolarizzazione”, cioè il più generale processo di disincanto (nel senso weberiano) che ha caratterizzato la modernizzazione occidentale.

Il contrario della laicità è il confessionalismo o, meglio, il clericalismo: la pretesa di informare le leggi dello stato ai precetti che provengono dall’autorità religiosa, imponendo a chiunque (magari con la buona intenzione di fargli del bene) determinati comportamenti. Del tutto ingiustificato è pertanto, da un punto di vista lessicale, l’attribuzione di una valenza negativa al lemma anticlericalismo: essere anticlericali non significa affatto essere irreligiosi o sprezzanti verso ogni forma di fede.

Il termine laicità, da un terreno strettamente politico, si è presto esteso fino a indicare un atteggiamento mentale generale, cioè a sua volta una visione del bene o etica. La laicità, in questo senso generale, finisce per sovrapporsi o coincidere con il liberalismo. L’atteggiamento laico, come quello liberale, è basato sulla tolleranza, sullo spirito critico, sull’antidogmatismo, sulla critica dell’esistente e soprattutto nella messa in discussione dell’assoluto.

Come il liberalismo, anche la laicità è un metodo e non un sistema: un atteggiamento e una sensibilità e non un insieme di precetti o ricette sovrastoriche pronte per l’uso. Quando il principio laico, che come si è detto è essenzialmente un principio di distinzione e separazione, si fa sistema, la laicità può diventare a sua volte intollerante e dogmatica, può convertirsi in una visione integralista come quella clericale. In questo caso è lecito parlare di laicismo. Anche se storicamente non esiste, da un punto di vista lessicale, nessuna differenza fra laicità e laicismo, nel senso che i due termini sono stati sempre usati in modo sostanzialmente equivalente, non è forse sbagliato introdurre oggi questa differenziazione a motivo della sua indubbia capacità euristica.

Per laicismo – ha scritto Bobbio – s’intende un atteggiamento di intransigente difesa dei pretesi valori laici contrapposti a quelli religiosi e di intolleranza verso le fedi e le istituzioni religiose…Il laicismo, che ha bisogno di armarsi e di organizzarsi, rischia di diventare una Chiesa contrapposta ad altre Chiese” (in Manifesto laico, a cura di Enzo Marzo e Corrado Ocone, 1999).

Ovviamente in Paesi come l’Italia, la laicità si è costruita avente come riferimento quasi unico il cattolicesimo della potente Chiesa romana. Nei primi tempi, il processo unitario ha perciò assunto in molti esponenti della nuova classe dirigente toni fortemente laicisti e anche a volte intolleranti. Tuttavia, se da una parte esiste un integralismo laico, il laicismo appunto, dall’altra è pur vero che esiste un cattolicesimo laico avverso a ogni forma di clericalismo. L’opposizione laici – cattolici è, pertanto, una falsa opposizione: si può essere uomini di profonda fede e credere ugualmente nel principio laico (anzi una religione non invischiata nella temporalità è stata spesso considerata più “pura” e vicina all’essenza spirituale che costituisce il nucleo di fede). In Italia, ad esempio, maestri di laicità sono stati cattolici del calibro di Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi e Carlo Arturo Jemolo, per fare solo qualche nome.

Ultimamente si è parlato di laicità, focalizzando l’attenzione sui compiti di uno Stato laico, a proposito della richiesta da parte delle scuole cattoliche di essere finanziate con fondi pubblici. In particolare si sono levate voci, anche da parte liberale, a favore dell’assegnazione di un bonus scolastico ad ogni famiglia che diventa perciò libera di scegliere il tipo di scuola da far frequentare ai propri figli. Si tratta di una richiesta in ultima istanza non compatibile con i principi della laicità. Se è vero infatti che lo Stato se è laico non deve minimamente intervenire sulla libertà di scelta o di associazione degli individui, altrettanto indubitabile è che questi ultimi devono essere in grado di compiere una scelta matura e consapevole. In tal senso, certamente con una punta di arbitrio, nelle nostre società si è stabilito la maturità viene raggiunta dagli individui con il raggiungimento della maggiore età, a sedici o (in Italia) a diciotto anni. Nel periodo antecedente questa soglia di età la società ha il dovere di favorire nei singoli lo sviluppo della capacità di compiere una scelta effettiva fra più opzioni alternative o, il che è lo stesso, di far sì che essi diventino maturi per scegliere con consapevolezza. In questo senso è indubbio che solo una scuola pluralistica, non di parte, cioè laica, può offrire questa possibilità. D’altro canto non si può dimenticare che per i liberali la responsabilità è individuale e che, pertanto, i padri non possono determinare le scelte di vita dei figli.

Il tema laico, è ritornato di attualità, sotto nuova veste, a livello globale, in questi ultimi anni. Imponendosi, fra l’altro, forse, come il più importante tema nell’agenda della politica mondiale. Si può dire che ciò è avvenuto per il sopraggiungere di un “emergenza” connessa all’ all’incontro culturale fra le civiltà. La cosiddetta globalizzazione o mondializzazione ha fatto sì che, essendo il mondo ormai un unico “villaggio globale”, le identità culturali (in cui un ruolo sempre più importante continuano a giocare le religioni) vengano a contatto e competano per farsi spazio le une a discapito delle altre.

E’ un processo che, esasperato fra da vari fattori (sociali e politici in primo luogo), lungi dal mettere capo a un pacifico incontro e arricchimento reciproco, almeno in questa fase porta le singole identità a irrigidirsi e a concepirsi in modo sempre più dogmatico e impermeabile a forze esterne. In questa situazione, in crisi sembrano essere sia il modello fondato sul multiculturalismo dei paesi anglosassoni (ogni comunità è libera di organizzarsi come meglio crede nel suo ambito e contratta direttamente con lo Stato i propri diritti e doveri) sia quello “integrazionista” o “assimilazionista” della Francia (la Repubblica circoscrive uno spazio neutro in cui devono riconoscersi tutti gli individui, considerati nella loro singolarità e non in base alla propria comunità o appartenenza). In ogni caso, è indubbio che la strada laica imponga un dialogo che porti a comprendere l’altro quanto più possibile, ad esaltare gli elementi di dialogo e confronto presenti in tutte le culture. Forse la via giusta da seguire è quella di un “etnocentrismo critico”, cioè non di uscire dalla nostra cultura occidentale giudicando per principio buono ciò che è fuori di essa ma di essere sempre ben consapevoli che i giudizi con cui ci avviciniamo agli altri sono irrinunciabili ma sono pur sempre tali.

All’orizzonte, si profila poi un ‘altra “emergenza” per la laicità. Essa è connessa, a mio avviso, ai temi della bioetica, ai progressi che saranno sempre più rapidi e pervasivi della bioingegneria o dell’ingegneria genetica.

Mi riferisco in particolare alla capacità che oggi ha la scienza medica di intervenire non più sul solo corpo ma anche sulla stessa natura umana, manipolandola, quello che fino a poco tempo fa sembrava un “dato ultimo” e una precondizione di ogni cosa, la vita, diventa almeno in potenza materia a nostra disposizione e a suo modo “artificiale” e non “naturale”. Di fronte alla chiusura delle religioni, in primo luogo di quella cattolica che giudica “indisponibile” il dato della vita, c’è sia l’esigenza laica di salvaguardare la libertà della ricerca scientifica sia l’importantissima e concreta possibilità di approntare strumenti per la guarigione, fino a ieri ritenuta impossibile, di tante persone colpite da vari tipi di malattie genetiche o ereditarie. Anche in questo caso, essendo in gioco valori ultimi e questioni di principio, trovare un compromesso non è facile o è impossibile. Di fronte a chi perora con forza le ragioni dell’etica della convinzione, difendere le buone ragioni dell’etica della responsabilità è oggi più che mai il compito dell’uomo laico.

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