Senza una riforma dell’istruzione
la Tunisia non cambierà

Da Reset-Dialogues on Civilizations

In Tunisia occorre con premura una riforma del sistema universitario, parola di Ministro. Ad esprimersi è, infatti, Néji Jelloul, membro dell’esecutivo tunisino con delega all’educazione che ha recentemente partecipato ad una conferenza organizzata al CSID (Centro studi sull’Islam e la democrazia), sostenendo la necessità di una riforma universitaria con modalità “tipicamente tunisine”, ovvero una riforma realizzata con mezzi e competenze propri.

Prima della rivoluzione tunisina dei gelsomini (2010-2011), le università dipendevano dalle direttive ministeriali e gli stessi rettori erano nominati dal Presidente della Repubblica su proposta del Ministero, mentre dopo il 2011 il sistema ha subito qualche cambiamento a livello di governance.

A seguito delle rivendicazioni sindacali e rispondendo alle aspirazioni del personale docente e degli studenti universitari, sono stati avviati alcuni progetti di riforma, come per esempio la possibilità di eleggere direttamente i responsabili delle istituzioni e delle università. I rappresentanti regionali del Ministero dell’Educazione sono, infatti, oggi eletti democraticamente da un Consiglio dell’Università.

Quello che, però, emerge è l’assenza di un quadro giuridico coerente e, nonostante il sistema elettivo dei quadri sia cambiato, è evidente come perduri un immobilismo generale nell’organizzazione del sistema. Le istituzioni educative tunisine appaiono, infatti, soffrire per la malagestione dei fondi, per la complessità delle procedure di acquisto delle attrezzature, per le procedure amministrative troppo complesse e per le carenze qualitative e quantitative del personale docente ed amministrativo. Di fatto, inoltre, è sempre il Ministero a decidere “dall’alto” e senza consultazioni con la società civile i percorsi formativi e le strategie di ricerca.

I passi avanti percorsi dal 2006, attraverso le proposte di omologare il sistema tunisino a quello europeo del Processo di Bologna con un conseguente riconoscimento dei titoli e l’adozione di un sistema simile a quello comunitario (laurea triennale, master biennale e diploma di dottorato triennale), si sono realizzati solo parzialmente a causa della mancanza di fondi e di una visione politica coerente e a lungo termine.

La società civile sostiene l’esigenza di una riforma “dal basso” e di un maggior coinvolgimento decisionale di studenti e docenti nelle scelte delle priorità educative e nelle decisioni strategiche che riguardano la scuola e l’università. Tuttavia, non tutti sono d’accordo con questa ipotesi. C’è, infatti, chi è preoccupato da un eccessivo protagonismo della società civile, sprovvista di visione e di strategie coerenti per riformare le università, nonché incapace di una valutazione dei mezzi e delle risorse necessarie e di identificare le priorità a cui far fronte.

È innegabile, però, che una riforma tout court nel settore sia urgente. L’Unione dei Professori Universitari e dei Ricercatori tunisini (UPUCT), ad esempio, denuncia l’aumento di anno in anno del numero di disoccupati, l’assenza di cifre e statistiche chiare sulla riuscita universitaria, oltre che l’aumento dei cervelli “in fuga” verso le università più attraenti dei Paesi del Golfo. Dal quadro descritto dall’UPUCT emergono, però, anche casi di aperta violazione delle norme costituzionali, ovvero l’annullamento dei risultati delle elezioni universitarie post-rivoluzione da parte di alcuni Tribunali amministrativi che hanno confermato de facto ai decani e ai rettori una posizione accademica dominante nonostante il voto popolare.

Dopo la rivoluzione del 2011, la riorganizzazione del sistema educativo è considerata quasi una seconda tappa a livello di priorità. Nel Paese, infatti, non solo il sistema universitario, ma tutto il sistema educativo è “in ginocchio”, come ha recentemente ammesso il Ministro dell’educazione.  In un Paese dove i tassi di analfabetismo si attestano al 15%, si rende sempre più urgente una riforma del sistema tout court, strutturalmente legata ad una riforma del lavoro.

Dallo scorso giugno ad oggi sono stati organizzati numerosi incontri con il ministero – al momento sospesi per le proteste di Kasserine e Tunisi – ai quali per la prima volta hanno partecipato sia il corpo docente che gli studenti, per discutere della necessità di una riforma globale che prevedesse una nuova governance, nuovi curricula, più ricerca scientifica e lotta all’abbandono scolastico.

Quest’ultimo fenomeno, in particolare, sembra non avere soluzione. Il tasso di abbandono scolastico annuo si aggira all’8%, tanto che a partire dal 15 febbraio il governo adopererà delle metodologie deterrenti, quali l’attivazione di un sistema informatico che aggiornerà in automatico i genitori sul numero di assenze e sui punteggi ottenuti degli allievi.

Il problema, infatti, non consiste solamente nell’assenteismo e nell’abbandono scolastico, ma anche nella conseguente scarsa performance degli allievi.

Solo per citare un paio di esempi, secondo la classifica TIMSS (The Trends in International Mathematics and Science Study) del 2011, su 50 Paesi esaminati, la Tunisia si è collocata al 47esimo posto in matematica e al 48esimo in scienze; secondo PISA, l’indagine internazionale condotta dall’OCSE, nel 2012 gli studenti tunisini si sono collocati tra gli ultimi posti (sestultima posizione, seguiti solo da Giordania, Colombia, Qatar, Indonesia e Perù) in una classifica che ha valutato 65 Paesi per la qualità dei rispettivi sistemi di istruzione e delle competenze accademiche degli studenti.

In un Paese dove la crescita economica è debole, dove gli investimenti economici nel pubblico e nel privato sono in calo, non stupisce che la disoccupazione – stando ai dati ufficiali dell’Istituto Tunisino Nazionale di Statistica – sia aumentata di tre punti percentuali tra il 2010 e il 2015, passando dal 12% al 15%, fenomeno questo che colpisce anche chi è in possesso di certificati post-laurea (il 30% dei disoccupati).

Non sorprendono, pertanto, le recenti manifestazioni che hanno agitato il Paese, sulla pressione delle quali, in una riunione di gabinetto d’emergenza, il portavoce del governo Khaled Chouket ha annunciato la creazione 5.000 nuovi posti di lavoro. Risposta questa che appare completamente insufficiente rispetto al numero dei disoccupati (1.650.000), ai bisogni pressanti dei giovani tunisini e alle aspettative di dignità e di equità sociale promesse dalla Costituzione del 2014.

Slogan politici a parte, quello che manca è una visione di lungo periodo, che preveda la promozione di una buona governance e l’ottimizzazione delle risorse, che introduca l’autonomia delle università e degli istituti di insegnamento, evitando al contempo un dislivello tra i finanziamenti concessi agli istituti privati e a quelli pubblici.

Tuttavia le carenze non si riscontrano solo a livello logistico e organizzativo. A mancare sono anche gli studenti e i ricercatori. Vi è una diffusa diffidenza da parte della società civile nei confronti delle possibilità di riscatto sociale e di impiego offerte dal conseguimento di un’istruzione superiore ed è statisticamente provato che l’università tunisina stia diventando quasi esclusivamente “rosa”, essendo gli studenti maschi maggiormente costretti ad una scelta binaria tra fuggire all’estero e lavorare il prima possibile.

Il problema è che oggi in Tunisia, così come in alcuni Paesi europei mediterranei, l’università non seduce più le nuove generazioni. È anche vero, però, che le controproposte da parte della società civile esistono. Si chiede, ad esempio, un adeguamento dei curricula al mercato del lavoro e di uno loro riconoscimento in tutto il Maghreb, una riqualificazione del corpo docente e amministrativo, la promozione del lavoro d’équipe, la creazione di programmi ad hoc per i laureati disoccupati, il miglioramento delle condizioni lavorative, un ruolo maggiormente decisionale per i comitati scientifici sugli aspetti puramente accademici, l’esemplificazione delle procedure amministrative, l’aumento della mobilità e dell’internazionalizzazione degli atenei – con un avvicinamento al sistema anglosassone e non più solo a quello francese –, oltre che il monitoraggio dei servizi e della qualità e, ovviamente, maggiore trasparenza nella gestione dei fondi.

A cinque anni di distanza, per quanto sia difficile compiere bilanci in termini assoluti, emerge che poco è stato fatto per adeguare il Paese e il suo sistema educativo ai sistemi di istruzione occidentali e ad un’economia di tipo post-industriale, ovverosia basata su manodopera qualificata, alta tecnologia e su “un’economia della conoscenza”, che riecheggi i contenuti della disattesa Agenda di Lisbona (2000).

Il Barometro arabo, un sondaggio condotto tra il 2012 e il 2014, ha rilevato che le maggiori richieste dietro le cosiddette “Primavere arabe” consistevano nel miglioramento delle condizioni economiche, nell’ampliamento dei diritti civili e in una più generica domanda di dignità. Tali richieste erano ampiamente condivise da tutte le classi sociali e non solo dai gruppi svantaggiati, come ci si sarebbe aspettati. In tutti i Paesi del Maghreb si criticava la mancanza di sforzi da parte dei rispettivi governi nella creazione di lavori qualificati, nella riforma del sistema educativo e nella riqualifica di importanti servizi pubblici come trasporti,  infrastrutture e alloggi sostenibili. Il Rapporto della Banca Mondiale del 2015 sintetizza così le richieste delle piazze arabe: “il malcontento era associato a bassi standard di vita, alti tassi di corruzione e assenza di giustizia” (MENA Economic Monitor, WB, Oct. 2015 p.29).

La Tunisia che ha compiuto una rivoluzione all’insegna del rinnovamento sociale e costituzionale, non è riuscita, tuttavia, a trasformare i suoi processi economici, a democratizzare la produzione, a ridistribuire le risorse all’insegna di una maggiore equità sociale e ad attrarre gli investimenti esteri. Senza un serio ripensamento del sistema economico, le aspettative sollevate dalla rivoluzione tunisina rimarranno disattese, come è stato fino ad ora, anche nel sistema educativo. Non è possibile isolare la riforma dell’università – e dell’istruzione tout court – dal contesto politico generale nel quale dovrebbe essere applicata: l’università non è, infatti, né “un’isola felice” né  una “fabbrica di riscatto sociale”, ma rappresenta l’anello funzionale di una catena di istituzioni che devono tutte collaborare con un orientamento e degli obiettivi condivisi per un reale rinnovamento della società.

Nella foto di copertina: l’ingresso dell’Université de Tunis El Manar 

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