LIVING TOGETHER, DIFFERENTLY

Massimo Rosati

Docente sociologia generale Università di Roma Tor Vergata

Da Gezi ad Agos: l’indomito sogno della coesistenza tra popoli

La piazza Taksim che accoglie il formarsi del corteo non è la stessa degli anni scorsi. Perché sono molti di più i mendicanti sulla strada, alcuni che mostrano passaporti siriani; perché proprio il lato in direzione di Osmanbey, dove si trova la sede di Agos e verso cui il corteo si dirigerà, è quello da cui esce il nuovo sottopassaggio costruito per decongestionare (ove mai possibile) il traffico; e perché neanche il parco Gezi, che ha lasciato qualche centimetro alla nuova pavimentazione, è lo stesso degli altri anni: tra fine maggio e agosto ha visto la più grande protesta che la Turchia abbia vissuto nell’ultimo decennio almeno, e ancora la sera prima del corteo Gezi e Taksim sono stati teatro di pesanti scontri tra manifestanti e polizia, con uso di gas lacrimogeni, conseguenti alla manifestazione contro l’ulteriore giro di vite che il governo vorrebbe imporre all’uso di internet. Così, il grande spazio pedonale tra il monumento alla Repubblica, inaugurato nel 1928, e l’inizio del vialone che porta ad Osmanbey, diventa un catino in cui, già delle 12 circa, il servizio di sicurezza degli ‘Amici di Hrant’ – l’associazione che con la Fondazione Internazionale Hrant Dink cura la memoria del giornalista turco-armeno ucciso il 19 gennaio del 2007 – fa i preparativi per l’inizio della settima commemorazione. Per ragioni di sicurezza, Gezi park è chiuso, la polizia in assetto antisommossa sorveglia palmo a palmo che nessuno entri, e i tank con i cannoni ad acqua chiudono minacciosi il lato del catino opposto a Osmanbey. Così, in una giornata altrimenti di sole e quasi primaverile, Istanbul si prepara a commemorare, per la settima volta, la memoria di Hrant Dink.

Sono passati sette anni da quando è stata uccisa l’unica persona che avrebbe potuto porre fine ad un dibattito centenario, come perentoriamente afferma Gülten Kaya (moglie di Ahmet Kaya, cantautore turco curdo morto nel 2000, cantore di perseguitati politici e a sua volta perseguitato per anni) dal suo discorso dal balcone di Agos, il giornale in turco e armeno che Dink aveva fondato per cercare di cucire la memoria turco-armena dei fatti del 1915. Sette anni durante i quali si è passati, in sede processuale, dalla tragedia alla commedia: da una sentenza di condanna contro il solo esecutore materiale, allora diciassettenne, e relativa assoluzione di tutti gli altri principali imputati, ad una riapertura del caso nel settembre del 2013 dopo che la Corte d’Appello aveva sostenuto che gli imputati avevano agito come parti di un’organizzazione criminale e non individualmente, fino a più à recenti pronunciamenti secondo cui si tratterebbe di una organizzazione criminale finalizzata all’uccisione di Dink e non di un tassello di un disegno politico più ampio a cui far invece risalire, come ritengono gli avvocati Dink e parte dell’opinione pubblica, molti altri fatti di sangue ed eversivi della Turchia contemporanea (https://www.reset.it/blog/siamo-qui-fratello-mio-hrant-dink-sei-anni-dopo); la sostanza, in buona sostanza, è che non solo ieri lo Stato si è macchiato di pesanti connivenze e co-responsabilità nella morte di Dink, ma in questi anni e ancora oggi si macchia della responsabilità di non indagare a fondo, o addirittura di promuovere a posizioni di prestigio e potere uomini compromessi e omertosi. È per questo che Gülten Kaya dal balcone di Agos grida che Hrant Dink “è stato massacrato dallo Stato”, ossia da quegli apparati e da quella cultura che nell’opera di Dink vedevano il pericolo più grande: “i proiettili che hanno ucciso Hrant Dink hanno colpito anche il nostro impegno e un contratto sociale volti alla coesistenza tra i popoli, in cui ciascuno viva accanto all’altro e a contatto con la vita dell’altro. Una cultura della coesistenza per la quale Hrant Dink lottava e che cercava di far fiorire”. Ma è risaputo, si uccidono gli uomini, non le idee, e migliaia di persone anche quest’anno tra Gezi park e Agos portavano “insieme al (loro) dolore e sorrisi, i loro sogni per una umanità” come Hrant la immaginava.

Quest’anno tutto è iniziato prima del solito: sotto Agos l’allestimento del santuario sul marciapiede dove Dink è stato freddato, con garofani, candele, copie di Agos, in alto il grande striscione che ricorda i sette anni trascorsi, le immagini del volto di Hrant; a Taksim l’assembramento di persone, che iniziano a radunarsi molto prima delle 13.30, orario convenuto per l’inizio del corteo. Come se ci fosse bisogno di ritrovarsi, stare insieme. Come altro potrebbe affrontare la Turchia che crede nella democrazia e nel pluralismo i marosi di questo ennesimo passaggio turbolento della sua storia? Il governo Erdoğan, e Erdoğan in primis e più di chiunque altro, conferma di giorno in giorno la sua decisa sterzata autoritaria, la sua determinazione a rimangiarsi un decennio di riforme democratizzatrici. Dalla libertà di stampa ed espressione all’intromissione negli stili di vita individuali in nome di un conservatorismo islamico che Erdoğan è sovente tentato di voler tramutare in diritto positivo e impositivo; dalla gestione disastrosa della protesta di Gezi park alla guerra intra-islamica con il movimento Fethullah Gülen per le scuole preparatorie agli esami di accesso all’università prima e per lo scandalo corruzione dopo (https://www.reset.it/blog/cosa-ce-dietro-la-tangentopoli-turca) – un conflitto che in realtà ha radici più profonde –, fino alla tentata riforma della giustizia di questi giorni che altererebbe pesantemente la divisione dei poteri, le mosse di Erdoğan sono un susseguirsi di dichiarazioni di guerra a quella parte del paese che avanza critiche nei suoi confronti; non solo all’opposizione kemalista, ma anche e forse più a quel blocco liberale e democratico che per dieci anni circa ne ha appoggiato le riforme. Una svolta autoritaria che appare senza appello e senza speranza, in pieno stile islamo-kemalista.

In realtà, benché si tratti di una speranza disincantata, la Turchia che si raccoglie sotto Agos un po’ di speranza la nutre ancora nei confronti dell’Europa. Il 21 gennaio prossimo Erdoğan sarà a Bruxelles, per la prima volta dopo 5 anni, in un momento in cui l’Europa sta manifestando la sua preoccupazione per la riforma della giustizia, per lo stop imposto allo scandalo corruzione che investe l’AKP e tocca famigliari dello stesso primo ministro, così come ne aveva espressa in occasione della reazione violenta alla protesta di Gezi park. Alle critiche Erdoğan risponde con stizza, gridando ai complotti internazionali, dicendo ai critici di farsi gli affari propri, e sbandierando il 49 e passa % dei consensi nelle ultime elezioni politiche come prova sufficiente della sua legittimazione democratica. Però altri dietro le quinte cercano di cucire, o almeno di non allargare gli strappi; è questo il senso dell’iniziativa diplomatica dell’ultima settimana del Presidente Gül, da sempre figura più moderata, pragmatica, per ruolo istituzionale e per indole. Quel Presidente che, ancora un anno fa, aveva promesso impegno nella ricerca della verità sul caso Dink, sostenendo che ne andava della giustizia e dell’onore del paese. E dunque cosa dovrebbe fare la Turchia che crede nella democrazia e nel pluralismo se non, già prima dell’orario convenuto, scendere in strada e raccogliersi sotto il balcone di Agos? Cosa se non stare insieme a protestare in modo forte e deciso contro il fascismo di Stato, contro sette anni di complicità, connivenze e silenzi, ma con la ferma determinazione a rimanere idealmente accanto a Hrant Dink?

La verità, mi sia permesso osare tanto, è che oggi Hrant Dink è sempre più un simbolo, per la Turchia certamente, ma non solo a volerlo capire. Un simbolo controverso, come spesso lo sono i simboli, ma un simbolo. E la settima commemorazione del suo barbaro assassinio è stata ancora una volta anche una guerra di simboli. Vicino ad Agos campeggia un grande manifesto, che invoca la ridenominazione di via Ergenekon (luogo caro alla mitologia nazionalista turca, e nome dell’associazione segreta cui si può ricondurre la morte di Hrant come altri assassini politici contro esponenti di minoranze religiose, etniche e culturali in Turchia negli ultimi anni, http://www.caffeeuropa.it/index.php?id=2,679) in via Hrant Dink: un atto simbolico che indicherebbe una nuova direzione per la Turchia. Ma al tempo stesso, alla fine della commemorazione il corteo che tornava verso Taksim ha dovuto vedere membri delle forze di polizia schierati lungo la via indossare un berretto bianco, diventato a sua volta simbolo dei carnefici, perché indossato da Ogün Samast, l’allora diciassettenne killer materiale di Hrant. Una mamma china sulla figlia di non più di quattro anni le spiega, in inglese, che le grandi immagini sul palazzo di fronte sono di un uomo giusto, ucciso perché giusto, e la gente è lì a cantare per lui. Un gruppo di giovani supporter della squadra di calcio del Trebisonda, città da cui proveniva Ogün Samas (con il quale agenti della polizia locale si fecero fotografare sullo sfondo di una grande bandiera turca il giorno dell’arresto del killer), porta un cartello che recita ‘noi non dimentichiamo; noi siamo qui, dove sono i responsabili?’. Gülten Kaya dal balcone di Agos ricordando Hrant ricorda le vittime della repressione della protesta di Gezi park. Questo è il tema, il clima, l’aria che si respira nel 2014: lo spazio che lega Gezi park ad Agos.

Questa è la Turchia di oggi. Che però non perde la speranza, né il sorriso. Come il sorriso di quell’uomo giusto sopra ogni dubbio, che campeggia in mille immagini, in mille cuori; perché, come ancora Gülten Kaya ricorda, “le persone sono belle solo quando sorridono”.

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