Tunisia punto e a capo: il regime
prova ad azzerare dodici anni di storia

La Tunisia è protagonista di una svolta autoritaria che la porta indietro nel tempo, a prima che la Rivoluzione dei gelsomini le aprisse la strada della democrazia. Non è difficile trovare interlocutori che lo riconoscano sia fra coloro che hanno sostenuto finora l’operato del presidente della Repubblica Kaïs Saïed sia fra i suoi detrattori. In pochissimi, tuttavia, accettano di farlo alla luce del sole, mettendoci nome e volto: è di nuovo il momento della “prudenza”, del “calcolo dei rischi”, del “sempre meglio evitare”, perché la possibilità di ritorsioni anche per i propri familiari è concreta. Nei giorni in cui si attende di conoscere la composizione del nuovo Parlamento dopo il voto politico del 17 dicembre e del 27 gennaio, e si moltiplicano gli arresti di oppositori, ResetDoc ha sondato umori e inquietudini di alcuni intellettuali tunisini (ancora) in prima linea.

È il tasso di partecipazione – eccezionalmente basso per la Repubblica araba di Tunisia – l’elemento da cui Zyed Krichen, penna politica di spicco del quotidiano al-Maghreb, desidera partire per analizzare questa fase. “L’11,4 per cento, al secondo turno: una percentuale senza pari in un Paese in transizione democratica”, puntualizza il giornalista, anche commentatore per Radio Mosaïque. Per comprendere l’anomalia di queste urne legislative è sufficiente pensare al 2019, quando la partecipazione fu del 40 per cento degli aventi diritto. E ancora: “Vorrei che coglieste la differenza fra il 2011, quando al voto andarono 4 milioni di cittadini, e il 17 dicembre 2022, con neanche un milione”.

Due i percorsi interpretativi forniti da Krichen: “I tunisini evidentemente non sono interessati a questo processo, a questa trasformazione della Costituzione, della legge elettorale, delle prerogative del presidente della Repubblica”. Un cambiamento che l’editorialista fotografa così: “Non è un potere personale, piuttosto il potere di una persona estremamente sola”. E poi, “il suo (del presidente Kaïs Saïed, ndr) percorso prevede l’introduzione di una seconda camera parlamentare, alla gente questo non interessa nel modo più assoluto”. Ciò detto, il giornalista rifiuta l’equivalenza fra tasso di partecipazione al voto e fiducia nell’operato del capo dello Stato: “Questo non sarebbe corretto. È vero che fra i giovani ha perso molto sostegno rispetto all’inizio del suo mandato, ma i sondaggi e pure il ‘clima’ sociale attestano un supporto nei suoi confronti assai più alto di quella percentuale”.

Difficile formulare numeri attendibili, ma fonti incrociate fissano una forbice di gradimento, a seconda dei dossier affrontati dalla presidenza, fra il 40 e il 60 per cento. Meglio ricordare che all’indomani del coup del 25 luglio 2021, quando il raìs sospese l’immunità ai parlamentari e sciolse l’Assemblea del popolo invocando l’art. 80 della Costituzione e il contesto socio-politico di “grave pericolo per il Paese”, “più del 90 per cento dell’opinione pubblica aveva fiducia nel presidente. Ha comunque perso una buona metà di quell’approvazione”, si sofferma Krichen ripercorrendo la storia, recente, del presidente costituzionalista.

Tuttavia, il punto è un altro: i tunisini ritengono responsabile Saïed della débâcle nel Paese?

Krichen non ha dubbi: “Per la maggior parte no. Ritengono che sia colpa di chi ha gestito la Tunisia nel dopo Rivoluzione e pure del complotto esterno che ha preso di mira il benessere della popolazione”. Questa seconda narrazione, in particolare, è stata cavalcata dal palazzo di Carthage nell’ultimo anno e mezzo per giustificare la paralisi dell’economia e della vita politica, perdurante nonostante la ‘spallata’ al sistema partitico messa in atto dal capo dello Stato. Questa dunque la chiave interpretativa indicata dal giornalista: c’è chi non ha votato, ma comunque non attribuisce alcuna colpa al presidente. Semplicemente, gli dà una carta bianca virtuale e si ritira dall’attivismo politico: “Che ci pensino gli altri”, è il pensiero sotteso.

Un ritratto del presidente Kais Saied (Foto di Fethi Belaid/AFP)

Un po’ come, nell’Egitto pre-rivoluzionario, tra 2010 e 2011, i sociologi parlavano di “partito del divano”, formato da una schiera, maggioritaria, di popolazione inattiva politicamente.

Un discorso a parte, spiega l’intellettuale, meritano le élite – culturali, industriali, politiche – che “hanno tutte rotto con il presidente”, e proprio questo “spiega i tentativi del palazzo di restringere la libertà d’espressione, di manifestazione, di riunione”. L’editorialista conserva un residuo ottimismo: “È complicato per Saïed agire in un Paese in cui giornalisti, intellettuali, gente di cultura si esprimono in pieno giorno, criticano, dibattono. E i sindacati organizzano proteste. I cittadini discutono, gli studenti si riuniscono. Esistono e lavorano media indipendenti”. Krichen afferma di essere ancora “piuttosto libero” di lavorare: “Ma mi rendo conto che questo equilibrio è fragile, affidato alla volontà degli editori e dei proprietari delle testate di opporre resistenza”. Una situazione completamente diversa rispetto “agli anni ‘80, ‘90”, anche se “il potere (Krichen scandisce con solennità la parola francese le pouvoir) diventa nervoso, crede in un complotto interno ed esterno per scalzarlo ma non siamo ancora alla dittatura per come l’abbiamo conosciuta”.

La domanda da un milione di dollari è la seguente: il presidente tunisino sarà in grado, se dovesse essere il caso, di accettare la perdita del sostegno popolare, lui che si considera la migliore soluzione alla crisi nazionale?

“Psicologicamente io non credo che possa accettare una sconfitta in modo sportivo”, chiosa Zyed Krichen. Ipotizzare il ricorso al supporto militare appare, però, “prematuro” in questa fase storica. L’ex professore di Diritto costituzionale cercherà di “plasmare il gioco a proprio vantaggio fino all’ultimo”, prima di gettare la spugna. Rivoluzionario conservatore, Saïed ha espresso fin dall’inizio della sua discesa in politica il progetto, piuttosto vago, di trasferire una parte della ricchezza acquisita in modo illecito, dalla classe dirigente del Paese ad associazioni benefiche. Con l’obiettivo di cambiare completamente il quadro socio-economico. Per il momento tuttavia il quadro rimane fumoso, e il modello economico-finanziario di riferimento resta liberale e liberista.

In piena attività accademica quando ormai manca poco all’inizio del mese sacro di Ramadan, Amel Grami parla dal suo ufficio in università. Scrittrice ed editorialista, ma innanzitutto voce libera, con amarezza e lucidità dice: “Ho la sensazione di essere tornata indietro nel tempo. Come me tutti coloro che hanno fatto attivismo politico sotto Ben Ali. Siamo di nuovo in uno Stato di polizia”. Il suo giudizio brucia particolarmente: Grami è stata fra gli intellettuali tunisini che a Kaïs Saïed hanno dato un margine di credito, subito dopo il suo colpo di mano del luglio 2021. Questo in funzione anti islamista. “Non c’è niente di nuovo, tutto già visto. Le foto degli oppositori del presidente, soprattutto i giovani, vengono pubblicate sui media filo-governativi. Si procede con gli arresti e le intimidazioni, anche a livello accademico. Oggi parlare di libertà è tornato ad essere pericoloso”, spiega la docente. Anche a livello di società civile la difesa degli attivisti è limitata, la reazione dell’opinione pubblica non è più quella di prima.

Come si giustifica il sostegno popolare al presidente?

“Con la nostalgia della stabilità economica e sociale secondo me. E poi il fascino del leader populista che esce senza scorta e si mescola alla sua gente, che combatte contro la corruzione”, risponde Grami sottolineando che “non c’è spazio al momento per analisi razionali”. L’appoggio a Saïed si basa oggi su un diffuso “stato emotivo” della gente, che per di più non può contare su media critici e vigilanti: “Le reti nazionali offrono una carrellata di giornaliste giovani e imbellettate senza preparazione e professionalità. Notiamo il ritorno di discussioni sul velo islamico per le donne, delle tradizioni e così via” e lo svuotarsi dell’informazione di analisi e dibattito.

La composizione del prossimo parlamento sarà cruciale per la Tunisia nei prossimi mesi, ma se ne parla poco: “A mio giudizio, si tratterà di una massa di supporter di Saïd. Non possiamo generalizzare perché a parte qualche individuo sono persone sconosciute, ma non aspettiamoci una dinamica ricca di confronti e discussioni. Sarà una Camera fatta apposta per passare le leggi proposte dal raìs”.

L’Assemblea dei rappresentanti del popolo, secondo quanto dichiarato dall’Istanza superiore per le elezioni, si installerà al più tardi il 15 marzo. La lista civica “Per la vittoria del popolo”, con cui hanno partecipato al voto candidati sedicenti “vicini al progetto del 25 luglio, ma partigiani della popolazione, non del presidente”, ha già riferito di contare su 42 seggi e di essere in trattativa con altri potenziali 16 indipendenti, interessati ad un avvicinamento. L’Assemblea sarà composta da 161 membri, di cui 30 già eletti al primo turno e 7, quelli delle circoscrizioni all’estero, ancora da votare per mancanza di candidati. Pochissime le donne: secondo risultati preliminari, non più di 25.

Nel frattempo, il presidente può contare su alleati potenti nel Golfo: gli Emirati hanno sempre visto di pessimo occhio la dinamica democratica tunisina. Un precedente pericolosissimo per l’intera regione Mena, soprattutto per il ruolo strategico delle donne, protagoniste della richiesta di diritti. “Pensiamo anche all’Iran: il ruolo delle donne nell’assalto al regime islamico totalitario è centrale e mette in crisi tutto il modello patriarcale di società e vita politica”, dice Grami. Anche sul lato opposto del Mediterraneo, il silenzio nei confronti dell’autoritarismo di ritorno è assordante. Per non parlare degli attacchi razzisti nei confronti dei migranti africani: “Il gasdotto che passa sul territorio tunisino – sintetizza la docente – è troppo importante per l’Europa”.

Grami ricorda con dovizia di particolari “quando si partiva per conferenze ed eventi all’estero, si parlava liberamente fuori, ma al rientro era sicuro il passaggio in qualche ufficio di polizia in aeroporto”. Adesso, si ricomincia: “Bisogna prendere delle contromisure, essere vigilanti”, anche rispetto alle proprie frequentazioni. Allo stesso tempo, però, la professoressa Grami non vuole dimenticare il suo “vissuto alle spalle”: “Non posso fare marcia indietro, è una questione di coerenza personale”, dice con gravità ricordando il cammino anti-totalitarista di una vita.

Oggi, la svolta autoritaria si avvantaggia delle divisioni esistenti nella società: “C’è chi, pur avendo un background democratico, sostiene Saïed perché va bene tutto, purché non si tratti di Ennahda (il partito islamista moderato, detentore della maggioranza politica dal 2011 al 2019). E infatti, fra le donne democratiche, ci sono le sostenitrici del presidente e pure quelle contro. Sono uno specchio di quanto succede nella società in genere”. “Mancanza di volontà, fatica, disincanto” caratterizzano una parte della popolazione secondo la docente. Ci sono due Paesi, agli opposti: “Chi continua a partire, anche in condizioni drammatiche, e l’élite che riempie i ristoranti, prende il sole, balla”. Ma c’è anche il fattore generazionale: “Ora tocca ai giovani chiedere riforme, difendere la democrazia, farsi sentire. Sono in molti a pensarlo, fra coloro che hanno vissuto da protagonisti la rivoluzione e ora sentono quasi di aver buttato via inutilmente tanti anni di vita”.

Foto di copertina: un votante alle urne (foto di Fethi Belaid/Afp).

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