Migranti in Marocco,
il limbo di chi sceglie di restare

Nel 2014, per la prima volta nella sua storia, il Marocco ha annunciato una Strategia nazionale per l’Immigrazione e l’Asilo che prevede una serie di azioni e di programmi volti a promuovere l’accoglienza e l’inserimento degli immigrati nel tessuto sociale, lavorativo ed educativo del Paese. Nello stesso anno ha lanciato una campagna di regolarizzazione che ha consentito a 23mila migranti, in maggioranza subsahariani, di ottenere un permesso di soggiorno. Nel 2017 la seconda fase di questa campagna ha portato a 50mila il numero delle persone messe in regola. Oggi il Marocco è l’unico Stato della sponda sud del Mediterraneo ad avere adottato tali misure per rispondere all’emergenza di un nuovo fenomeno migratorio che l’ha visto diventare non solo un Paese di emigrazione e di transito, ma anche di accoglienza per centinaia di migliaia di persone.

Il Marché Dakar di Casablanca, Marocco (foto di Rabii El Gamrani)

Questa iniziativa ha messo il Marocco nelle condizioni di potersi accreditare come un interlocutore prezioso per l’Europa – da sempre incapace di adottare una politica comune in materia di migrazione – e parallelamente di presentarsi ai Paesi subsahariani come il fratello maggiore portatore di nuove opportunità di sviluppo e di cooperazione. Il discorso ufficiale parla di un approccio “umanizzante” che intende favorire l’accoglienza e l’inclusione, tuttavia i fatti segnano un divario crescente tra quelle che sono le intenzioni e la realtà. La mancanza di strumenti giuridici adeguati, l’indecisione della politica ad assumere delle misure chiare circa le procedure di regolarizzazione, la difficoltà di trovare un’occupazione, la tendenza delle comunità migranti a ghettizzarsi, la realpolitik che trasforma la migrazione in un campo di battaglia geopolitico o ancora la resistenza di una parte della società marocchina ad accettare questi nuovi “cittadini”: sono molte le sfide che autorità, società civile e migranti devono ancora affrontare.

Ciò non riguarda solo i cosiddetti migranti di transito, il cui trattamento oscilla tra la tolleranza e la repressione, ma si estende anche a chi ha scelto di stabilirsi nel Paese. La storia di Ali, un giovane senegalese che vive a Rabat da 3 anni, ne è l’esempio lampante. Chi viene dal Senegal è dispensato dal visto per l’ingresso in Marocco. Per poter accedere legalmente al territorio nazionale deve però acquistare un biglietto di andata e ritorno e dimostrare al momento della partenza di possedere i mezzi di sussistenza necessari per tutta la durata della sua permanenza, che non può superare i 90 giorni. Giunto in Marocco e dopo mesi di attesa per un appuntamento, Ali ha potuto presentare una richiesta d’asilo presso l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), che gli consente di restare nel Paese senza correre il rischio di essere allontanato ma non gli permette di lavorare, anche se di fatto è impiegato in una società marocchina di catering in nero.

In assenza di una legge nazionale per l’asilo è l’ente onussiano a occuparsi delle verifiche dei requisiti e del riconoscimento o meno dello status di rifugiato. Se la richiesta è accolta, il richiedente deve rivolgersi poi a una commissione marocchina: il Bureau des réfugiés et apatrides (Bra) che la valida e rilascia il permesso di soggiorno. Questo organo nazionale sovrano in teoria non ha però l’obbligo di convalidare tutte le richieste accolte dall’Unhcr.

Ali si è laureato a Dakar in Letteratura e Civiltà spagnola e partendo dal Senegal sperava di trovare lavoro presso uno dei tanti call center del Paese che assumono operatori subsahariani, ma si è presto reso conto che per poter essere assunto deve avere un permesso di soggiorno, ottenibile solo con un contratto di lavoro. È un circolo vizioso. Nella disperazione ha tentato di scalare la barriera che separa Nador da Melilla, ma è stato acchiappato e spedito indietro. Da allora ha abbandonato l’idea e preferisce restare in Marocco. Ali mostra un atteggiamento fiero, ma c’è un sentimento di amarezza che trapela da ogni sua parola. Qualche mese fa ha perso la madre, ma non ha potuto darle un ultimo saluto perché durante la fase istruttoria della domanda d’asilo non può lasciare il Marocco. Se fosse tornato in Senegal sarebbe stato costretto a rifare tutto daccapo.

Il Marché Dakar di Casablanca, Marocco (foto di Rabii El Gamrani)

Sono migliaia i migranti subsahariani che si trovano oggi ostaggi di un ingranaggio burocratico frustrante che li tiene in uno spazio sospeso fra la legalità e l’illegalità. Secondo Laura Zizolfi, associate Rsd officer – che accerta l’idoneità dei rifugiati – all’Unhcr, “l’ufficio di Rabat riceve ogni anno 5mila richieste d’asilo, un numero elevato che il personale ha difficoltà a gestire”. Ciò spiega in parte le tempistiche relativamente lunghe. “Come media possiamo dire che servono circa 11 mesi per avere una risposta finale – spiega Zizolfi – ma la normativa internazionale prevede di priorizzare certe categorie rispetto ad altre, perciò alcune richieste sono espletate nel giro di pochi mesi, come nel caso dei minorenni non accompagnati o delle donne in gravidanza, mentre altre possono richiedere più tempo, anche qualche anno”.

A Casablanca c’è un luogo che è più di tutti l’emblema della compenetrazione fra il Nord Africa e l’Africa subsahariana: il Marché Dakar. Questo mercato sorto nel 2012 è completamente dedicato alle comunità sub-sahariane e si ha l’impressione di trovarsi a Dakar, Abidjan o Douala. I colori, gli odori, la cucina, le lingue, le facce, il modo di vestirsi… Qui è inutile cercare il couscous o il tè alla menta, ci sono il Mafé, piatto tipico maliano, il Tiep Bou Dien, pietanza senegalese e il caffè Tuba. Punti di ristoro, barbieri e parrucchiere, sarti, estetiste e massaggiatrici, negozi di abbigliamento o di prodotti alimentari: tutto arriva dall’africa subsahariana.

Aicha è senegalese, ha una bottega dove fa manicure che non supera i due metri quadrati e paga un affitto di 4mila dirham (400 euro). Appena incomincio a porle qualche domanda si mostra un fiume in piena. Arrivata 15 anni fa a Casablanca ha ottenuto un permesso di soggiorno grazie alla sanatoria del 2014, che ha potuto rinnovare automaticamente nel 2017. Il documento sta per scadere ed è molto preoccupata circa la possibilità di poterlo rinnovare, non potendolo giustificare con un contratto di lavoro o di un certificato di residenza – poiché vive in un appartamento preso in subaffitto da altri connazionali – sa già di essere in difetto con quanto richiedono ora le autorità. Quando le chiedo se si sente discriminata, dice che non ha dubbi sul fatto che in Marocco non ci sia un razzismo sistematico nei confronti dei migranti. Secondo lei i marocchini hanno un’indole generosa. Una generosità che le ha permesso di sopravvivere durante il periodo del Covid-19, quando l’emergenza sanitaria l’ha costretta a un lungo periodo di inattività. In assenza di un sostegno dalla parte delle autorità marocchine, che avevano riservato gli aiuti ai soli cittadini in difficoltà, lei e la sua famiglia hanno potuto fare affidamento su amici e conoscenti marocchini.

Il Marché Dakar di Casablanca, Marocco (foto di Rabii El Gamrani)

Il vero razzismo, a suo dire, Aicha l’avrebbe vissuto in Tunisia dove ha trascorso un anno, prima di approdare in Marocco. Le ultime dichiarazioni del presidente Kais Saied e il fuggi fuggi che ne è seguito hanno risvegliato in lei vecchie ferite. Nonostante le incertezze il trasferimento in Marocco ha rappresentato per lei e per la sua famiglia un salto di qualità, perciò ha scelto consapevolmente di non tentare il sogno europeo. In termini numerici i senegalesi sono la prima comunità migranti in Marocco, i legami fra i due Paesi risalgono a molto lontano e si esprimono non solo attraverso uno scambio umano incrociato, ma anche tramite la tradizione islamica sufi. Difatti una delle confraternite più influenti in Senegal fondata da Ahmed Tijani ha la sua sede principale nella città marocchina di Fes.

Inoltre qui i suoi due figli possono accedere gratuitamente alle cure mediche e alla scuola. Prima di congedarmi mi presenta il figlio Daouda, un bambino di 6 anni che parla perfettamente arabo. La madre le chiede scherzosamente se si sente marocchino o senegalese, Daouda che non ha mai messo i piedi in Senegal le risponde con una convinzione che non lascia spazio ad alcun dubbio: “Ana Maghribi, sono marocchino.” Mentre sono ancora là, lo vedo giocare con il pallone gridando i nomi dei calciatori marocchini che ci hanno fatto sognare durante gli ultimi mondiali in Qatar. Daouda anche se è nato in Marocco non può accedere alla cittadinanza marocchina, la legge non concede la possibilità di naturalizzazione quando si è figli di stranieri nati fuori dal Marocco.

Il timore di Aicha circa il rinnovo del suo titolo di soggiorno è più che fondato. Negli ultimi mesi molte associazioni come Gadem o l’Association Marocaine des Droits de l’Homme (AMDH) hanno denunciato che dalla fine della pandemia le autorità marocchine hanno inasprito senza preavviso le condizioni di rinnovo dei permessi. Oramai occorre presentare tutto un dossier composto da un contratto di lavoro, buste paga, un certificato di residenza, il casellario giudiziale, un certificato medico e un titolo di viaggio in corso di validità. In realtà la maggior parte dei migranti non sono in grado di fornire tutta questa documentazione, perché sono maggiormente occupati nel settore informale, lavorando per conto proprio o a nero. Perciò molti non potendo rinnovare i loro permessi si sono trovati all’improvviso in una situazione di irregolarità. Le autorità non hanno fornito spiegazioni circa questo cambiamento di rotta. Un fatto che fa temere a tanti di fare l’oggetto di procedure di espulsione.

L’artista camerunense Salvador Tomnyuy (foto di Salvador Tomnyuy)

Una sorte che ha toccato ad un amico camerunense. Conosco Salvador da diverso tempo, è un artista affermato che vive in Marocco dal 2015, ha esposto i suoi lavori nelle più importanti gallerie di Casablanca, Rabat e Tangeri ricevendo un’eccellente critica e diversi quotidiani e magazine specializzati gli hanno dedicato articoli di elogio. Proviene dal Nord Ovest del Camerun da quella parte anglofona del paese che è in conflitto da anni con il potere centrale. Al suo arrivo in Marocco ha presentato anche lui la richiesta di asilo, ma paradossalmente l’Unhcr non l’ha accolta. Ha provato poi a regolarizzare la sua situazione durante la sanatoria del 2017, ma la domanda è stata rigettata perché uno dei criteri per la regolarizzazione era di trovarsi nel paese da almeno 5 anni. Quindi è stato costretto a restare in uno stato di irregolarità, riuscendo comunque a portare avanti una carriera artistica, a costruire delle relazioni personali e professionali, un esempio riuscito di integrazione insomma. Fino a quando qualche mese addietro le autorità marocchine gli hanno notificato l’obbligo di dover lasciare il territorio nazionale.

Un’opera dell’artista Salvador Tomnyuy

Quella dei camerunensi è una situazione ancora più complessa perché contrariamente ad altri subsahariani, come i senegalesi o gli ivoriani, loro per poter entrare legalmente nel paese devono ottenere un visto dal consolato marocchino a Yaoundé. Salvador non ha rinunciato al desiderio di riprendere la sua vita in Marocco, ma è sempre in attesa del visto. Un’attesa logorante per chi come lui aveva disposto tutte le sue speranze in un paese che sembrava rappresentare un’alternativa valida per quei migranti che non vogliono rischiare le loro vita sulle rotte della migrazione irregolare verso l’Europa.

“Dalla fine del 2017 la questione migratoria è ad un punto morto” per Mustapha Azaitraoui, professore di Geografia sociale dell’Università Sultan Moulay Slimane di Beni Mellal: “La cosiddetta strategia Nazionale d’Immigrazione e d’Asilo risponde più a un’agenda di politica estera che a un’accurata volontà di mettere in atto una politica di accoglienza per un Paese che non è più solo terra d’emigrazione e di transito. Le collettività territoriali non hanno voce in capitolo riguardo alla gestione della migrazione. Un dossier che rimane prerogativa delle alte sfere del potere. Inoltre il sistema educativo marocchino e le varie strutture sociali non sono adatti alla diversità e alla complessità del fenomeno migratorio e le autorità fanno poco o niente davanti a un crescente sentimento d’insofferenza da parte di molti marocchini nei confronti dei migranti”.

 

Le foto, inclusa quella di copertina e qualora non esplicitato diversamente, sono di Rabii El Gamrani, tutti i diritti sono riservati. 

 

 

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