Libano, la scommessa di Adib.
Un outsider per la ricostruzione

Il Libano prova a voltare pagina. E nel farlo si affida ad un uomo che non fa parte delle grandi famiglie che hanno da sempre segnato la storia, spesso drammatica, del Paese dei Cedri: l’attuale ambasciatore libanese in Germania Mustafa Adib è stato designato oggi primo ministro incaricato della formazione del nuovo governo in Libano. Adib, 48 anni, ha ricevuto il mandato con il voto favorevole di 90 parlamentari su 120, raccogliendo il sostegno di Hezbollah e dei suoi alleati, oltre che quello del “Movimento del Futuro” dell’ex primo ministro Saad Hariri, che si era dimesso tre settimane fa a causa delle violente proteste per la devastante esplosione dello scorso 4 agosto.

Diciassette parlamentari hanno votato per altri candidati fra cui l’ex ambasciatore del Libano ed ex Rappresentante Permanente per il Libano alle Nazioni Unite Nawaf Salam che ha ricevuto quattordici voti. Gli altri parlamentari si sono astenuti o non hanno partecipato al voto.

 

Un Paese da rifare

Nelle ultime ore, in attesa di una nuova visita del presidente francese Emmanuel Macron, i partiti libanesi hanno anche avviato una discussione sulle possibili riforme istituzionali necessarie a rendere più efficace il sistema di governo del paese. Lo stesso Hezbollah si è detto pronto a discutere le modifiche che il presidente francese aveva chiesto ai libanesi nella sua visita a Beirut il 6 agosto, due giorni dopo l’esplosione del porto.

“Siamo aperti a qualsiasi discussione costruttiva sull’argomento, ma a condizione che sia volontà di tutti i partiti libanesi”, ha detto in un discorso Hassan Nasrallah, leader della formazione filo-iraniana, riferendosi all’appello di Macron. Il leader del movimento sciita non ha specificato quali cambiamenti è disposto a considerare, ma ha detto di aver “sentito critiche da fonti ufficiali francesi sul sistema confessionale libanese” e sulla sua incapacità di risolvere i problemi di un Paese travolto da una crisi socio-economica senza precedenti, aggravata dalla pandemia del Covid, e segnata dal collasso finanziario.

In aggiunta, il presidente della Repubblica, il cristiano Michel Aoun, ha fatto la sua proposta: “Poiché sono convinto che solo uno Stato laico è in grado di proteggere il pluralismo, di preservarlo trasformandolo in una reale unità, chiedo che il Libano sia dichiarato uno Stato laico”. Aoun si è impegnato a “chiedere il dialogo tra autorità religiose e leader politici per arrivare a una formula accettabile per tutti e che possa essere attuata attraverso opportuni emendamenti costituzionali”.

Impegni e promesse che andranno tutti verificati alla prova dei fatti. Perché non basta certo l’indicazione di un pur abile diplomatico di carriera, qual è Adib, a premier incaricato per sgomberare le nubi pesanti che continuano ad addensarsi sul futuro del Paese dei Cedri.

Per cogliere appieno, e fuori da letture di parte, lo spessore dei problemi che il premier designato dovrà affrontare in quella che appare come una “mission” al limite dell’impossibile, un “breviario” prezioso è offerto da un rapporto scritto da quattro tra i più autorevoli studiosi libanesi: Ziad Abu-Rish, professore associato di diritti umani presso il Bard College (USA) e research associate presso il Lebanese Center for Policy Studies (LCPS); Wassim Maktabi, ricercatore presso LCPS; Mounir Mahmalat, ricercatore senior presso LCPS; Sami Atallah, direttore esecutivo di LCPS.

 

Rompere lo status quo

“Le dimissioni del governo di Hassan Diab, in seguito alle ricadute delle esplosioni del 4 agosto a Beirut, non offrono, di per sé, alcuna garanzia in termini di rottura dello status quo nella vita politica libanese – affermano gli autori del rapporto – La formazione di un gabinetto di unità nazionale, che comprenda ancora una volta i rappresentanti di ciascuno dei partiti politici tradizionali del Paese, sembra essere una delle strade preferite da alcuni di questi ultimi e da alcuni Paesi stranieri, nella misura in cui potrebbe permettere di assicurare un certo consenso politico e quindi aumentare la probabilità che le riforme siano convalidate dal Parlamento. Tuttavia, un tale governo non farebbe che aggravare l’attuale tragedia in Libano. È proprio la collusione tra queste parti e la loro condivisione del potere statale e delle risorse pubbliche che sono in gran parte responsabili del male, della sofferenza e della frustrazione di tanti libanesi dalla fine della guerra civile (1975-1990). Una sofferenza che ha raggiunto il suo apice con le esplosioni nel porto di Beirut e la distruzione di quasi metà della capitale, di cui sono responsabili anche questa assemblea dei partiti politici e il sistema da loro creato. Un governo di unità nazionale soffrirebbe quindi di una totale mancanza di legittimità nei confronti dei cittadini che hanno trascorso mesi in strada chiedendo una transizione verso un sistema politico ed economico più responsabile, trasparente e reattivo”.

“Per affrontare le molteplici e contemporanee crisi che scuotono il Paese – rimarca il documento del LCPS– il Libano ha bisogno soprattutto di un governo veramente indipendente dalle élite politiche tradizionali, composto da donne e uomini competenti che condividano una visione comune per far progredire il Paese. Un tale governo permetterebbe di rompere con gli attori politici che hanno condotto il paese contro il muro. Potrebbe anche attuare rapidamente ed efficacemente importanti politiche e riforme che allevierebbero le crisi e faciliterebbero la transizione verso uno Stato responsabile e trasparente, che risponda ai suoi cittadini così come alle altre categorie di residenti (rifugiati, lavoratori migranti, ecc.).

Tuttavia, per garantire la sua efficacia ed evitare le recenti insidie, questo governo deve necessariamente avere l’assenso da parte del Parlamento ad emanare decreti con forza di legge in ambiti di intervento ben definiti e relativi al trattamento immediato della crisi attuale. In assenza di tali poteri legislativi, qualsiasi nuovo governo si troverebbe di fronte a interventi delle élite politiche tradizionali che utilizzano il Parlamento come avamposto per ostacolare qualsiasi iniziativa che possa danneggiare i loro interessi. Questo è il caso in particolare del governo Diab, che era di fatto pesantemente condizionato da alcune di queste élite. Certo, è difficile immaginare che la maggior parte degli attuali blocchi parlamentari possa accettare di dare la propria fiducia e tali prerogative a un governo che potenzialmente minaccerebbe la loro sopravvivenza politica. Tuttavia, questo scenario potrebbe essere facilitato da due fattori che potrebbero esercitare pressioni: da un lato, un rinnovamento delle proteste di massa e altre forme di mobilitazione popolare intorno a questa domanda principale; dall’altro, una pressione analoga sui partiti politici dominanti da parte di una comunità internazionale che finalmente invertirebbe la sua pratica di sovvenzionare di fatto la riproduzione dello status quo politico”.

 

Precedenti storici

“L’esperienza di governi con poteri legislativi eccezionali non è nuova in Libano, almeno prima degli accordi di Taif”, ricordano gli autori.  “Durante diverse crisi, il Paese dei Cedri ha utilizzato questo tipo di governo per aggirare i conflitti politici e i blocchi procedurali che impedivano un’azione rapida ed efficace per affrontarli. Il primo di questi fu il gabinetto indipendente di Riad el-Solh (settembre 1943-gennaio 1945), autorizzato nel 1944 a creare i quadri istituzionali necessari per la ripresa degli “interessi comuni” siro-libanesi ereditati dal mandato francese. Successivamente, tra il 1952 e il 1988, il Parlamento libanese ha autorizzato sette governi ad esercitare un potere legislativo molto maggiore. Questa responsabilizzazione legislativa è sempre stata per un breve periodo di tempo, che in alcuni casi variava da due a nove mesi, e ha coperto una gamma specifica di aree di competenza, che variava da caso a caso – dalla riorganizzazione amministrativa alle questioni economiche, finanziarie, fiscali, sociali e societarie. In totale, questi vari governi hanno emesso più di 350 decreti legge, una media di 50 decreti legge per governo.

Ogni volta, questi governi hanno avuto il potere di emanare tali testi a seguito di gravi crisi: le dimissioni del presidente Bechara el-Khoury nel 1952; la crisi politica del 1958; la guerra arabo-israeliana del 1967; la guerra biennale (1975-76); l’invasione israeliana del 1982 e il crollo della sterlina libanese nel 1984.

Ad esempio, la prima legge elettorale che garantisce il diritto di voto alle donne libanesi, a lungo respinta dalle successive legislature nonostante i continui sforzi di lobbying e il dibattito pubblico, è stata adottata con decreto legge sotto il governo di Khaled Chehab (settembre 1952-aprile 1953). Dopo una campagna di mobilitazione popolare a suffragio femminile, il gabinetto di Chehab ha adottato per la prima volta una legge elettorale che concede questo diritto alle donne con un’istruzione di base per le elezioni parlamentari del 1953. Rifiutando tale eccezione, il movimento delle donne e i suoi alleati politici sono riusciti a far sì che il governo di Chehab modificasse la legge elettorale per generalizzare questo risultato, permettendo così alle donne libanesi di votare e di candidarsi alle elezioni da allora.

Un altro esempio importante, e particolarmente illuminante nel contesto attuale, è quello del governo guidato da Rachid Karamé tra il dicembre 1966 e l’agosto 1968: quando lo scoppio della Guerra dei Sei Giorni causò il panico tra i risparmiatori, a questo governo furono concessi poteri legislativi eccezionali (in materia economica e finanziaria, e di sicurezza pubblica) che gli permisero di approvare rapidamente una legge sul controllo del capitale per evitare qualsiasi “corsa in banca”. Questa legge provvisoria è stata poi rapidamente abrogata una volta scongiurato il pericolo.

Per affrontare le conseguenze dei primi due anni della guerra civile, al gabinetto di Salim Hoss (dicembre 1976-luglio 1979) sono stati conferiti due poteri legislativi, sia per la “ricostruzione del Paese” che per “lo sviluppo e l’organizzazione degli affari finanziari, economici, sociali, di sicurezza, di difesa, di informazione e di educazione”. Il Gabinetto ha così promulgato diversi testi che hanno portato a cambiamenti istituzionali duraturi, tra cui la legge municipale del 1977 (che ancora oggi costituisce la base del sistema attualmente in vigore in questo campo) e la creazione del Consiglio per lo sviluppo e la ricostruzione.

Certo – annota il rapporto a conclusione di questa impegnativa  cavalcata storico-politica – l’efficacia complessiva di questi governi dipendeva in parte anche dalla conformità delle loro missioni agli interessi dominanti dell’epoca, e certamente queste misure non sempre riflettevano le aspirazioni e le esigenze della maggioranza della popolazione. Tuttavia, questi diversi esempi e i rispettivi contesti storici forniscono due lezioni. Innanzitutto, nonostante il loro carattere eccezionale, tali governi non sono affatto una novità nella storia politica libanese: tra la proclamazione dell’indipendenza e gli accordi di Taif, non è passato un decennio senza che i parlamentari libanesi (sostenuti dai rispettivi Presidenti della Repubblica) siano stati indotti, in un momento o nell’altro, a concedere poteri legislativi limitati ai gabinetti incaricati di rispondere rapidamente alle crisi politiche, economiche e/o sociali dell’epoca. Successivamente, questi diversi poteri legislativi si sono rivelati decisivi per consentire a questi diversi gabinetti di agire efficacemente in questo settore e di introdurre significativi cambiamenti istituzionali e strutturali”.

 

Riforme strutturali

I vari esempi storici citati forniscono un’indicazione del tipo di prerogative che un tale governo potrebbe avere. Si tratterebbe in primo luogo della progettazione e dell’adozione di una nuova legge elettorale, nonché di una commissione elettorale, che consentirebbe di garantire l’equità dello scrutinio e l’effettiva possibilità di alternanza politica. Questi poteri legislativi potrebbero poi consentire al nuovo governo di effettuare una verifica di tutte le istituzioni potenzialmente coinvolte nelle molteplici crisi del Paese (fiscale, monetaria, bancaria e valutaria) e di introdurre una legge sul controllo del capitale e altre misure di emergenza per controllare la situazione prima di attuare un piano di uscita dalla crisi a medio e lungo termine. Inoltre, un gabinetto con potere legislativo potrebbe emanare una risposta centralizzata del governo all’esplosione. Infine, questi poteri riguarderebbero la gestione centralizzata ed efficiente delle conseguenze delle esplosioni del 4 agosto (in termini di soccorso e assistenza alle vittime, nonché di trasparenza delle indagini), nonché la risposta alla crisi sanitaria legata alla pandemia di Covid-19.

Sta ora al premier incaricato provare a dar corpo ai suggerimenti contenuti nel rapporto dei quattro studiosi. Ma per farlo, Mustafa Adib dovrà liberarsi dall’abbraccio mortale dei suoi interessati sponsor che tutto vogliono tranne che chiamarsi fuori dalla spartizione del potere. Su questo, i protagonisti della “Rivolta di Piazza dei Martiri” non sono disposti a fare sconti a nessuno, tanto meno a chi ha portato il Libano sul baratro della bancarotta e dall’essere l’ennesimo Stato fallito in Medio Oriente.

 

Foto: AFP

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