Greenberg: «Biden ha l’elezione in pugno, ora convinca i giovani»

Tre presidenti li ha visti da vicino, nelle vesti all’epoca inedite di “sondaggista in capo”: Nelson Mandela in Sudafrica, Tony Blair in Gran Bretagna, Bill Clinton nei suoi Stati Uniti. Ma Stanley Greenberg non è solo uomo di numeri. Al suo lavoro di stratega di rilevazioni e focus groups, tuttora richiestissimi da politici e aziende in cerca di lumi, Greenberg ha da tempo affiancato quello di saggista e analista, tutt’altro che disimpegnato. È stato lui, fra i primissimi, a fotografare la spaccatura “totale” della società statunitense con The Two Americas: ben prima, era il 2004, che la lacerazione diventasse fuoco politico nell’era-Trump, e ora reale con le rivolte e i disordini seguiti all’omicidio di George Floyd. Ma oggi Greenberg non ha dubbi: i Democratici si apprestano a riprendere il controllo del Paese, forse perfino con una vera onda di piena, spiega in quest’intervista a Reset che sarà parte di un Dossier speciale sulle rivolte americane sulla rivista internazionale Reset Dialogues on Civilizations. La vera domanda, semmai, sarà come sapranno utilizzare tale potere “totale” per governare una nazione uscita a pezzi dalla pandemia.

Rivolte per le strade e sui social media, progetti di riforma della polizia, monumenti abbattuti e un Presidente che pare all’angolo. La morte di George Floyd ha scoperchiato la pentola a pressione delle rivendicazioni sociali. Può essere un tornante di svolta storico, come decenni fa l’assassinio di Martin Luther King o la guerra in Vietnam?

Sì, il paragone non è azzardato, è un momento di trasformazione cruciale per il Paese: quanto è successo ha reso semplicemente impossibile ignorare sino a che punto il razzismo influisce su ogni aspetto della vita in America, dall’ordine pubblico agli affitti alla sanità, e penso ci sia ora un larghissimo consenso attorno alla necessità di dare una risposta a questa piaga. Ma le proteste hanno messo a nudo la gravità non solo della questione razziale, ma di tutti i tipi d’ingiustizia. Le code chilometriche di fronte alle food banks rendono l’idea del livello d’ingiustizia sociale esacerbato dall’amministrazione Trump prima, e dalla pandemia poi in ogni area del Paese. Senza dimenticare l’ingiustizia politica di un sistema in cui i grandi gruppi d’affari hanno un peso sproporzionato sui processi decisionali. Le disuguaglianze razziali, ma anche politiche ed economiche sono diventate il tema.

Il terreno più scivoloso per un presidente uscente in cerca di riconferma.

A giudicare dai numeri degli scommettitori, sino a due settimane fa, pareva tutti fossero convinti che Donald Trump sarebbe stato rieletto. Ma chi pensava questo, mi si permetta, era cieco di fronte alla realtà del Paese. Come scrivevo già mesi fa in RIP GOP (il suo ultimo libro, ndr – Thomas Dunne Books, 2019), dopo lo shock della vittoria del 2016, l’America si è rivoltata immediatamente contro Trump, e ad ogni occasione che ha avuto per farlo nei quattro anni successivi ha fatto sentire la sua voce contro di lui. Ovunque: dalla Virginia al New Jersey, dal Kentucky alla Louisiana, passando per le elezioni di mid-term, in cui i Democratici hanno staccato i Repubblicani di nove punti. Il Paese è in rivolta contro di lui, e le manifestazioni provocate dai fatti di Minneapolis ne sono oggi la prova evidente. Per le strade c’è un’America diversa, multiculturale, e i sondaggi dimostrano che il 65% dei cittadini sta con loro. È una forza che si appresta ad esprimersi nelle prossime elezioni.

Per raccogliere quella spinta, insomma, serve solo la calamita giusta. Joe Biden lo sarà? La sua affermazione nelle primarie democratiche, anche prima del blocco imposto dalla pandemia, non è parsa esattamente una cavalcata entusiasmante.

Sono state primarie molto particolari, ma la ragione è strettamente legata a quanto spiegavo: gli elettori democratici erano assolutamente determinati a sconfiggere Donald Trump. Il Paese era in rivolta contro di lui, ed essi cercavano un veicolo, il leader con le maggiori probabilità di batterlo. Sanders aveva il sostegno del 25-30% circa della base, ma il resto dei Democratici era convinto che fosse ineleggibile, che Trump l’avrebbe sconfitto. Mentre Biden dopo le difficoltà iniziali ha iniziato a risalire la china e a rosicchiare consensi agli altri competitor. Gli elettori Dem hanno usato la testa, e la tattica. Hanno seguito dibattiti e trend d’opinione, atteso spesso gli ultimissimi giorni prima del voto per sciogliere la riserva, e poi nel Super-Tuesday definitivamente incoronato il candidato con le maggiori chances di battere Trump: Joe Biden. Forse non ne sono stati entusiasti, ma determinati sicuramente: in moltissimi Stati non si è mai registrato un tasso di partecipazione così alto.

Mancano meno di cinque mesi al voto. Cosa può fare Biden per accorciare le distanze con l’elettorato e mettersi in tasca la vittoria?

È evidente che a causa della pandemia a Biden verrà a mancare lo slancio elettorale che dà il trionfo vero e proprio di una primaria: la crescita dei delegati, i discorsi notturni di vittoria, la riunificazione “plastica” del partito attorno al candidato. Ma soprattutto, Biden deve ancora guadagnarsi il sostegno dei giovani. Nei nostri sondaggi, ancora due settimane fa era chiaro che non li aveva convinti: anzi sembrava quasi allontanarsi da loro proprio mentre guadagnava terreno tra gli elettori più anziani, tipicamente più conservatori, infuriati con Trump per la gestione della pandemia e la sua superficialità nel proteggere le vite. Ma ora è chiaro che la vera forza “nucleare” arriverà dai giovani. Perché sono loro quelli che si sono ripresi le strade; ma anche perché i millennial costituiscono il 35% degli elettori registrati per quest’elezione. E sebbene non si siano ancora allineati a Biden, sono in larghissima parte contro Trump. Non è un caso che gli argomenti di Biden nelle ultime settimane abbiano già cominciato a cambiare: ora si concentra molto di più sulla questione della giustizia razziale, ma anche sulle disuguaglianze più in generale e sulla corruzione economica – temi di cui non parlava durante le primarie. Le proteste hanno cristallizzato la determinazione delle persone, e soprattutto dei millennial, ad unirsi e ad andare a votare. E credo proprio che questa forza si trasformerà in un largo sostegno per i Democratici nel nome del cambiamento.

Il difficile per Biden, se sarà eletto, sarà accontentare le attese di sostenitori tanto diversi, dalla sinistra movimentista sino ai Repubblicani in fuga da Trump alla Mitt Romney.

Certo, se le cose vanno come mi aspetto il paesaggio politico ne uscirà rivoluzionato: da un lato avremo un partito repubblicano in frantumi, con le forze che l’hanno dominato in questi anni come il Tea Party e gli evangelici sugli scudi per non perderne il controllo; dall’altro i Democratici col controllo di Casa Bianca e Congresso, ma alla guida di un Paese economicamente a pezzi. Come useranno il potere conquistato? Saranno in grado di vedere le sofferenze della classe lavoratrice, quella che gli aveva voltato le spalle quattro anni fa, e dar loro risposte? Io credo che non avranno altra scelta, e dunque si dovranno spostare su posizioni più progressiste, consolidando un ruolo più interventista dello Stato. Così come sta già accadendo da voi in Europa. In questo senso, per l’America sarà un’elezione altamente “formativa”.

La versione integrale dell’intervista a Stanley Greenberg è disponibile su ResetDoc.

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