La strategia di legalità e moderazione
che ha salvato la primavera di Tunisi

“Bisogna riconoscere che la Costituzione tunisina non è stata solo opera dell’Assemblea Nazionale Costituente, ma ha di fatto rappresentato un traguardo raggiunto congiuntamente da tutta la società nel suo complesso”. Il giurista Yadh Ben Achour ha contribuito in misura significativa all’elaborazione della nuova carta costituzionale tunisina, osannata in tutto il mondo come documento da cui traspaiono apertura e tolleranza. Romain Faure e Manuela Lenzen lo hanno intervistato a proposito del percorso compiuto dalla Tunisia nel contesto della Primavera Araba.

 

La Primavera Araba si è più o meno trasformata in una Primavera Tunisina. In che modo gli eventi occorsi in Tunisia si sono differenziati dagli altri che hanno interessato la regione?

Bisogna sottolineare due aspetti. Il primo può sembrare paradossale, e consiste nel fatto che la Tunisia per tutta la durata della rivoluzione ha mantenuto un approccio “legalista”. Dopo la caduta di Ben Ali, è stata rispettata la Costituzione allora in vigore nominando al suo posto il Portavoce del Parlamento, Fouad Mebazaâ, quindi facendo di fatto assumere la carica di capo dello Stato a un personaggio appartenente al regime quanto l’ex presidente. Ovviamente, quest’uomo era ormai completamente privo di qualsiasi credito e tutto ciò che gli è restato da fare è stato firmare i documenti che gli presentavano. Tuttavia, in questo modo il vuoto di potere per un certo lasso di tempo è stato sia colmato che lasciato tale, e questo ha consentito alle varie correnti rivoluzionarie di organizzarsi per poter collaborare. Le cose sarebbero andate in maniera molto diversa se il successore di Ben Ali fosse stato direttamente uno dei leader della rivoluzione. Per forza di cose si sarebbe attirato l’opposizione di tutti i partiti e il Paese sarebbe senza dubbio precipitato nel caos.

Il secondo aspetto da non tralasciare riguarda la storia del nostro Paese. I tunisini stanno raccogliendo i frutti del bourguibismo e della modernità introdotta da Bourguiba all’indomani dell’indipendenza. Mi riferisco, soprattutto, alla libertà concessa alle donne e alla parità tra i sessi. Bourguiba è stato il padre e l’iniziatore dell’istruzione di massa in Tunisia. Ha dato vita al sistema sanitario nazionale. Ha creato un’amministrazione che per moltissimo tempo, almeno a livello nazionale, ha lavorato benissimo. È stato insomma all’origine della nostra moderna società civile. Ed è stato questo a permettere allo scenario tunisino di controbilanciare gli assalti teocratici di Ennahda.

Lei ha svolto un ruolo molto importante nella stesura della nuova Costituzione. Quali questioni sono state maggiormente oggetto di dibattito?

Il primo punto di cui si è parecchio discusso è stato la natura dello Stato. Personalmente mi sono speso molto per far sì che la Costituzione stabilisse che la nostra nazione è uno Stato civile, premessa attualmente sancita nell’Articolo 2. “La Tunisia è uno Stato civile basato sulla cittadinanza, la volontà popolare e lo Stato di diritto”. Questa è stata la nostra prima vittoria democratica. La seconda, che pure ha comportato enorme sforzo, è stata l’inserimento nella Costituzione tunisina della libertà di coscienza: è stato molto difficile ottenere l’approvazione dell’Assemblea Costituente, in quanto libertà di coscienza vuol dire che è consentito rinnegare la propria religione, atto assolutamente proibito dal diritto islamico tradizionale. Il terzo punto oggetto di dibattito è stata la questione dei diritti delle donne. L’Articolo 46 della nuova Costituzione riconosce la parità tra uomini e donne e ne sancisce il carattere di principio istituzionale. Ancora una volta, la Tunisia è l’unico Paese arabo ad aver compiuto un passo del genere. Il quarto punto su cui si sono verificati degli attriti è stato il tema dell’appartenenza sia alla modernità che alla comunità arabo-islamica. Fino a un certo stadio della discussione, tutti gli articoli proposti insistevano principalmente sui tratti arabo-islamici propri della nostra società, e noi continuavamo a ribattere che non era abbastanza. Bisognava anche far cenno dell’appartenenza alla civiltà globale, alla cultura dei diritti umani, alla cultura della democrazia, tutti aspetti che sono stati aggiunti. Per quel che riguarda tutte le questioni che ho citato, la vera vittoria non è andata al governo o a chi era al potere – alla troika – ma piuttosto a tutta la società civile e ai partiti di opposizione. Bisogna riconoscere che la Costituzione tunisina non è stata solo opera dell’Assemblea Nazionale Costituente, ma ha di fatto rappresentato un traguardo raggiunto congiuntamente da tutta la società nel suo complesso.

Ma al di là di tutto, che contributo ha dato alla stesura della Costituzione Ennahda, partito di maggioranza dell’Assemblea? Non è possibile che sia rimasto del tutto passivo.

Assolutamente no, infatti. Nell’introduzione, per esempio, c’è il riferimento alla comunità arabo-islamica e ai precetti dell’Islam. La Costituzione stabilisce anche che il presidente debba essere un musulmano. Queste, e anche altre, sono tutte tracce dell’influenza di Ennahda. Ma è stato abolito il concetto secondo cui l’Islam è la religione di Stato. L’Articolo 1 sancisce che la religione della Tunisia è l’Islam. È stato oggetto di consenso perché tale articolo esisteva già nella Costituzione del 1959, quella dell’epoca di Bourguiba.

Alla stesura della nuova Costituzione ha contribuito anche la teologia islamica?

Indirettamente sì. La Tunisia non ha una vera e propria tradizione rivoluzionaria, ma il nostro Paese è stato segnato da grandi movimenti riformisti, di matrice specificatamente religiosa. Tali riforme sono state avviate, nel Diciannovesimo secolo e all’inizio del Ventesimo, dai teologi islamici. I teologi hanno auspicato, per esempio, la riforma del sistema pedagogico islamico e il rinnovamento di quello giudiziario, e hanno invitato a interpretare la religione per finalità piuttosto che per precetti testuali. Era gente che accettava la nozione per cui sono le credenze a porre le fondamenta di una società, ma la loro teoria era che la fede dovesse anche essere un fatto privato di ciascun singolo individuo. La religione non deve diventare un elemento fondante del diritto. Per quel che riguarda la politica, deve accompagnarsi a un pubblico dibattito che coinvolga istituzioni e società. Grazie al riformismo, il sistema religioso è stato oggetto di una riforma interna. Oltretutto, ad oggi i nuovi filosofi islamici mostrano una spiccata apertura nei confronti della cultura occidentale, e pur rimanendo degli osservanti si stanno rendendo protagonisti di un rinnovamento del pensiero islamico classico. La loro istruzione non si è consumata nel contesto tradizionale delle università islamiche: hanno piuttosto ricevuto un’istruzione moderna nelle facoltà occidentali o in quelle del nostro Paese con approccio più moderno.

L’islamismo radicale si configura come una reazione a questo genere di riformismo?

Assolutamente sì. L’islamismo radicale non accetta di evolversi, preferisce restare ancorato a un passato immutabile. Per l’islamismo radicale, l’Islam è stato fondato dal Profeta e deve rimanere identico a se stesso, per sempre. Questo genere di fondamentalismo ha esponenti ovunque, in tutti i mezzi di comunicazione, in tutte le reti televisive. Quando ho visto la prima volta il discorso del leader dello Stato Islamico, il “califfo” al-Baghdadi, mi ha fatto ridere, perché recitava i versi del Corano di Maometto e gli hadīth imparati a memoria. Non ha detto niente di nuovo. Non una parola, non un’idea, nessuna fantasia. Il radicalismo islamico del jihadismo, del salafismo, è una reazione al cambiamento epocale che sta vivendo l’Islam. È un fenomeno di disperazione, e nel giro di qualche decennio non se ne parlerà più.

Che ne pensa della Primavera Araba? Molti Stati al momento stanno attraversando problemi seri.

La storia attuale mostra il diffuso consolidarsi di un Islam rinnovato, a fronte del quale l’Islam radicale si rifiuta di evolversi, reagendo con modalità altrettanto forti e diffuse. Credo che il futuro darà ragione all’Islam rinnovato. Non esiste rinnovamento senza reazione. Del resto, alcuni Stati sono certamente in difetto. I leader dello Stato Islamico non sono piovuti dal cielo, per la maggior parte si tratta di ex soldati dell’esercito di Saddam Hussein: militari di mestiere, ex ufficiali, che a un certo punto sono stati abbandonati a loro stessi, senza lavoro e senza opportunità.

Come vede il futuro della Tunisia?

Continuo a essere ottimista. Credo che la Tunisia risolverà tutti i suoi problemi. Se ci riusciremo, sarà perché godiamo di una solida struttura sociale e di una società civile robusta. Possiamo contare, nel nostro Paese, su élite intellettuali che ci aiuteranno a opporci alle frange radicali, tradizionaliste e conformiste. È vero che gli islamisti hanno vinto le elezioni del 2011, ma non hanno conquistato il potere sociale. Non sono mai riusciti a imporre il proprio punto di vista né sulla Costituzione né sulla società tunisina. Il giorno dopo che Ennahda ha presentato all’Assemblea Nazionale Costituente il paragrafo relativo alla complementarietà tra uomini e donne, decine di migliaia di donne sono scese in strada a protestare contro un qualcosa che era ancora solo un progetto. Ennahda ha dovuto ritirare la proposta e la vera vittoria in Tunisia, secondo me, è andata ai manifestanti. E quindi, alla società.

 

Quest’intervista è stata condotta in occasione di una conferenza tenuta da Yadh Ben Achour al centro di Ricerca Interdisciplinare dell’Università di Bielefeld, in Germania. L’originale tedesco di questo articolo è stato pubblicato sulla rivista svizzera Neue Zürcher Zeitung il 6 gennaio 2015 (pag. 3-4).

Traduzione di Chiara Rizzo.

 

Leggi l’intervista in inglese sul sito di Reset DoC.

 

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