Da Reset Dialogues on Civilizations
É il settimo primo ministro tunisino in meno di sei anni e in assoluto il più giovane mai nominato dai tempi dell’indipendenza dalla Francia, nel 1956. Youssef al-Chaahed, 40 anni, ingegnere agronomo già ministro degli Affari locali nel Gabinetto di Habib Essid, ha di fronte a sé un incarico non da poco, se possibile peggiore rispetto a quello del suo predecessore, fra economia in sofferenza, società in subbuglio e politica sul ring. E lo spettro del jihad così presente da spingere le autorità a rinnovare lo stato d’emergenza in piena stagione estiva, per tutelare quel poco di turismo che ancora sopravvive al terrore.
Eppure il Parlamento tunisino gli ha dato fiducia con un ampio margine: 168 voti a favore su 217.
Sarà perché il nuovo premier proviene da Nidaa Tounès, il partito creato dal presidente della Repubblica Béji Caïd Essebsi e guidato dal figlio Hafedh Caïd Essebsi; oppure perché l’Esecutivo varato è più “fresco” di quello precedente e dà l’impressione di saper gestire le strategie comunicative con destrezza.
La sostanza però cambia di poco: i margini di manovra dei nuovi 26 ministri (e 14 sottosegretari) sono ridotti, mentre gli interventi necessari a rilanciare il Paese, sotto tutti i punti di vista, sono mastodontici.
al-Chaahed, fondatore di un piccolo partito liberale moderato, la Via di centro, nel 2011, appena crollato il regime di Zine el-Abidine Ben Ali, ha aderito successivamente alla piattaforma centrista di al-Jumhuri (polo catalizzatore di forze repubblicane) e infine ha accettato, come numerosi professionisti e imprenditori connazionali, taluni rientrati dall’estero appositamente, la variegata proposta politica di Nidaa Tounès nel 2013.
La “Chiamata della Tunisia” vorrebbe essere un movimento laico, ma non laicista; sgorgato dal fiume della tradizione politica di Bourghiba; liberale e nazionalista. Per gli osservatori critici, invece, nei primi anni di vita si è configurato come un’armata composita di giovani, decisi a rimboccarsi le maniche per cambiare il Paese, e di volti noti dell’ancien régime, quelli meno compromessi e quindi “tollerati” dall’opinione pubblica.
Nidaa ha già attraversato una crisi di identità nel 2015 e proprio al-Chaahed è stato incaricato da Essebsi di rimettere al tavolo negoziale gli avversari più agguerriti e trovare una quadra. L’esito delle trattative è cosa nota: il dissidente Mohsen Marzouk se ne è andato e lo scorso 24 luglio ha aperto il primo congresso di un nuovo partito, da lui fortemente voluto (Il progetto per la Tunisia).
In molti si chiedono se Nidaa – che nel frattempo ha visto i propri deputati passare dagli 85 delle urne agli attuali 67 – possa davvero combattere la corruzione, varare riforme economiche strutturali, procedere sulla strada dell’inclusione politica di tutte le voci del Paese. Intanto, Ennahda, La rinascita, che si è misurata con la ricostruzione del Paese in solitaria e ha preferito imboccare la strada delle alleanze allargate, è di nuovo in maggioranza, con 69 deputati.
Youssef al-Chaahed ha innanzitutto eliminato una zavorra non da poco, l’Union patriotique libre dal nuovo Esecutivo (Upl, 12 deputati in Parlamento e 4 ministri nel passato Governo): il numero uno Slim Riahi, uomo d’affari dal profilo opaco, come lo definisce la stampa tunisina, è ora fuori dai giochi politici. Al posto dell’Upl hanno fatto il loro ingresso Voie démocratique et sociale, al-Jumhuri et al-Massar.
Ridotta inoltre l’influenza di alcuni grandi vecchi della scena nazionale membri di Nidaa, la porta è stata aperta a sindacalisti, socialisti, laici apertamente anti-islamisti. E alla prima donna araba ministro delle Finanze, Lamia Zribi, indipendente.
Gli islamisti di Ennahda hanno ottenuto sei ministeri di tutto rispetto, fra cui Commercio e Industria, ma nessun potere di veto sui nomi dei colleghi. Da questo, una certa tensione fra primo ministro e vertici del movimento islamista.
Da notare che il fuoriuscito Marzouk ha da subito dato il proprio sostegno al Governo nascente, giudicando l’operato del premier sganciato da influenze esterne.
E che il nuovo Esecutivo tunisino è giovane (cinque ministri sotto i 35 anni) e femminile (otto fra ministre e sottosegretarie).
Finite le foto di rito e le strette di mano, ora viene la parte più difficile. C’è il dossier Sicurezza: la Tunisia è assediata dentro e fuori dal jihadismo.
La cronaca nera del 2015 è punteggiata di stragi (museo del Bardo di Tunisi, Sousse, ancora Tunisi con l’attacco all’autobus della guardia presidenziale) che ne hanno rivelato la vulnerabilità, oltre a mettere in luce le ambizioni destabilizzatrici dell’islamismo armato.
Evidentemente, la scelta, per molti versi obbligata, di “esportare” le mele marce verso altri fronti alla lunga si è trasformata in un boomerang: sono almeno 5 mila i volontari tunisini partiti per Siria, Iraq, Libia e da ultimo Yemen. Quelli di Libia, di stanza non solo a Sirte con il Daesh, ma anche accampati a Sabrata, poco distante dal confine tunisino, hanno più volte cercato di rientrare in patria armati di tutto punto. E sono stati fermati con il sostegno di agenti scelti inviati da Londra ufficialmente “con lo scopo di addestrare” i colleghi tunisini.
Ma la montagna con cui il Gabinetto al-Chaahed dovrà misurarsi è quella economica. Secondo i principali sindacati dei lavoratori tunisini, il debito ha ormai superato i limiti di accettabilità: si stima una cifra pari al 70% del Pil, cioè circa 27 miliardi di dollari (50 miliardi di dinari tunisini).
Gli investitori stranieri fuggono verso il Regno del Marocco, considerato più stabile; le riserve di valuta estera evaporano; l’export è in caduta libera.
Al premier uscente Habib Essid (in arabo, ‘essid’ vuol dire leone) si rimproveravano l’autoritarismo e, al contempo, la debolezza dell’azione economica. Quanto rimarrà dunque nelle grazie presidenziali Youssef al-Chaahed (in arabo, ‘testimone’)? Di certo alla Tunisia non servono testimoni della débâcle in atto, ma protagonisti di una svolta mai arrivata.