In Tunisia con l’hip hop
si combatte il terrorismo

Da Reset-Dialogues on Civilizations 

Wessaïa, Governatorato di Kasserine, Tunisia. Novembre 2016.

“Bassem, otto anni”. “Kais, dodici anni”. “Alaa, dieci anni”.
Seduti in cerchio sulla terrapolverosa, trenta ragazzi tra gli otto e i venti anni, si presentano e si esibiscono a turno in un giro di break dance, compiendo acrobazie per noi inimmaginabili, incuranti del vento freddo che soffia dai monti sovrastanti la pianura, nel luogo in cui questo gruppo di ballerini hip hop, i Ghar Boys, alla lettera ragazzi della grotta, ha deciso di creare una palestra a cielo aperto. Wessaïa, frazione di poco più di mille abitanti al confine con l’Algeria, in cui gli asini pascolano tra i fichi d’india, è cerniera tra due mondi: quello della pianura, dove la vita segue il suo normale corso, e quello delle montagne che circondano Kasserine – i monti Semmama, Chaambi e Salloum – in cui si aggira una minaccia inedita e allo stesso tempo reale e fantasticata: da più di tre anni è terreno di scontro tra l’esercito tunisino e i miliziani della brigata Okba Ibn al-Nafaa. La brigata Okba Ibn al-Nafaa è un braccio ufficiale di al QaÏda nel Maghreb Islamico (AQMI) e le sue radici risalgono alla guerra civile algerina degli anni ‘90. AQMI si oppone all’influenza occidentale in Nord Africa e sostiene l’istituzione di un califfato islamico, attraverso il rovesciamento di quello che il gruppo considera come un governo di “apostati”.

Nel caos che ha seguito la rivoluzione del 2011, alcune bande armate jihadiste hanno stabilito delle zone di resistenza sulle montagne tunisine al confine con l’Algeria e gli scontri con le forze di sicurezza sono andati via via inasprendosi, con un bilancio negli ultimi tre anni di più di ottanta morti e duecento feriti, tra forze dell’ordine e civili. Lo stesso attentato al Museo del Bardo del 18 marzo 2015 è stato imputato dalle autorità di Tunisi al gruppo Okba Ibn al-Nafaa. Le forze di sicurezza tunisine hanno risposto agli attacchi dei miliziani con una campagna militare attorno alle tre montagne, imponendo una zona chiusa lungo la frontiera algerina. Per gli abitanti di Wessaïa, questo significa non poter più portare al pascolo i loro montoni o raccogliere le erbe selvatiche da rivendere al mercato, come hanno sempre fatto. Lo scorso maggio due donne che si trovavano a camminare in montagna per raccogliere rosmarino sono state uccise dall’esplosione di una mina.

Semmama_JMBaigorria_13“La zona militare comincia a duecento metri dal villaggio e se gli abitanti si allontanano troppo verso la montagna, vengono fermati dall’esercito e costretti a fare marcia indietro. Se vi è un’operazione militare in corso, la zona militare chiusa viene estesa fino al villaggio stesso” spiega Adnen Hleli, professore di francese originario di Wessaïa, oggi residente sulla costa, ma che torna regolarmente al suo villaggio d’origine per trasmettere ai bambini e ai ragazzi del luogo l’amore e l’importanza della cultura. “Queste restrizioni hanno avuto un impatto negativo molto forte sull’economia locale, e, anche se i miliziani non hanno mai attaccato la popolazione, a volte scendono nei villaggi della zona per rubare provviste, acqua e cibo”. Da questo villaggio agricolo dell’entroterra tunisino la maggioranza dei giovani parte a studiare o a lavorare nella capitale o nelle grandi città costiere. Pochi sono quelli che decidono di proseguire il mestiere dei loro genitori e dei loro nonni, la pastorizia e l’agricoltura. Dimenticata e marginalizzata sin dai tempi dell’Indipendenza nel 1956, con un tasso di disoccupazione doppio rispetto alla media nazionale, ufficialmente al 17% e un indice generale di sviluppo dello 0,16, di fronte allo 0,76 su scala nazionale, la regione di Kasserine è oggi doppiamente penalizzata.

In questo contesto di povertà e abbandono, Daesh ha infatti trovato un fertile bacino di reclutamento tra i giovani, che, disillusi e frustrati dall’atteggiamento dei governi centrali nei loro confronti, decidono di raggiungere le fila del jihadismo, non tanto per fanatismo religioso quanto piuttosto per rivendicare una propria identità e un’affermazione di sé, che da sempre è stata loro negata.“Qui pesa soprattutto questo strano silenzio da parte dello Stato, che si accontenta di bombardare le cellule. Questa ormai da molti anni è una regione di esodo. È necessario quindi lottare culturalmente, economicamente e socialmente, altrimenti queste montagne diventeranno proprietà dei jihadisti – prosegue Adnen – conosco molte persone che si sono unite a Daesh, a causa della delusione e del vuoto, e sono dei suicidi, si stanno suicidando. E noi questo non possiamo permetterlo”.

Semmama_JMBaigorria_8Assieme al fratello Mounir, direttore della scuola primaria, ad artisti ed insegnanti del luogo, ha fondato l’“Association des Collines”, che ha come scopo principale quello di creare degli spazi di vita culturale in questa zona rurale dimenticata, attraverso il recupero della cultura tradizionale locale. Ateliers di animazione per giovani, dove si imparano le canzoni popolari del luogo e quelle della tradizione francese dei Trovatori, il recupero e la rielaborazione dei gioielli tradizionali presi in prestito dalle nonne, un corso di oud, il liuto tradizionale arabo e il cinema. Mentre i più piccoli scoprono divertiti la magia di Charlie Chaplin, all’interno di un cinema allestito dentro un vecchio pollaio ristrutturato dagli abitanti del villaggio, i più grandi si allenano ad una nuova coreografia di breakdance.

“Il terrorismo si radica nella povertà. Ci sono molti giovani disoccupati, le cui famiglie non possiedono nulla. Questi ragazzi passano il loro tempo per strada, senza fare nulla: per loro Daesh rappresenta un’opportunità, è un mezzo di sussistenza, per avere dei soldi.” sottolinea Othman Hleli, ex militare in pensione che ha messo a disposizione delle comunità il proprio pollaio per trasformarlo in centro culturale. “Ci vuole dunque sì il lavoro, ma soprattutto la cultura, affinché questi giovani non si isolino dalla società”.

Adem, vent’anni e una testa piena di capelli ricci, si è avvicinato alla breakdance a diciassette, quando – al matrimonio del cugino – ha visto un suo compagno di scuola ballare. “Ci alziamo presto qui in montagna. In estate alle cinque, appena c’è luce e fa più fresco, ci troviamo qui alla grotta per allenarci. Durante le vacanze estive, tutti i giorni, anche la sera verso le cinque. Durante l’inverno, nei fine settimana e dopo la scuola, finché non fa buio noi continuiamo”. Con Halim, Anwar e Skander, ha deciso di non aspettare l’intervento dello stato, ma di farsi strada da solo nel panorama artistico tunisino, attingendo esclusivamente ai propri mezzi, esigui ma potenti: la passione per la danza, un cellulare e tantissima energia.
“Siamo un gruppo di trenta, qualche volta anche quarantacinque bboys (ndr ballerini di breakdance), tra gli otto e i venticinque anni. Noi, i più grandi, insegniamo ai più piccoli i passi base, poi con i cellulari mettiamo la musica e a volte possiamo anche guardare i tutorial su youtube per imparare nuovi passi e poi esercitarci”.

bimbi tunisiaGrazie all’Association des Collines, venti bambini hanno partecipato lo scorso novembre ad un atelier di breakdance ad Hammamet, tenuto dalla massima referenza hip hop in Tunisia, il ballerino e coreografo Chouaib Brik. La maggior parte di loro non era mai uscita da Wessaïa e per la prima volta ha visto il mare, ballando per tre giorni insieme al loro idolo. “Amo queste montagne, ci sono nato. Ma da tre anni qui tutto è cambiato. Prima potevamo muoverci liberamente, andare a fare delle passeggiate. Adesso questo non è più possibile. Ma noi ci vogliamo imporre, vogliamo continuare a ballare sulle montagne” ci dice Adem“Il loro non è Islam. Noi siamo musulmani, facciamo la preghiera, facciamo tutto quello che dobbiamo, come si deve, ma non abbiamo bisogno di partire ad uccidere: noi abbiamo scelto la danza”.

La storia dei Ghar Boys è raccontata nel video documentario “Les amoureux des bancs publics”, di Gaia Vianello e Juan Martin Baigorria (una produzione Sunset Comunicazione), attualmente in fase di post-produzione.

Photo creditsJuan Martin Baigorria

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