Nelle proteste pro democrazia
due visioni d’Israele a confronto

Non è pace. È una tregua “armata”: la crisi più grande nei 75 anni della storia dello Stato d’Israele non è risolta. La protesta popolare che per oltre dodici settimane ha segnato il Paese, culminata con lo sciopero generale che lunedì 27 marzo ha paralizzato Israele, ha costretto il primo ministro Benjamin Netanyahu a sospendere la contestata riforma della giustizia fino alla prossima sessione parlamentare, a inizio maggio. Ma lo scontro resta aperto con una destra oltranzista, guidata dal ministro della Sicurezza interna Itamar Ben Gvir, che ha scambiato la sua disponibilità al “congelamento” con l’impegno del premier a costituire una Guardia nazionale alle dipendenze dello stesso Ben Gvir.

Netanyahu si è fermato a un passo dalla guerra civile. E lo ha fatto anche per non arrivare a una rottura con l’amministrazione statunitense. Non è un caso che la Casa Bianca ha dato l’ok alla visita di “Bibi” solo dopo l’annuncio della sospensione della riforma spacca-Israele. Il rischio di implosione democratica non è mai stato così alto. E questo nel momento in cui sullo scenario regionale si assiste ad un riavvicinamento tra i nemici di sempre: Iran e Arabia Saudita. Resta l’humus culturale, prim’ancora che politico, che tiene insieme il governo più a destra nella storia d’Israele: un impasto di messianismo religioso, dalle forti venature razziste, e un progetto politico, di cui la riforma della giustizia è parte ma non è il tutto, che mira sovvertire le basi democratiche dello Stato. E questo progetto non è stato “congelato”, a presidiarlo sarà la Guardia nazionale in mano a Ben Gvir.

Lo scontro in atto non può essere letto nella tradizionale chiave destra versus sinistra. Se fosse così non parleremmo della più grande crisi politica della storia d’Israele. La divisione è molto più profonda e investe due visioni d’Israele, della sua identità, del suo essere nel mondo. Due declinazioni opposte dell’ebraismo, del sionismo, della democrazia. Una tensione che ha attraversato da sempre Israele ma che in passato è stata tacitata, ma non risolta, dalla percezione di una minaccia esterna che minava l’esistenza stessa d’Israele. L’essere in una trincea permanente, o comunque viversi questa modalità, ha plasmato la psicologia di una nazione. Ora che questa percezione si è affievolita, anche se minacce esterne continuano a manifestarsi, Israele deve fare i conti con la “normalità” e provare a scrivere, dopo 75 anni, una carta costituzionale in cui tutte le sue anime si riconoscono.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, marzo 2020 (foto di Gil Cohen-Magen/Afp)

Ma è proprio qui che c’è il rischio dell’implosione. Perché è nella definizione di una carta condivisa che esplodono contrasti latenti, che il giovane “occidentalizzato” di Tel Aviv vive il suo essere israeliano in termini diametralmente opposti all’haredim di Gerusalemme, e viceversa. Nessuno sembra oggi in grado di portare a sintesi questa polarizzazione identitaria. Tantomeno Netanyahu, il più grande divisore nella storia politica d’Israele, che deve proprio a questa sua capacità di spaccare il Paese, capitalizzando elettoralmente questa frattura, la sua longevità politica e di governo senza eguali. Le “due Israele” si guardano e non si riconoscono reciprocamente. A dar conto della drammaticità del momento è il capo di stato maggiore delle Idf (le forze di difesa israeliane) che ha invitato i soldati a continuare a fare il proprio dovere e ad agire con responsabilità di fronte alle aspre divisioni sociali sui piani del governo per rivedere la magistratura. “Quest’ora è diversa da qualsiasi altra che abbiamo conosciuto prima. Non abbiamo conosciuto giorni simili di minacce esterne che si coalizzano, mentre una tempesta si sta preparando a casa”, ha avvertito il tenente generale Herzi Halevi nelle osservazioni rese pubbliche dall’ufficio stampa militare.

Le forzature della destra stanno minando l’unità di quella che è, da sempre, una istituzione fondamentale per Israele: le forze armate. In una rapida progressione, la protesta ha coinvolto i riservisti dell’aeronautica, espandendosi gradualmente ad altri gruppi chiave, tra cui le operazioni speciali e l’intelligence militare. Centinaia di piloti e navigatori della riserva hanno sospeso il loro servizio. A loro si sono aggiunti i tecnici della riserva che occupano posti sensibili nell’aeronautica. Due settimane fa, per la prima volta, l’aeronautica ha annullato un’esercitazione dell’unità operativa perché i riservisti hanno scelto di non presentarsi. Giovedì 23 marzo, i lavoratori della difesa hanno tenuto la loro prima manifestazione, davanti a uno stabilimento della Rafael Advanced Defense Systems in Galilea. La protesta si è estesa gradualmente anche alle unità meno “sacre”, come la fanteria, i corazzati e l’artiglieria. Si è registrato un calo del 10-15 per cento di persone che si presentano in servizio in Cisgiordania.

Una rivolta che ha investito anche i servizi d’intelligence. Tamir Pardo fu nominato nel 2010 da Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele, a capo dell’Istituto israeliano per le operazioni speciali, universalmente conosciuto, apprezzato, temuto, come Mossad. E in quel ruolo cruciale per la sicurezza dello Stato d’Israele ha lavorato a stretto contatto con il primo ministro. Tamir Pardo non può essere di certo considerato un fiancheggiatore dei terroristi palestinesi, o dei palestinesi tutti, né un inveterato pacifista di sinistra. Lui i nemici d’Israele li ha combattuti per tutta la vita. Per questo le sue parole hanno un valore ancora più emblematico dello scontro interno in atto: “Ogni cittadino israeliano, senza eccezioni dovrebbe partecipare alla protesta con la consapevolezza che tutti gli israeliani, ebrei e non ebrei, devono capire il pericolo” per il Paese.

La rivolta dal basso sembra aver rivitalizzato anche l’opposizione parlamentare. L’ex ministra della Giustizia Tzipi Livni è intervenuta a una manifestazione di protesta di Tel Aviv. “Le elezioni non danno a nessuno il potere di distruggere la democrazia stessa”, ha detto, aggiungendo che il nuovo governo di estrema destra sta conducendo una guerra contro le sue istituzioni democratiche:
“Veleno versato, menzogne, diffamazione del fratello, etichettando come nemico chiunque la pensi diversamente […] stanno facendo di tutto per farci crollare dall’interno e indebolirci come società prima del grande attacco”.

Anche la deputata del Partito Laburista Naama Lazimi ha parlato alla folla: “Dobbiamo essere ovunque. Questo Paese appartiene a tutti noi, l’amore per questo luogo appartiene a tutti noi. Il fatto che [il governo Netanyahu] abbia condotto per anni una delegittimazione ben studiata non significa che Israele voglia un cambio di regime”, ha sottolineato. “Quando hanno iniziato a marcare le persone di sinistra siamo rimasti in silenzio. Poi sono passati alle persone del centro e anche noi non ci siamo sentiti a nostro agio e siamo rimasti in silenzio. Poi sono passati a quelli di destra e siamo rimasti in silenzio. E ora il capo di stato maggiore delle Forze di Difesa israeliane è nemico di Israele, i giudici sono nemici di Israele. Io vi dico che chiunque voglia trasformare Israele in una dittatura è nemico di Israele”.

Yair Lapid è un uomo di centro. Fino a qualche settimana fa è stato primo ministro di un governo che andava dalla sinistra pacifista a formazioni di destra. Oggi è il leader dell’opposizione. “Stiamo combattendo una battaglia feroce”, ha affermato Lapid in articoli e interviste nei giorni più caldi della protesta: “Il nostro impegno totale e la nostra furia sfrenata devono tradursi in un’azione politica efficace e nella capacità di raccontare una nuova storia. Questo governo deve essere rovesciato rapidamente, altrimenti sarà troppo tardi. […] Se questo governo non cade, Israele cesserà di essere una democrazia liberale; non sarà possibile rivitalizzare la sua struttura costituzionale”.

Per questo la rivolta non è destinata a placarsi. Perché non c’è un leader in grado di trovare un punto d’incontro tra mondi polarizzati che da sempre hanno attraversato la storia dello Stato d’Israele: il mondo, laico, askhnezita, di chi privilegia Medinat Israel (lo Stato d’Israele) con la sua secolarizzazione e una coscienza dei limiti (non solo territoriali), e i sostenitori di Eretz Israel (la Terra d’Israele) per i quali ciò che conta è la sacralità della Terra che come tale non può essere “sacrificata” per alcuna ragione al mondo, neanche per assicurare pace e sicurezza al popolo d’Israele. E chi lo ha fatto è stato trattato da nemico e assassinato. Come Yitzhak Rabin, ucciso da un zelota di estrema destra, Yigal Amir, venerato come un eroe dagli ultras della destra, quelli che sono pronti a ingrossare le fila della Guardia nazionale.

 

Foto di copertina: i manifestanti di una delle proteste contro la riforma della giustizia voluta da Netanyahu. Tel Aviv, 4 marzo 2023 (foto di Gili Yaari/Nur Photo via Afp).

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