Donne e violenza: quelle nuove guerre
dal sapore antico

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Festival dei Diritti Umani di Milano, dal 3 all’8 maggio. Visita il sito ufficiale

Dove nasce il “senso” dei diritti umani?

Dove nasce il “senso” dei diritti umani? Non deriva solo da leggi che proibiscono la violazione di norme; non proviene soltanto da movimenti della sfera pubblica che rivendicano il riconoscimento di diritti. Il significato trova piuttosto origine nei luoghi della negazione, sottratti alla vista dei più; si forma nelle esperienze violate della vita quotidiana; fa capolino in relazioni familiari distorte; si manifesta nei soprusi della vita intima; deflagra in conflitti armati; si afferma in una società priva di soggetti umiliati e soggiogati. Parlare di diritti umani significa rimandare alla qualità delle relazioni umane, all’equità, al rispetto e alla dignità, ovvero a facoltà pratiche che la politica deve saper interpretare.

Offese persistenti e voci inascoltate

«Questa vecchia dinanzi alla tenda conducete, o fanciulle, reggete questa schiava, ora vostra compagna, o Troiane, ed un tempo regina.» Euripide evoca così il lamento di Ecuba nel ricordare la sua nuova condizione, costretta a seguire Ulisse, dopo l’uccisione o la schiavitù dei figli, lei che una volta era stata la potente regina di Troia, assieme a Priamo. La sventura si è abbattuta sulla città. Molte donne vengono rapite. Accadde anche a Briseide, sacerdotessa di Apollo, principessa, moglie del re della Cilicia. Achille la catturò e la prese come schiava e amante, dopo averne ucciso il marito, re di Cilicia. Briseide fu poi scambiata, come ricorda Omero nell’Iliade, passando a nuovo padrone, ad Agamennone, al quale dette un figlio. Achille si era però talmente adirato per la perdita della schiava prediletta, al punto da ritirarsi sotto una tenda, rifiutandosi di continuare a combattere. Agamennone gli offrì allora molti doni, fra cui la restituzione di Briseide, allorché Achille decise di tornare in combattimento per vendicare la morte dell’amico Patroclo.

Nella tragedia greca i ricordi bellici non stanno solo a testimoniare la vulnerabilità della condizione umana, i passaggi repentini dalla pace alla guerra, dal potere alla distruzione, dalla libertà all’assoggettamento. Le parole rievocate e rappresentate nei secoli stanno bensì a confermare consuetudini di possesso e di violenza sessuale, perpetrate su donne che diventano bottino di guerra, schiave sessuali, merce di scambio, corpo da ingravidare attraverso il seme del vincitore.

Seppur nei racconti e sul palcoscenico della tragedia il violento frastuono della ragion bellica e le urla festanti dei vittoriosi sembrino prevalere sugli altri, in realtà ciò che continua a persistere nella nostra mente è l’eco del dolore struggente di chi non ha forza e voce per essere sentita/o o vendicato/a. Sono le voci di esseri umani resi ancor più vulnerabili dal conflitto armato; sono donne, bambini, anziani che vengono travolti dalla distruzione, senza potersi difendere.

La guerra, tuttavia, non fa altro che amplificare condizioni di iniquità che si consolidano e perpetuano nel quotidiano, che si radicalizzano nelle diseguaglianze nelle relazioni intra-familiari, che si espandono nella comunità, nella mancanza di rispetto verso chi non è considerato alla “pari” di altri, attraverso un costante processo di “disumanizzazione”. L’oppressore non riesca più a scorgere l’umanità nel volto altrui, quando agisce il suo potere cieco.

Nelle cosiddette nuove guerre, soprattutto di stampo jihadista, vi sono molti aspetti “nuovi” sotto il profilo politico, soprattutto in termini di teoria e pratica della guerra. Ad esempio, sono potenzialmente ubique, poiché fondate su attacchi terroristici imprevisti; non sono praticate da un esercito regolare nazionale, poiché i combattenti sono perlopiù foreign fighters; si riferiscono a uno Stato auto-proclamato su base religiosa (il 29 giugno 2014 l’ISIS – salafita – si è proclamato Stato indipendente con capitale Raqqa, ridefinendosi come Stato del Califfato Islamico) che ha occupato un territorio dove risiedevano altre popolazioni e spesso appare in luoghi diversi (Iraq, Siria, Libia, Nigeria, ecc.); hanno caratteristiche post-moderne seppur nella presunta riproposta di un Islam della tradizione, proprio perché nate non solo in contrasto con l’Occidente, ma in seno all’Europa stessa, poiché molti terroristi sono cittadini o abitanti nella Unione Europea, e dunque cresciuti nei nostri Paesi.

Vi sono però abitudini antiche, mascherate sotto nuove regole aberranti: si tratta dello sfruttamento perpetrato contro donne e bambini, schiavizzati e segregati in situazioni di conflitto armato. Fra gli orrori delle nuove guerre, ci sono infatti vittime che subiscono violenza sulla base della loro appartenenza di genere e dell’età (donne giovani e bambini vengono rapite, donne più anziane uccise, così come gli uomini adulti).

Già la mitologia antica aveva ricordato questi orrori che la civilizzazione occidentale aveva relegato a un mondo ormai finito, ma che tutte le guerre hanno riattualizzato. Racconti di donne stuprate, fatte schiave, ridotte a ventre da inseminare hanno in effetti accompagnato anche la fine del Novecento in terra europea. Molti sono i figli nati da stupri sistematici, da donne costrette a partorirli e perlopiù ad abbandonarli. Ma il figlio non rimanda solo al “procreatore” biologico che con tale atto di disprezzo riteneva di aver sottomesso i popoli vinti e di poter così continuare la propria specie. Il figlio porta con sé il  corredo materno, ricordando la necessità di fare giustizia agli oppressi. La storia delle donne può essere dunque letta ex-negativo, a partire dalle narrazioni di violenze sessuali perpetrate da presunti eroi, quale medium attraverso cui veniva fatta valere la potenza militare e la forza virile degli uomini, nello scontro fra fazioni opposte.

Il movimento delle donne è altresì la storia di lunghe battaglie e di contro-narrazioni, intese a mostrare ciò che il sapere dominante non voleva vedere o sentire, preferendo un processo irriflesso di conoscenza.

Ma se i crimini di guerra sono antichi, le convenzioni internazionali e le legislazioni nazionali sono invece alquanto recenti. Solo nel 1993, nel corso della conferenza delle Nazioni Unite dedicata ai diritti umani, la violenza sessuale e domestica, perpetrata in tempo sia di pace che di guerra, è stata riconosciuta come una violazione dei diritti umani. L’articolo 18 della Dichiarazione di Vienna, afferma infatti che «la violenza di genere e tutte le forme di molestia sessuale e di sfruttamento, incluse quelle derivanti da pregiudizi culturali e da traffici internazionali, sono incompatibili con la dignità e il valore della persona umana. Pertanto, devono essere eliminate. Tale obiettivo può essere conseguito col ricorso a misure legali, con azioni nazionali e mediante la cooperazione internazionale in campi quali lo sviluppo sociale ed economico, l’educazione, la maternità sicura e il sostegno sociale».

In quegli anni erano in atto guerre etno-nazionali e genocidi – si ricordino i casi della Bosnia e del Ruanda – che di nuovo usavano il corpo femminile per rapimenti e gravidanze forzate (1).

Degli efferati crimini che erano allora in corso, si ha eco nel 1995 in alcuni passaggi della Piattaforma per l’Azione, siglata a Pechino al termine della quarta conferenza delle Nazioni Unite, dedicata ai diritti delle donne e delle bambine. Nell’Articolo 28 si ricorda che «la Conferenza mondiale sui diritti umani esprime la sua costernazione di fronte alle massicce violazioni dei diritti umani, specialmente nella forma di genocidio, ‘pulizia etnica’ e stupro sistematico delle donne in situazioni di guerra, tali da creare un esodo di massa di rifugiati e profughi.» (2).

In tale ambito, viene altresì data una chiara definizione di violenza di genere. L’articolo 118 afferma infatti che: «La violenza contro le donne è la manifestazione di relazioni di potere storicamente ineguali fra uomini e donne […]. La violenza contro le donne esperita nel ciclo di vita deriva essenzialmente da fattori culturali e in particolar modo dagli effetti dannosi prodotti da alcune pratiche tradizionali o consuetudinarie, ma anche da atti di estremismo legato alla razza, al sesso, alla lingua e alla religione, atti che perpetuano la condizione di inferiorità delle donne in seno alla famiglia, nei luoghi di lavoro, nella comunità e nella società».

Grazie alle traumatiche testimonianze delle donne in merito alle violenze subite, i tribunali penali internazionali – istituiti ad hoc per punire i reati di genocidio commessi nella ex Jugoslavia e in Ruanda (1993-94) – riconobbero finalmente come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, anche i crimini sessuali compiuti da militari e milizie, quali abusi, stupri di massa, riduzione in schiavitù sessuale, gravidanza forzata.

Di fatto, esistevano già legislazioni internazionali al riguardo, anche se mai applicate fino ad allora. La IV Convenzione di Ginevra (1949, art. 4 del Protocollo aggiuntivo relativo alla protezione delle vittime in conflitti armati non internazionali) aveva infatti previsto una norma internazionale contro la pratica dello stupro sistematico. Ma fu solo nel febbraio 2001 che fu utilizzata per la prima volta, quando tre miliziani serbo-bosniaci furono condannati dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, in quanto rei di aver commesso crimini contro l’umanità e violentato donne bosniache. In tal caso, veniva riconosciuta la responsabilità individuale dell’accaduto, cioè la colpevolezza del singolo individuo, al di là degli ordini ricevuti dai propri superiori.

Qualche anno dopo, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, votata il 19 giugno 2008, riconobbe che lo stupro di massa è una «tattica di guerra e un pericolo per la sicurezza internazionale». Il Consiglio poneva in particolare l’accento sul fatto che «in particolare donne e ragazze sono bersaglio di violenza sessuale, includendo lo stupro utilizzato come tattica di guerra al fine di umiliare, dominare, istillare paura, disperdere o riallocare forzatamente civili di una comunità o un gruppo umano.» Per tal motivo, si chiede «alle parti interessate l’immediata e completa cessazione di atti di violenza sessuale perpetrati contro civili durante conflitti armati» (3).

In anni recenti, la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (firmata a Istanbul nel 2011 e ratificata in Italia nel 2013) ricorda nuovamente nel suo Preambolo: «Le ripetute violazioni dei diritti umani nei conflitti armati che colpiscono le popolazioni civili, e in particolare le donne, sottoposte a stupri diffusi o sistematici e a violenze sessuali e il potenziale aggravamento della violenza di genere durante e dopo i conflitti» (4).

Se tali norme internazionali si riferiscono in generale alla punizione degli abusi subiti da donne in conflitti armati da parte di tribunali penali, la domanda che si pone ora è come si possa combattere e punire le violenze sessuali agite con ferocia inaudita da terroristi jihadisti in vari luoghi, soprattutto contro donne e bambine, quando il Califfato/ Stato Islamico – detto in molti modi e secondo diverse sigle e acronimi nel corso degli anni: l’AQI/ ISI/ ISIS/ SIC o l’ISIL/ DAESH/ IS (5) – è una conformazione politica diversa dai tradizionali Stati nazionali in guerra.

Sono ormai molti gli esempi ricordate da vittime. Si pensi agli attacchi terroristici agiti da Boko Haram, un gruppo sunnita nigeriano che porta nel suo stesso nome – che significa l’istruzione occidentale è proibita – lo stigma dei suoi atroci fini. Ovvero, a parere dei militanti le donne non devono essere educate, per cui sono violentemente sottratte a qualsiasi processo di alfabetizzazione. Nel 2014, 276 studentesse furono rapite a Chibok, mentre erano a scuola. Qualche decina di loro riuscì a fuggire e a ricominciare a studiare. Altre continuano a rimanere detenute; altre ancora sono state vendute come schiave, di altre invece non si ha più notizia.

Ci sono poi storie di ragazze yazidi, una minoranza religiosa locale (che fonde le tradizioni dello gnosticismo e zoroastrismo con credenze religiose animiste preebraiche, precristiane e preislamiche), rapite, stuprate, convertite forzatamente, date a jihadisti al fronte e poi vendute come schiave. Alcune riescono a lasciare quel mondo, altre no. Alcune sono ingravidate, altre sono costrette ad assumere contraccettivi per non rimanere incinte: il jihadista, se futuro padre, può recedere dai suoi intenti omicidi/ suicidi per la responsabilità che sente verso il nascituro. Diventano schiave sessuali, agli ordini di uomini votati al martirio, che vanno a combattere o che a breve si faranno esplodere.

La storia di Nadia Murad ricorda non solo gli orrori della sua prigionia assieme ad altre 500 donne e bambine yazidi, ma anche la necessità di agire prima che lo stermino del suo popolo si completi. Donne yazidi, riuscite a scappare, si sono ora unite all’esercito curdo per poter liberare le donne ancora in ostaggio. «Moriamo ogni giorno perché il mondo sta in silenzio di fronte alla nostra tragedia», dice Nadia. Riuscita a fuggire dal Califfato e una volta messasi in salvo, Nadia ha fatto della sua storia una missione di vita per ricordare il genocidio del suo popolo, per risvegliare le coscienze di chi vede gli orrori come un film di finzione, per ricordare ai giovani musulmani che la violenza in nome della religione tradisce la loro fede e gli ideali.

Se queste sono brutalità derivanti da rapimenti forzati, molte sono invece le violenze fisiche, psicologiche e sessuali inferte a giovani donne musulmane o convertite alla nuova fede, che decidono di raggiungere volontariamente l’ISIS /DAESH, da sole o col marito. Fuggono alla ricerca di presunti “valori” persi dall’Occidente, per i quali varrebbe la pena di vivere e di morire. Capita però spesso che queste donne cerchino la via della fuga, per tornare nei Paesi d‘origine, come le cronache di giornali ci riportano sempre più. Alcune ce la fanno, altre rimangono intrappolate, altre ancora continuano a fare proselitismo, altre si immolano come  kamikaze.

Le motivazioni addotte da donne occidentali jihadiste per convincersi e per persuadere altri potenziali adepti alla partenza per la Siria o il Califfato, sono molto diverse, se non talvolta colorate da un’ingenua tragicità. Ne sono testimonianza alcune intercettazioni telefoniche, captate fra due sorelle, Marianna e Maria Giulia. Marianna Sergio, da poco convertita all’Islam, cerca di essere rassicurata dalla sorella Maria Giulia (che già si trovava in Siria col marito) in merito a ciò che l’attende in un paese sconosciuto, ma dipinta come la terra promessa:

«6 marzo 2015. Marianna Sergio: ‘Mamma è preoccupata per la biancheria, come fa? Io dico va beh partiamo solo con le mutande così mettiamo dentro tutte le lenzuola, tutte le cose. (…) C’è la corrente lì? A mamma gliela danno la lavatrice? È anziana. Perché sai che mamma deve mettere sette otto lavatrici al giorno come sempre, no?’ Maria Giulia: ‘C’è tutto quello di cui ha bisogno.’ Marianna: ‘E se non mi trovo nell’ambiente che c’è? Non mi trovo nell’aria, non ho le comodità, non ho quello di cui ho bisogno? Se non mi trovo bene, posso fare marcia indietro?’ ‘Noi qui stiamo ammazzando i miscredenti per poter allargare lo Stato Islamico, ok’, ribatte seccata Maria Giulia.»

Ma Assunta Buonfiglio, madre di Maria Giulia–Fatima, non riuscì a partire. Fu arrestata nel luglio  2015, assieme al marito Sergio e a Marianna. È deceduta nell’ottobre 2015, a pochi giorni dalla scarcerazione per motivi di salute, non reggendo al dolore.

C’è poi la storia di Samra Kesinovi, una ragazza viennese di 17 anni, scappata con l’amica Sabina Selimovi di 15 anni, entrambe bosniache musulmane, figlie di atrocità etniche vissute dalle loro famiglie. Erano fuggite da casa per raggiungere lo Stato islamico. La fotografia di Samra era diventata per l’ISIS/ DAESH l’immagine simbolo delle ragazze occidentali che abbandonano la loro terra per abbracciare la causa dello Stato islamico. Alcuni fonti riportano che Samra sarebbe stata uccisa nel novembre 2015 da jihadisti in modo efferato, mentre tentava la fuga, stanca di essere abusata e di vivere in uno scenario di morte, assieme a uomini che uccidevano altri esseri umani in nome del proprio martirio, senza privarsi però prima del piacere sessuale.

Le atrocità contro le donne continuano anche su fronti dottrinali, dove si cerca di far “ordine” anche rispetto a questioni inedite per la teologia politica e la strategia bellica tradizionale. Da notizie recenti, sembra che i governanti del DAESH comincino a preoccuparsi della sorte di donne e dei bambini, dato il crescente numero dovuto a continui rapimenti. In base a documenti pervenuti alle forze militari statunitensi, l’agenzia Reuters ha reso pubblici i principali passaggi di una direttiva religiosa emessa dagli ulema del DAESH, esperti in Sharia. Tale fatwa intende regolare il trattamento «delle donne e dei bambini degli infedeli», a seguito dei sequestri agiti da jihadisti. Di fatto, sono schiave sessuali a consumo dei miliziani. Con meticoloso precisione, vengono elencati precetti aberranti.

La fatwa cerca di rispondere a quesiti posti da alcuni combattenti jihadisti. Il suo incipit è il seguente: «Una delle grazie che ha fatto Allah al Califfato è la conquista di ampie aree del paese; un’inevitabile conseguenza della jihad è che donne e figli degli infedeli diventeranno prigionieri dei musulmani. Per questo, è necessario chiarire alcune regole sui prigionieri.» Segue un elenco di comportamenti che i jihadisti dovrebbero assumere per essere conformi alla religione, quali buoni credenti praticanti. Ma con ciò, il rispetto della dignità altrui viene annichilito in un processo di reificante disumanizzazione.

«Non si può fare sesso con una prigioniera prima che abbia avuto il ciclo mestruale e sia pulita». «Se è incinta, non si può fare sesso con lei fino al parto». «Non le si può causare un aborto». Se poi la prigioniera ha una figlia, il padrone può avere rapporti o con l’una o con l’altra, ma non con entrambe. Se le prigioniere sono sorelle, il padrone può avere rapporti con una sola delle due: ma può fare sesso con l’altra «se vende la prima, la regala o la libera». Se una donna è prigioniera di un padre, «suo figlio non può avere rapporti con lei, e viceversa». O ancora: «Se due o più individui comprano insieme una prigioniera, nessuno di loro può avere rapporti con lei, perché è proprietà condivisa»; «Non si possono avere rapporti con una donna con il ciclo mestruale». «È vietato fare sesso anale con una prigioniera.» O, sorprendentemente e incomprensibilmente da ultimo: «bisogna mostrare compassione, comportarsi bene con lei, non umiliarla.»(7) Come possono la violenza sessuale e l’assoggettamento forzato essere compatibili con la non-umiliazione e la compassione? Si tratta forse di un inconscio tentativo per auto-giustificare precetti che hanno a che fare più con la violenza che con la misericordia della fede, ai quali però i jihadisti devono continuare a credere per motivare la loro condotta criminale, contro ogni ragionevole dubbio.

La fatwa che regola i rapporti sessuali si aggiunge alla precedente “direttiva”, lanumero 98, che era stata emessa il 31 gennaio 2015 dal consiglio degli ulema, guidato dal califfo Abu Bakr al Baghdadi. Tale direttiva riconosceva ai jihadisti la liceità di «prendere impunemente gli organi degli apostati, perché (la loro vita) non merita rispetto». Oltre che l’abuso sessuale e la tratta di esseri umani, il Califfato giustifica anche il traffico degli organi dei prigionieri, che anche post-mortem diventano strumento di lucro per il finanziamento dello Stato islamico. Di nuovo, la Sharia coranica viene strumentalizzata e sottomessa alle logiche di potere totalitario dei governanti, a scapito delle vittime.

La lotta contro la schiavitù sessuale e la battaglia contro il commercio di organi umani sono solo alcuni fra i maggiori obiettivi, umanitari e penali, che la comunità internazionale, ma anche il mondo islamico non-integralista intende perseguire. In un’intervista del 29 dicembre 2015, Abdel Fattah Alawari – professore di Teologia islamica all’università Al-Azhar del Cairo – ha affermato che «l’Islam vuole la libertà per gli schiavi, non la schiavitù. La schiavitù era lo status quo quando è nato l’Islam. Giudaismo, cristianità, greci, romani, persiani la praticavano e prendevano le donne dei nemici come schiave sessuali. L’Islam lavorò per rimuovere questa pratica» (8).

La lotta contro ogni forma di dominio, per la libertà individuale e il rispetto di popoli, culture e religioni rimane pertanto una finalità comune, perseguibile da tutte le comunità mondiali. E questo è un impegno, al quale non possiamo esimerci come singoli.

 

Note:

(1) M. Calloni (a cura di), Violenza senza legge. Genocidi e crimini di guerra nell’età globale, UTET, Torino, 2006.Utet, 2006.

(2) Organizzazione delle Nazioni Unite, Quarta conferenza mondiale sulle donne, Pechino, 1995. http://www.un.org/womenwatch/daw/beijing/pdf/BDPfA%20E.pdf

(3) Organizzazione della Nazioni Unite – Consiglio di Sicurezza, Risoluzione 1820, New York, 19-6-2008.

(4) Consiglio d’Europa, Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Istanbul, 2011. http://www.coe.int/it/web/istanbul-convention/home.

(5) AQI: Al Qaeda in Iraq; ISI: Stato islamico in Iraq; ISIS: Stato islamico in Iraq e Siria; SIC: Stato del Califfato Islamico; ISIL: Stato islamico dell’Iraq e del Levante; DAESH: è la traduzione araba di ISIL, che equivale all’arabo ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-Irāq wa l-Shām. L’uso di tale acronimo è però vietato dagli appartenenti al Califfato, in quanto sarebbe dispregiativo nella sua pronuncia che significa “calpestare”, per cui viene solo utilizzato il nome di “Stato”, cioè al-Dawla.

(6) M. Serafini, La trasformazione di Maria Giulia: “Qui ammazziamo i miscredenti”, in Corriere della Sera, 2 luglio 2015

(7) Agenzia Reuters, “Niente sesso con le schiave sessuali se…”: l’atroce fatwa dello Stato Islamico reinterpreta la Sharia, in: Repubblica, 20-12-2015. http://www.repubblica.it/esteri/2015/12/29/news/fatwa_sesso_schiave_sessuali_stato_islamico-130297774/

(8) Op. cit.

* Marina Calloni insegna Filosofia politica all’Università di Milano-Bicocca ed è socia fondatrice di Reset e Reset Dialogues On Civilizations

Festival dei Diritti Umani di Milano, dal 3 all’8 maggio. Visita il sito ufficiale

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