Arabia Saudita, l’amnistia per i migranti, la kafala e lo sfruttamento del lavoro

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Il 2 luglio il re Abdullah ha prorogato fino al 4 novembre i termini per la regolarizzazione dei lavoratori immigrati in Arabia Saudita, dopo la stretta degli ultimi mesi sui controlli e le migliaia di richieste di rimpatrio da parte di cittadini indiani recapitate alla loro ambasciata di Riad.

Ma se si tratti davvero di un cambiamento di rotta nella regolamentazione degli ingressi, e delle uscite, dal paese, è troppo presto per dirlo.

La sponsorship saudita consente di ottenere i documenti per risiedere legalmente nel paese a patto che il datore di lavoro garantisca per il cittadino straniero che ha deciso di impiegare. Peccato che questo sistema abbia generato un circuito tutt’altro che virtuoso, nel quale non di rado i lavoratori vengono privati dei documenti e ridotti sostanzialmente in schiavitù.

Human Rights Watch lo aveva documentato per la prima volta in un rapporto del 2008, attraverso le testimonianze dei “fortunati” riusciti a lasciare il posto di lavoro trasformatosi in una gabbia fatta di abusi, violenze e privazioni (vedi qui).

Ad oggi sono oltre 9 milioni gli stranieri impiegati in Arabia Saudia, soprattutto nei lavori domestici. “L’Arabia Saudita dovrebbe fare sul serio per regolarizzare lo status dei suoi lavoratori e farla finita con un sistema di lavoro abusivo che porta i migranti nel mondo dell’illegalità – ha dichiarato Joe Stork, vice direttore per il Medio Oriente di Human Rights Watch subito dopo la notizia della proroga – I lavoratori migranti intrappolati in condizioni di lavoro miserabili o in fuga da situazioni di abuso dovrebbero essere in grado di cambiare lavoro senza permesso del datore di lavoro o i ritardi burocratici del governo”.

Negli ultimi mesi, dalla fine di marzo, le autorità saudite hanno compiuto una serie di veri e propri blitz per individuare e trattenere i lavoratori illegalmente presenti sul territorio. Il problema è che in Arabia Saudita il concetto di illegalità per i migranti include anche chi lascia il lavoro o ne cerca un altro senza il consenso dello “sponsor”, magari proprio a seguito di violenze o compensi mai percepiti. La kafala o sponsorizzazione avvalla qualsiasi tipo di sopruso da parte dei datori di lavoro, contro cittadini stranieri che all’ottenimento del visto perdono qualsiasi diritto. Lo sponsor diventa il padrone: in violazione della legge saudita spesso confisca il passaporto del lavoratore, per impedirgli di allontanarsi, e lo obbliga a lavorare senza salario e sotto la minaccia di violenze fisiche e psicologiche.

Allo stesso modo, la kafala dà vita ad un sistema parallelo di ingressi, di falsi datori di lavoro e aziende fittizie che si fanno pagare da chi cerca di entrare in Arabia Saudita.

Nel gennaio scorso i ministeri del Lavoro dei paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati, Kuwait, Oman e Qatar) hanno annunciato uno standard unico per i lavoratori domestici, settore in cui la percentuale di immigrati è altissima, e hanno messo sulla carta una serie di diritti minimi: il possesso del proprio documento, la tracciabilità dei pagamenti, la giornata di riposo. Nessun cenno però al salario minimo, o a protezioni per chi diventa vittima di soprusi sul luogo di lavoro.

In aprile il Ministro del Lavoro aveva proposto l’abolizione di questo sistema, e la creazione di agenzie di collocamento per reclutare lavoratori, ma poi non se n’è fatto più nulla. Il 10 maggio è stata invece annunciata un’amnistia per gli immigrati che avevano violato le regole di residenza e di lavoro prima del 6 aprile, a condizione che si mettessero in regola entro il 3 luglio. E poi pochi giorni fa è arrivata questa proroga.

Nel frattempo i paesi di provenienza dei lavoratori, soprattutto Filippine, Indonesia, Nepal e Kenya, hanno cominciato già da un paio d’anni a imporre una serie di restrizioni alle partenze dei propri cittadini che intendono lavorare in Arabia Saudita. Le Filippine hanno accordato nuovamente l’emigrazione nel paese arabo solo dopo un accordo, raggiunto nell’ottobre del 2012, con le autorità saudite per il salario minimo concordato di 400 dollari al mese. Di protezioni legali però non si è trattato, ma per l’Arabia Saudita è stato il primo accordo bilaterale siglato con un paese a forte emigrazione sul tema del lavoro.

Negli ultimi tempi anche l’India ha cominciato a sollevare il problema, visto che 92mila concittadini residenti in Arabia Saudita hanno presentato domanda all’ambasciata per essere rimpatriati o per avere un aiuto nella regolarizzazione della propria residenza sul territorio.

La scelta di prorogare l’amnistia può essere letta anche come un tentativo di preservare i rapporti internazionali, ma c’è un dato che non si può trascurare nel paese, ed è la disoccupazione interna intorno al 10,5%. Una questione sulla quale le autorità non si spendono molto in divulgazione, nè a livello di dati che di politiche occupazionali. E’ dal 1994 che il governo ha iniziato un programma di regolamentazione delle quote di lavoratori che le aziende private devono assumere, ma i dati del lavoro interno non sono cambiati. Nel tentativo di creare nuovi posti di lavoro e diversificare l’economia, il paese ha lanciato nel 2008 un piano quinquennale da 400mila miliardi di dollari, e nell’ultimo anno sono anche stati stanziati almeno 37 miliardi di dollari per il lavoro, e per scongiurare disordini sulla scia delle proteste di altri paesi del mondo arabo. Ma i sauditi in media continuano a rappresentare il 10% dei dipendenti totali. Anche l’amnistia allora può essere riletta in questa chiave: continuando con i blitz a sorpresa nelle aziende e costringendo molte persone a ritornare nei paesi d’origine, si rischiava di causare perdite significative all’economia interna.

Perché la manodopera costretta in una condizione di gravi carenze di regole e diritti certi, conviene ancora molto di più.

Vai a www.resetdoc.org

Nella foto: migranti somale nella città vecchia di Gedda

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