Ai confini del linguaggio:
il caso della Polonia contemporanea

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La Polonia è un Paese in cui il dibattito pubblico è da sempre caratterizzato da un’accesa conflittualità. Di conseguenza, parecchi messaggi vengono formulati con toni particolarmente enfatici, specie se li si confronta con un processo politico relativamente pacifico. Negli ultimi diciotto mesi però, si è potuta osservare una graduale radicalizzazione del dibattito pubblico polacco, e si è spostato il confine di ciò che è ammissibile nelle dichiarazioni ufficiali.

All’origine di tale fenomeno ci sono stati diversi motivi fondamentali. Prima di tutto, va sottolineato come nell’ultimo periodo si siano accumulati parecchi anniversari simbolici ed avvenimenti politici importanti. Da novembre del 2014 a ottobre del 2015, si sono svolte almeno tre elezioni particolarmente degne di nota: le amministrative del 16 novembre 2014, le presidenziali del 10 e 24 maggio 2015 (doppio turno) e le elezioni parlamentari del 25 ottobre 2015. La radicalizzazione del dibattito politico si è rivelata particolarmente pronunciata nei mesi che hanno preceduto l’ultima chiamata alle urne, mentre le prime settimane del nuovo governo della coalizione di destra, guidata dal partito conservatore Diritto e Giustizia (PiS), sono sembrate uno strascico di quell’atmosfera concitata.

Vale anche la pena ricordare come il 10 aprile 2015 sia ricorso il quinto anniversario dell’incidente del Tu-154 dell’Aeronautica militare polacca (in cui l’aereo presidenziale con a bordo l’allora presidente Lech Kaczyński, la First Lady Maria Kaczyńska e altre 94 persone precipitò nei pressi della città di Smolensk, in Russia). Il pullulare di ipotesi di complotto, soprattutto da parte della destra, indica come l’accaduto sia ancora circondato da emozioni molto forti e oggetto di un linguaggio dai toni spesso aggressivi.

In virtù del clima determinato dalle elezioni imminenti, problematiche che in un contesto normale sarebbero state probabilmente affrontate e discusse con una minore carica di emotività sono state sfruttate a fini politici, soprattutto per scaldare gli animi e accentuare le divisioni. Particolarmente degna di nota a questo proposito è la crisi dei rifugiati, scoppiata con straordinaria veemenza nell’estate del 2015 e divenuta un tema cruciale nella campagna per le elezioni parlamentari polacche, che ha tenuto banco fino a settembre 2015. Da sottolineare anche il più ampio fenomeno dell’influenza esercitata sul dibattito pubblico polacco dal registro linguistico internet: pensiamo al ruolo giocato dalle chat, dai social media, dai blog, eccetera. Nel tentativo di mantenere la propria popolarità, i media tradizionali hanno infatti iniziato a emulare i tratti di brevità propri del Web, finendo per esacerbare la radicalizzazione della sfera pubblica.

Confronto o radicalizzazione?

Negli ultimi 25 anni nel dibattito polacco sono emerse tre linee di divisione fondamentali.

La prima, per riprendere una formula molto in voga nella Polonia Comunista, è la contrapposizione tra “noi” e “loro”, paradossalmente volta a definire un rapporto di conflittualità tra la società e il regime. A partire dai primi anni Novanta, si poteva parlare di una cosiddetta spaccatura tra ex dissidenti e post-comunisti. In fase di consolidamento di una democrazia partitica, che comporta il dover formare delle coalizioni, il perseguire una politica estera in un determinato contesto geopolitico ecc., tale dicotomia a un certo punto doveva iniziare a scomparire. Lo stesso è accaduto nel caso della “divisione post-comunista” diagnosticata da Mirosława Grabowska, che si supponeva contrapponesse tra loro gli eredi della Polonia Comunista (più ricchi e quindi più avvantaggiati nella vita) e quelli dell’opposizione (più disagiati e con prospettive di carriera inizialmente non altrettanto floride). Negli anni, i confini di questa dicotomia si sono attenuati, come conseguenza di una sempre maggiore mobilità sociale e dei cambiamenti portati dalla modernizzazione, specie dopo l’ingresso della Polonia nell’Unione Europea.

La seconda linea di divisione è quella che dall’inizio della transizione ha contrapposto le anime delle cosiddette prima e seconda stagione di Solidarność. In questo caso ciò a cui si faceva riferimento è la distinzione tra una prima fase di Solidarność, un movimento politico e sociale fondato nel 1980 e diffusosi repentinamente su larga scala ma dichiarato in seguito illegale con l’introduzione della legge marziale nel 1981, e una seconda stagione di Solidarność, ricostituito nel 1989 dall’opposizione nell’ambito di un compromesso con il governo comunista che avrebbe portato, quello stesso anno, alle prime libere elezioni. La “dicotomia post-Solidarność”, diagnosticata tra gli altri da Tomasz Żukowski, è un retaggio di tale scissione, ulteriormente accentuato dalle posizioni dei due partiti post-Solidarnosc presenti sulla scena politica: il Partito Diritto e Giustizia (PiS) e la Piattaforma Civica (PO), laddove si pensa al PiS quale erede della prima stagione e alla PO come prolungamento della seconda stagione di Solidarność.

La terza linea di divisione separa coloro che hanno una visione più cattolico-nazionalista da coloro che tendono a una prospettiva più liberale. I primi reclamano una presenza più pervasiva della religione nella sfera pubblica e adottano un approccio più conservatore alle questioni morali, per esempio sono contrari alle unioni civili tra persone dello stesso sesso. I secondi sono fautori di una più netta separazione tra Stato e Chiesa, e hanno un atteggiamento più liberale rispetto alle tematiche di carattere morale. I primi incarnano l’attaccamento alle tradizioni nazionali. Alcuni addirittura arrivano a sostenere che tali tradizioni siano l’unico elemento forte di identità polacca sopravvissuto alla pressoché totale dissoluzione della Polonia nell’Unione Europea, e che il Paese dovrebbe seguire la strada dell’azione indipendente e della sovranità nazionale. I secondi ribattono invece che in un contesto come quello attuale la Polonia dovrebbe innanzitutto pensare a cooperare in maniera efficace con le altre nazioni occidentali, e che l’Unione Europea implica opportunità in termini di istruzione e finanziari di cui dovremmo approfittare invece di crogiolarci nel tradizionalismo euroscettico.

Se si osserva bene il dibattito pubblico nella Polonia di oggi, si nota come tutte e tre queste linee di divisione vengano sul piano retorico contemporaneamente evidenziate. Ma invece di produrre argomentazioni sostanziali per quanto accese, la retorica della divisione non fa che uscirne rafforzata. Le tre dicotomie vengono sfruttate in una versione attualizzata della distinzione nemico/amico cara a Schmitt, e le eventuali sottigliezze appaiono del tutto impercettibili. Le due fazioni, o le “due Polonie ostili”, come comunemente vengono chiamate, non vedono l’ora di appiccicarsi etichette a vicenda. Agli occhi dei liberali, la “Polonia cattolico-nazionalista” è fatta di “paranoici” e “personaggi autoritari”. Dall’altra parte i liberali vengono percepiti come “traditori della Repubblica” o “neoliberali senza cuore”.

I confini linguistici si stanno spostando?

Alla luce di quanto sopra riportato, è importante stabilire se nella Polonia di oggi la radicalizzazione del dibattito determinata dai fattori prima esposti determini uno spostamento dei confini linguistici che prima erano considerati vincolanti e immutabili.

Tra le varie iperboli spesso e volentieri utilizzate da politici e commentatori polacchi è difficile distinguere a prima vista le figure retoriche impiegate a fini puramente espressivi, ma che in ultima analisi si rivelano innocui stratagemmi discorsivi e persuasivi, e quelle che – tanto per dirne una – possono portare alla discriminazione di gruppi specifici.  I commentatori polacchi, per esempio, sia sul fronte conservatore che su quello liberale, spesso adottano riferimenti evocativi alla malattia, attribuendo ai propri nemici politici i più svariati disturbi mentali (dalla paranoia, all’isteria, al delirio).

Ma ci sono casi in cui il ricorso a particolari figure retoriche appare rischioso, nel senso a cui faceva riferimento Mabel Berezin  quando scriveva della “normalizzazione del linguaggio” dell’estrema destra nella politica ufficiale. Particolarmente degno di nota, a tal proposito, è l’impiego del concetto di malattia riferito ai profughi che arrivano in Polonia. Caso emblematico, ovviamente, è per esempio la famigerata dichiarazione di Jarosław Kaczyński, nell’ottobre del 2015, sui parassiti e protozoi trasmessi dagli immigrati che arrivavano dalla Siria («diversi tipi di parassiti e protozoi, che non sono dannosi per l’organismo di questa gente, possono esserlo qui»). Ci troviamo a fare i conti con una retorica che definisce alcuni gruppi di persone non come avversari politici, ma come stranieri che sono fonte di malattia in un’accezione di impurità, sporcizia e infezione in senso prossimo alla definizione data dall’antropologa Mary Douglas.

L’emergere di una retorica che stigmatizza lo straniero si è potuto recentemente osservare anche in riferimento a un altro gruppo etnico, tradizionalmente vittima del pregiudizio in molte società, vale a dire gli ebrei. Paweł Kukiz, controverso musicista rock e leader del movimento populista “Kukiz’15”, che ha ottenuto il 15% dei voti alle elezioni parlamentari di ottobre, ultimamente ha detto che le proteste del Comitato per la Difesa della Democrazia, vale a dire le manifestazioni collettive contro il nuovo corso politico intrapreso dall’attuale governo di Varsavia, sarebbero state finanziate da “Soros, il banchiere americano di origine ebraica”. Una dichiarazione del genere, “che svela il segreto” per cui un dato gruppo sociale sarebbe sponsorizzato dai “soldi degli ebrei”, risponde ai criteri degli stereotipi antisemiti descritti da Theodore Adorno ne La personalità autoritaria. Malgrado esternazioni come questa siano estremamente rare nel contesto del dibattito pubblico polacco, bisogna sottolineare come appena qualche mese fa una dichiarazione del genere da parte di un qualsiasi politico avrebbe fatto sì che egli venisse bandito dalla scena politica ufficiale. In questo caso non è successo niente del genere.

Secondo alcuni commentatori polacchi, in questi giorni, la Polonia sta scadendo in un’atmosfera che ricorda quella della Repubblica di Weimar degli anni Trenta. Tale diagnosi appare esagerata, così come alcuni semplicistici paragoni tra Jarosław Kaczyński e Vladimir Putin, ecc. Ma il moltiplicarsi, nella sfera pubblica, di esternazioni violente e infamanti può certamente portare a un mutamento in ciò che è convenzionalmente giudicato inammissibile o assolutamente riprovevole nel contesto di un dibattito pubblico democratico. Abbiamo tutte le ragioni per chiederci se non ci troviamo di fronte a un processo pericoloso di normalizzazione del caos e dell’odio intrinseci al discorso pubblico.

* Karolina Wigura è post-doc researcher alle Università di Varsavia e Oxford e fondatrice della fondazione polacca Kultura Liberalna e dell’Osservatorio sul dibattito pubblico polacco

Traduzione dall’inglese di Chiara Rizzo

Vai a www.resetdoc.org 

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