Visti da fuori
L’Europa (e l’Italia) dopo il “no” greco

Dopo il referendum del 5 luglio, più che mai, la Grecia conta per l’Europa. Eccome. Di fronte al quesito che chiedeva se accettare o meno la proposta dei creditori (il triangolo Commissione Europea, BCE e FMI), il 61% dei greci che si sono presentati alle urne ha detto: “Oxi”, no – generando più preoccupazioni che sorprese negli osservatori internazionali.

“Per quale motivo i greci avrebbero dovuto votare sì al referendum? Per continuare con le solite cure dolorose e inconcludenti?”, si chiede Paola Sabucchi su Foreign Policy. Quali potessero essere le conseguenze dell’oxi, forse non sono state mai troppo chiare a nessuno e all’interpretazione di Juncker che poneva il referendum come una “scelta binaria” sull’euro, ha corrisposto – dalla parte di Tsipras – una “deliberata ambiguità”.

Di parere simile è Neil Irwin, sul New York Times: “In una democrazia, non puoi avere un’economia in depressione per cinque anni senza che il popolo venga a chiederti di cambiare la rotta, quali che siano le conseguenze”. Irwin considera il risultato del referendum uno scontato rifiuto dell’austerity che ha affossato la Grecia dell’ultimo lustro: “Fateci un’offerta migliore” – interpreta così la richiesta del popolo greco, presentato come un po’ beffato dal leader Tsipras che non aveva fatto intendere con troppa evidenza che il no al referendum non significava esattamente l’uscita dall’euro. Ma adesso che il popolo greco ha comunque deciso di sostenere il proprio primo ministro e prendersi dei rischi pur di dire basta all’austerity, la “decisione che si propagherà nella storia” spetta a “Ms. Merkel e agli altri leader europei”:

Se tollerano la decisione del governo greco, creeranno un cattivo esempio per qualsiasi altro paese che volesse sfidare le restrizioni dell’Unione Europa, dicendo agli elettori in Portogallo, Spagna e Italia che se fanno abbastanza polverone e eleggono dei partiti estremisti, anche loro potranno ottenere un patto più dolce… Se rifiutano le richieste del governo greco e tagliano i fondi, il sistema bancario greco collasserà e il paese non sarà più parte dell’eurozona, mandando il segnale che l’Unione Europea è profondamente fragile. La Grecia scivolerebbe al fianco dell’ostile Russia. Una moderna democrazia europea – in effetti, la culla della democrazia – potrebbe finire nel caos e nell’instabilità. Oh e questo finirebbe per costare al resto d’Europa così tanti soldi che nemmeno il più generoso dei bailout…

E su ciò che i leader europei dovrebbero fare a fronte dell’esito referendario, si è soffermato anche il Guardian con un op-ed pubblicato subito dopo l’annuncio dei risultati:

Devono mostrare un po’ di umiltà e ascoltare il popolo greco che è stato portato a questo salto nel buio. Devono uscirsene con delle riforme che diano stabilità a una moneta unica traballante sin dalla sua nascita. Con il tempo, significherà dare sostegno all’integrazione monetaria con una più ampia condivisione di sovranità. Nell’immediato, significa avere l’onestà di ammettere che l’intero debito greco non sarà rimborsato, e essere pronti a mettere al centro dei negoziati qualcosa di più realistico.

Altrettanto pronta è stata la domanda posta dall’Economist: “No a cosa?” – e il dubbio: “I greci hanno rifiutato l’austerity. Che lo volessero o meno, potrebbero scoprire di aver detto no anche all’euro”. Di “referendum confuso” parla anche Joshua Keating su Slate, che però sposta l’osservazione sull’Europa, domandandosi quasi incredulo se davvero lascerà che la Grecia esca dalla moneta unica. Quali che fossero le condizioni, per Nicholas Barre (Les Echos) quello che è successo a Atene è “esattamente ciò che gli antichi greci chiamavano una tragedia”. A trarne le conseguenze nefaste non sarebbero però i greci ma l’Europa intera e l’Eurozona che sta affrontando “la crisi più seria della sua breve vita”.

Dalla parte della Grecia si è posto ovviamente Paul Krugman – keynesiano, premio Nobel nel 2008 e anti-euro della primissima ora – che, sul New York Times ha condannato “il bullismo” con cui Bruxelles si è posta nei confronti di Atene: “è stato un momento vergognoso per un’Europa che dice di credere nei principi della democrazia. […] La verità è che i sedicenti tecnocrati d’Europa sono come i medici medievali che non facevano che salassare i malati – e, quando il loro trattamento faceva stare ancora peggio i loro pazienti, chiedevano un altro salasso.” Per Krugman quindi lasciare la moneta unica sarebbe, per la Grecia, “l’unica possibile via d’uscita dall’incubo economico.” E infine conclude:

Siamo chiari: se la Grecia finisce col lasciare l’euro, non significherà che i Greci sono dei cattivi europei. Il problema del debito greco è stato il riflesso di prestiti concessi irresponsabilmente e irresponsabilmente accettati, e in ogni caso i Greci hanno già pagato ormai diverse volte per i peccati del loro governo.

Un concetto simile, sulla stessa testata, è stato ribadito anche anche da Jochen Bittner (firma del tedesco Die Zeit, che presta le sue opinioni anche al quotidiano di Arthur Ochs Sulzberger) in un commento che, già dal titolo, lascia poco spazio all’interpretazione: “È ora che la Grecia esca dall’euro”. Anche per Bittner, ipotizzando un terzo programma di aiuti alla Grecia, il rischio che si profilerebbe sarebbe quello di una Europa divisa tra nord e sud, in uno scenario già conosciuto ai tempi della Guerra Fredda: “i ‘socialisti’ là e i ‘capitalisti’ qua”. Trattenere la Grecia nell’eurozona, scrive Bittner, non conviene all’eurozona stessa né all’Europa che anzi dovrebbe gentilmente condurre Atene fuori dall’euro:

Anche questa soluzione sarà costosa – tra l’altro l’Unione Europea dovrà assicurarsi che la valuta della Grecia post-euro non sia così bassa che i greci non possono permettersi le importazioni vitali come il petrolio o le medicine. Sì, la Grecia deve ancora essere salvata. Ma no, non deve essere salvata necessariamente all’interno dell’eurozona.

Più cauto nell’esprimere la sua linea è invece il Washington Post che, attraverso le parole di David Ignatius, immagina gli effetti della crisi tra Grecia e Europa come se fosse un matrimonio agli sgoccioli:

Hanno bisogno dell’equivalente monetario di un avvocato divorzista che li aiuti a capire i costi e i benefici della rottura. Tornare alla dracma darebbe ai greci più flessibilità, ma al costo di una ben maggior vulnerabilità. Per l’eurozona, una Grexit darebbe il segnale che la promessa dell’unione monetaria era condizionata – e inaffidabile. I cattivi divorzi capitano quando entrambe le parti sono troppo arrabbiate per decidere razionalmente.

E tra i contenuti del Washington Post dedicati al no greco, c’è anche quello in cui Ylan Q. Mui (Wonkblog, blog economico) si sofferma su “Tre modi importanti in cui la crisi greca potrebbe colpire direttamente gli americani”, elencando il calo del costo di una vacanza in Grecia, il tasso dei mutui non in aumento e il crollo delle borse. Tuttavia, “l’esposizione degli Stati Uniti al debito greco è leggera, e le banche centrali hanno fatto molto per contrastare un panico più diffuso. Solo se la crisi contagiasse pesantemente altri paesi come il Portogallo e l’Italia, ci sarebbero serie ragioni per preoccuparsi”.

A proposito di Italia, lo scenario che presenta Tim Hedges su The Commentator si potrebbe definire disastroso, non fosse per il tono accaldato dell’intero pezzo e che lo rende polemico sin dall’attacco: “Chiaramente le autorità di Bruxelles odiano questa roba democratica (i referendum, ndr). Come abbiamo visto con la Costituzione Europea, semplicemente il proletariato non può essere attendibile per dare la risposta giusta.” Così dopo le dure critiche al governo di Matteo Renzi, Hedges spiega perché all’Europa conviene far finta di niente:

Perché il problema è troppo brutto per essere affrontato. […] Rifinanziare la Grecia per duecento miliardi è una cosa. Il debito dell’Italia va oltre i duemila miliardi. La minaccia del Grexit quindi non è un problema per l’Italia. La questione non sarà posta e il popolo non sarà consultato. Ma quale che sia il risultato per la Grecia, il signor Tsipras ha cambiato una cosa. L’Italia e, di conseguenza, l’Europa sono adesso a un’altra sola crisi dal disastro.

Tornando all’opinione di Paola Subacchi su Foreign Policy – è qui, scevra dalle polemiche, che la preoccupazione appare più reale, a tratti fattuale e quindi seria: “Già appena il 56 percento degli italiani sostiene l’euro”, ricorda tra parentesi la Sabucchi, citando una ricerca del Pew Research Centre dei primi di giugno. La crisi greca non ha fatto altro che togliere “la foglia di fico” sull’Europa, mostrando che le fondamenta sono fragili.

L’Europa è stata costruita sull’idea che il sostegno di una valuta comune e di comuni interessi economici avrebbe sempre prevalso sulle preferenze della politica e degli elettori interni. Questo potrebbe essere vero quando ci sono buone condizioni economiche che si traducono in crescita e creazione di lavoro oltre i confini, e infatti i primi anni di unione monetaria europea sono stati un grande successo. Ma è plausibile aspettarsi dai paesi di mantenere i propri impegni quando le cose si fanno più difficili?

I greci, forse, hanno voluto dire no anche a questo.

 

Photo credits: @jameschessell (via Twitter)

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