In Egitto ora è l’esercito a far paura all’Occidente

“Morsi ha rotto il patto con il popolo egiziano. Deve andarsene e la rivoluzione deve continuare”. Questo il sottotitolo del commento di Ahdaf Soueif per il britannico Guardian. “E’ un colpo di stato? Se lo è, sembra essere fatto controvoglia. La dichiarazione di Sisi è stata chiara: l’esercito non vuole governare. Ma sta corteggiando il popolo”. Nell’articolo la Soueif ripercorre i punti salienti della storia egiziana dal 25 gennaio 2011 ad oggi, incitando a portare avanti la rivoluzione: “La campagna dei tamarrod ha portato la crisi a questo punto critico. Le persone che l’hanno cominciata non avevano idea che avrebbe raggiunto queste dimensioni. Ma sono incappati in qualcosa di reale e forte. Qualcosa che ha portato milioni di persone nelle strade”.Ma il ruolo giocato dall’esercito rende scettico anche un altro opinionista del Guardian, Ian Black: “Se l’esercito è stato riluttante a prendersi apertamente le sue responsabilità politiche e di governo… è certamente felice di esercitare il potere dietro le scene”.

“Non è proprio un colpo di Stato, ma ci somiglia parecchio”, titola invece H.A. Hellyer per Foreign Policy. Secondo l’esperto di Medio Oriente della rivista americana, il golpe sarebbe infatti uno “scenario rischioso, e l’esercito vuole minimizzare ogni rischio andando avanti”. I rischi di cui parla Hellyer sono quelli legati alla reazione della Fratellanza Musulmana. Motivo per cui, la prospettiva migliore per l’esercito – dice Hellyer – sarebbe quella in cui “Morsi rimane il Presidente Morsi, placando così eventuali contraccolpi islamisti, ma è obbligato a fare una serie di concessioni che attenua la situazione nelle strade”.

Un pezzo, quest’ultimo di Hellyer, che si ritrova anche nella selezione fatta dal sito di Time magazine che, tra i commenti scelti per tentare un’interpretazione di quanto accaduto il 30 giugno, sceglie quello di Patrick Galey per intitolare l’articolo “Il giorno in cui la Rivoluzione morì”.

 

Giornalismo e social media, tra integralisti e fondamentalisti

“Quando Twitter fa ciò che il giornalismo non può fare”, ha titolato Salon l’indomani della straordinaria performance della filibustiera Wendy Davis, la senatrice texana che fatto ostruzione per tredici ore di fila, senza sedersi né appoggiarsi da nessuna parte, senza mangiare e senza bere, perfino senza andare in bagno, pur di difendere le 37 cliniche (su un totale di 42) nel mirino delle leggi antiabortiste del suo Paese. “Su Twitter la gente è stata in grado di offrirle supporto”, si è creata una comunità che ha seguito l’intervento della senatrice attraverso i social network e Youtube. Perché l’hanno seguito online? È la domanda che si pone Roxane Gay. La risposta è semplice: “Nessuno dei principali network, nemmeno uno, ha coperto le ultime ore dell’ostruzionismo”.

E se restano comunque cose che i social network non potranno mai sostituire, ci sono già settori in cui – a sopresa di molti – Twitter e Facebook possono aiutare a fare la differenza. Non stiamo parlando del marketing, per il quale invece – sottolinea Mashable – il mezzo più efficace per spingere le vendite si conferma la “tradizionale” email – quanto piuttosto del settore della sicurezza. Recentemente la Bbc ha dedicato un articolo a @policia, l’account delle forze dell’ordine spagnole, che ha contribuito a far scattare le manette ai polsi a 300 spacciatori e criminali legati al mondo della droga, nel giro dello scorso anno. E se farsi aiutare dalla Rete per scovare i criminali può sembrare un atteggiamento sufficientemente “integrato”, vale la pena leggere il commento di Richard Stacy sull’Huffington Post, intitolato “Social media: perché cambieranno il mondo”. Un approccio che, più che l’integralismo, pare proprio sfiorare il fondamentalismo.

 

L’abolizione della Doma, un atto epocale

“Le conseguenze pratiche sono enormi”: l’ “impatto incommensurabile” di cui parla Frank Bruni sul New York Times, è in principio quello sul piano simbolico. L’abolizione della Defence of Marriage Act e della Preposition 8 della California, segnano infatti un momento storico per l’America, ma anche per chi, in ogni angolo del mondo, lotta per i diritti. Il Los Angeles Times propone il punto di vista dell’antropologa Rosemary Joyce – secondo la quale adesso si impone la necessità di un ripensamento su cosa sia stato il matrimonio nel corso della storia e nell’evoluzione della società, oltre a una considerazione su come vadano intese adesso, queste unioni.

Ma ci sono effetti che superano le teorie e le allegorie, andando a toccare piuttosto concretamente la vita degli americani e non solo. Ryan Lizza sul New Yorker si è fermato a interrogarsi sulle conseguenze della decisione della Corte Suprema Americana per la Riforma dell’Immigrazione: “Qualunque cosa accada alla legge, le coppie omosessuali legalmente sposate adesso hanno gli stessi diritti dell’immigrazione rispetto alle coppie etero”. Mentre sul New York Times si legge il racconto del primo uomo – un quarantunenne di origini bulgare – che ha ottenuto il visto permanente per gli States, dopo essersi sposato con il proprio compagno americano.

 

Tim Berners Lee su il caso Nsa e dintorni

“Se potessi, abolirei Internet”. In un commento intitolato “Badate a Internet e i rischi dei cyberattacchi”, Robert J. Samuelson sul Washington Post, esprime un punto di vista da apocalittico più che da integrato: “E’ una meraviglia tecnologica dei nostri tempi, ma non è – diversamente da ciò che molti possono pensare – un simbolo del progresso. Anzi, è l’opposto”. E la sua invettiva è talmente dura che gli sviluppi del Datagate da cui il commento prende le mosse, diventano presto solo un pretesto per puntare il dito contro la rete.

Un’opinione che è facile immaginare non sia piaciuta a Sir Tim Berners Lee. Lui che il World Wide Web l’ha creato, ha spezzato la lancia a favore della libertà di Internet addirittura al cospetto della Regina Elisabetta. Premiato con il neonato riconoscimento del “Queen Elizabeth prize for engineering”, il baronetto ha voluto ribadire la necessità di salvaguardare la libertà della Rete: “Quando fai qualcosa di universale, può essere usato per le cose buone o per quelle cattive. Dobbiamo soltanto assicurarci che non ci siano colpi bassi da parte delle grandi compagnie o dai governi, nel tentativo di ottenere un controllo totale”.

Visti da fuori: il verdetto del processo Ruby sui siti stranieri

La condanna a 7 anni e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici decisa dal Tribunale di Milano per Silvio Berlusconi nell’ambito del processo Ruby, attira su di sé l’attenzione dei commentatori – oltre che dei cronisti – stranieri. “Perché gli italiani perdonano Berlusconi?”, si domanda Alexander Stille sul New Yorker. Ma in realtà il verdetto è “l’ultimo dei problemi per Silvio Berlusconi”, per dirla con Araminta Wordsworth del National Post. Una prospettiva condivisa anche dal commentatore della BBC Alan Johnston: “Berlusconi si è sbarazzato di innumerevoli scandali e tempeste legali che avrebbero stroncato quasi qualunque altra carriera politica, e sicuramente sopravviverà all’affare Ruby”. Un’opinione che concorda anche con quella di Hans-Jürgen Schlamp per Der-Spiegel che sposta l’attenzione all’autunno, quando la Cassazione si pronuncerà sul processo Mediaset e deciderà se confermare o meno la condanna a 4 anni di carcere e 5 di interdizione dai pubblici uffici per l’ex Presidente del Consiglio. Ma sotto i riflettori ci sono anche le conseguenze sul piano politico di questa sentenza – ma, soprattutto di quella attesa per l’autunno prossimo. Ferdinando Giugliano, nel suo commento “I rischi per la coalizione” sul sito del Financial Times, sottolinea il ruolo di Napolitano, ricordando sia le condizioni alle quali il Presidente della Repubblica ha accettato il secondo mandato, che il potere di Napolitano di influenzare il giudizio della Cassazione – motivo per cui, secondo Giugliano, Berlusconi cercherà di assecondare il più possibile Giorgio Napolitano. “Il momento critico per il governo Letta sarà dunque in autunno”, si legge in questo commento che non manca di sottolineare il sentore degli osservatori nostrani “giurano che Berlusconi sta rimuginando una soluzione shock”. Il riferimento è chiaramente all’erede politica più accreditata, la quarantasettenne Marina: “Nella famiglia di Berlusconi… Vorrebbero una femmina”, titola Philippe Ridet di Le Monde.

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