Gender gap nel mondo: Italia 80esima

A un anno dalla fine del quarto governo Berlusconi – e dall’insediamento del premier Mario Monti, un primo bilancio proveniente dall’estero si concentra sull’universo femminile e la sua rappresentazione. L’idea nasce dalla pubblicazione del World Economic Gender Gap 2012 che posiziona pessimamente l’Italia: 80esima nella classifica generale che conta un totale di 135 Paesi – e addirittura 101esima nel rating dedicato alla partecipazione economica e alle opportunità. Il Daily Beast però sottolinea che il calo è esclusivamente quantitativo: “Non c’è dubbio che la reputazione dell’Italia è aumentata immensamente da quando il suo (di Monti, ndr) mandato è cominciato, e che c’è un’evidente differenza nel modo in cui le donne sono raffigurate nei media”. Il merito se lo prendono le donne definite “Thatcher-esque” del governo tecnico – compresa la nuova presidente Rai, Anna Maria Tarantola. Figure completamente diverse da quelle promosse dall’amministrazione Berlusconi, evidenzia il Daily Beast – ma pure il Telegraph che ricorda “le giovani e affascinanti ministre” del Cavaliere, soffermandosi su Mara Carfagna, “le cui pose osé sulle riviste maschili le avevano fatto guadagare un enorme seguito maschile prima che diventasse ministro per le Pari Opportunità”.

Ma di Italia all’estero si è parlato anche per il maltempo. Time magazine e The Atlantic hanno focalizzato l’attenzione sull’acqua alta a Venezia, attraverso gallery fotografiche dedicate al disagio e allo spettacolo del paesaggio veneziano – tra i turisti intenti a salvare le valigie dall’acqua e quelli divertiti da una piazza San Marco trasformata in una grande piscina all’aperto.

Lo scandalo Petraeus

“Per il Presidente Obama […] perfino gli scandali all’interno dell’amministrazione sembrano giungere al momento giusto”, inizia così l’articolo del Washington Post intitolato “Obama untouched by Petraeus scandal”, dove Scott Wilson mette in luce quelli che potrebbero essere gli effetti dello scandalo sull’amministrazione Obama. “Non poteva esserci momento peggiore” per il sexgate, commenta invece Thomas Friedman nell’op-ed, pubblicato martedì sul Nyt. Per Friedman, lo scandalo rischia di raccogliere tutti i fantasmi esteri della politica estera dei presidenti del passato in un unico grande “incubo di Obama”. Così le conseguenze della relazione tra l’ex capo della Cia e la sua biografa, diventano il pretesto per parlare della situazione in Medio Oriente in questi termini: “Perché, dopo che Saddam è stato rimosso, l’Iraq non è esploso come ha fatto la Siria? La risposta: America”. Un punto di vista che non piace affatto a Matt Taibbi di Rolling Stone, che si scaglia contro Friedman: “L’idea di Friedman sembra essere che Paesi del Medio Oriente, etnicamente frammentati come la Siria, sarebbero più stabili oggi, se solo fossero stati occupati prima”. La critica del Guardian invece è rivolta ai giornalisti americani, “alti prelati” del culto dell’intelligence Usa – troppo affascinati dall’esercito e dai servizi segreti statunitensi.

Ancora sulla rielezione di Obama

Quello che è andato in onda lo scorso 6 novembre è lo spettacolo della democrazia, non la democrazia vera. È questo, in buona sostanza, il punto di vista di Tim Barker e Sarah Leonard che hanno preso parte al simposio speciale per le elezioni nella rivista americana Dissent. “C’è poco da meravigliarsi che così pochi poveri abbiamo deciso di non votare”, dichiarano – criticando la vittoria di un democratico, poco democratico su alcuni fronti: “Sulla guerra segreta dei droni […] non ha detto nulla che potesse suggerire che è presidente di una democrazia, con una certa resposabilità di spiegare e giustificare le sue azioni, piuttosto che un dittatore militare”.

“La politica americana di oggi è assurda come quella dell’Inghilterra di Giorgio III”, titola invece il commento di Geoffrey Wheatcrocft che, sul Guardian, rimarca le somiglianze tra la politica americana e quella degli albori del Regno Unito. Mentre il Washington Post rispolvera alcuni aneddoti della storia americana per smontare cinque leggende sui presidenti rieletti e i loro secondi mandati.

L’addio alla scrittura di Philip Roth

Le reazioni alla decisione di mettere il tappo alla penna arrivano a un mese dall’ intervista rilasciata al magazine francese Les inRocks, dove l’autore di “Pastorale America” aveva dichiarato che il suo ultimo lavoro – “Nemesi” – sarebbe stato davvero l’ultimo. Tra decaloghi sugli insegnamenti dell’opera di Roth e ritratti scritti al present perfect, molti siti si cimentano nel racconto di quella che lo stesso Roth definiva una “fanatical habit”, talvolta rischiando di prendere le sembianze di “Un elogio per un uomo ancora in vita” – come titola Salon.

Ascesa e caduta dell’impero linguistico americano”

E’ questo il titolo dell’articolo di Paul Cohen, pubblicato sul sito della rivista americana Dissent, che prende spunto da un vecchio op-ed del New York Times per schierarsi contro la deriva monolinguistica che la formazione accademica americana starebbe intraprendendo. Nel commento all’origine della critica di Cohen, infatti, l’ex rettore di Harvard, Lawrence Summers sosteneva la necessità di un rinnovamento dell’offerta formativa a scapito dell’insegnamento delle lingue straniere. “Come tutte le utopie, questo particolare sogno di un mondo linguisticamente unificato porta con sé una forte valenza politica e sociale”. L’egemonia linguistica è inevitabilmente egemonia culturale e politica che velocemente nasce, ma altrettanto velocemente può morire.

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