Orsini: perché quelli dell’Isis
sono i terroristi più fortunati del mondo

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Quanto contano la propaganda e la comunicazione per lo Stato Islamico? Molto più della reale forza militare, secondo Alessandro Orsini, Direttore del Centro per lo studio del terrorismo dell’Università di Roma Tor Vergata e Research Affiliate al MIT di Boston, che recentemente ha pubblicato per Rizzoli Isis, i terroristi più fortunati del mondo e tutto ciò che è stato fatto per favorirli.

Il libro si apre con una riflessione sul contesto in cui l’Isis è nato e continua ad esistere, a livello locale, in Siria e Iraq, ma soprattutto internazionale. Una realtà terroristica che fa paura in Europa per gli attentati già commessi e rivendicati, per la brutalità delle immagini mostrate, per le minacce di nuovi attacchi, ma che militarmente può essere considerata irrilevante, se paragonata alle potenze occidentali. E che ciononostante continua a svilupparsi grazie alla non-strategia dei suoi nemici che – con le parole di Orsini – «ritengono che i tempi non siano ancora maturi per la sua eliminazione. La lotta contro l’Isis rappresenta, principalmente, un problema politico, non militare».

Le conquiste di Palmira e Ramadi e i raid aerei

La presa di queste due città rappresenta un caso emblematico di propaganda circa l’invincibilità percepita all’estero dei combattenti dello Stato Islamico, ma invece rileva qualcosa di diverso, se ci si dedica a più attenta analisi. Palmira era difesa dalle truppe di Assad, scarsamente equipaggiate e non in grado di opporre alcuna resistenza, come testimonierebbero gli sms di alcuni soldati che alle loro famiglie annunciavano di essere spacciati per la fine delle munizioni. A Ramadi diecimila soldati dell’esercito iracheno avevano abbandonato il campo dopo le prime autobombe fatte esplodere dall’Isis. Secondo Orsini, un’altra prova della scarsa potenza dello Stato Islamico diventa lampante se si guarda ai raid aerei condotti dagli americani fra il 2014 e il 2015: «Tra il settembre 2014 e il mese di dicembre 2015, la coalizione guidata dagli Stati Uniti ha condotto circa 9000 raid aerei contro le postazioni dell’Isis, secondo quanto riporta il sito del governo americano. Questo significa che l’Isis ha avuto 9 mila occasioni di abbattere un aereo americano, ma ne ha abbattuti zero. L’unico aereo colpito, quello del pilota giordano Muath al-Kaseasbeh che fu poi bruciato vivo il 3 febbraio 2015, cadde per un guasto tecnico il 24 dicembre 2014».

Lo scenario internazionale dei neorsinimici dello Stato Islamico

Russia e Iran da un lato, Usa, Turchia, Arabia Saudita, Kuwait, Qatar ed Emirati dall’altro sono tutti dichiaratamente contro lo Stato Islamico e fanno capo a una coalizione per eliminarlo, almeno formalmente. Orsini li definisce i Piccoli Otto, per stigmatizzare gli errori che stanno commettendo in quella che l’autore chiama una non-lotta.

Il primo paese ad essere preso in considerazione è la Russia, che fino al 2003 godeva di ottimi rapporti con Siria, Iraq e Iran. Con l’invasione Usa dell’Iraq lo scenario è cambiato, e non solo a Baghdad, perché gli Stati Uniti hanno anche avviato un processo di distensione con l’Iran, culminato con gli accordi per il nucleare, e appoggiato più o meno palesemente alcuni gruppi di opposizione siriani per tentare di rovesciare Assad. Per Mosca la Siria era stata finora una roccaforte, con la base navale di Tartus come unico punto di rifornimento per i mezzi navali del Cremlino nel Mediterraneo, e un ottimo partner economico, e oggi il governo di Damasco controlla meno del 30% del territorio. In Iraq l’influenza americana continua ad essere molto forte, perché anche dopo il ritiro del 2011, alcune migliaia di uomini sono rimasti sul campo, a sostegno della lotta all’Isis.

Con tutti gli interessi in gioco, lo Stato Islamico continua a prosperare, perché né la Russia, né gli Usa con tutta la coalizione hanno un reale interesse, ora, ad eliminarlo completamente. E Orsini spiega così il motivo: «La ragione per cui gli Stati Uniti non si sono impegnati seriamente nella lotta contro l’Isis dipende dal fatto che vogliono prima assicurarsi un governo amico in Siria. Eliminare l’Isis dalla Siria, in questo momento, significherebbe liberare Bashar al-Assad da un suo nemico, aiutandolo a stabilizzare il proprio potere. Se accadesse, gli Stati Uniti dovrebbero rifare tutto il lavoro per ridestabilizzare la Siria, perché è soltanto nei periodi di grande instabilità che è possibile sostituire un governo tradizionalmente nemico con un governo amico. Dall’altra parte, i russi non si impegnano a debellare Isis se prima non si assicurano il controllo del governo siriano. Da due lati opposti, Usa e Russia giungono alla stessa conclusione: senza il controllo del paese non vale la pena impegnarsi ad eliminare lo Stato Islamico».

Seguendo quella che l’autore definisce una logica paralizzante, gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e la Francia non vogliono inviare truppe di terra perché non intendono liberare un Paese che poi resterebbe governato da Assad, ovvero sotto l’influenza dell’Iran e della Russia. Senza contare che bisognerebbe avere un commando unificato, inaccettabile per tutti. Nel frattempo, anche Israele ha fatto sapere a Obama che si opporrà a qualunque accordo anti Isis che consenta all’Iran di acquisire posizioni in Siria, e dunque di rafforzare anche Hezbollah.

“L’amministrazione Isis”

Un altro aspetto ampiamente analizzato nel testo, anche attraverso la raccolta di testimonianze, è la macchina burocratica dello Stato Islamico, che, come nel caso di Mosul, avrebbe rappresentato un miglioramento nell’organizzazione della vita sociale e della gestione dell’ordine pubblico. La priorità dell’Isis, dopo la presa della città, sarebbe stata quella di ristabilire i servizi di base, come acqua ed energia elettrica, in un luogo dove la maggioranza sunnita si era sentita vessata e discriminata dal governo centrale. Insomma non si governa solo con il terrore.

Il petrolio

Il greggio dello Stato Islamico continua a circolare, e viene prodotto in 44 mila barili al giorno in Siria, e 4 mila in Iraq. Venduto ai mediatori per 20/35 dollari al barile, viene fatto transitare nei paesi confinanti spesso grazie a sistemi di tangenti per corrompere il personale dei posti di controllo. Questa attività illecita frutta circa un milione di dollari al giorno.

Gli obiettivi sensibili

La tesi di Orsini è che i terroristi non colpiscano a caso all’estero, e che soprattutto, aumentino le azioni fuori dal proprio territorio quanto più subiscono battute d’arresto in casa. Una logica rigorosa guiderebbe gli attentati: colpire chi maggiormente colpisce, ossia i paesi più impegnati nella lotta frontale contro il terrorismo. Da qui l’incognita dell’Italia, se si dovesse decidere un intervento in Libia, dove il nostro paese mantiene comunque interessi altissimi, fosse solo per l’investimento di Greenstream, il gasdotto che da Mellitah porta il gas a Gela.

La logica jihadista

Dopo un excursus storico sulle origini dello Stato Islamico a partire dal “maestro” di al-Baghdadi, al-Zarqawi, l’autore prova a spiegare l’educazione jihadista attraverso il concetto della mentalità a codice binario, che tende a ricondurre la complessità del reale nelle due categorie di bene e male. Da qui l’analisi dei pilastri politico-istituzionali della società jihadista: la sacralizzazione della tradizione, l’isolamento che scoraggia il contatto con altre culture, l’autarchia, ossia la rinuncia alle cose del mondo, l’ipersocializzazione, dove l’individuo viene spogliato di ogni autonomia di pensiero, l’ortodossia, che condanna ogni idea nuova, l’olismo, per cui il tutto deve prevalere sulle singole parti, la centralizzazione politica per impedire la nascita di soggetti che potrebbero alterare l’equilibrio del sistema, il misoneismo, ossia un atteggiamento di avversione verso ogni tipo di novità.  Attraverso il modello della cosiddetta Dria (Disintegrazione dell’identità sociale, Ricostruzione dell’identità sociale, Integrazione in una setta rivoluzionaria, Alienazione dal mondo circostante).

Dedicandosi poi alla ricostruzione dei recenti attentati europei, Orsini approfondisce il concetto di emarginazione sociale, diverso da quello di marginalità sociale, che può portare all’adesione a tesi radicali, o comunque all’integrazione in una nuova realtà sociale quando quella propria non si riconosce più. Per dirla come l’antropologo Clifford Geerz, «si tratta prima di tutto di fenomeni ideologici. Tutte le informazioni vitali per nostra sopravvivenza non sono inscritte nei nostri geni, ma nella cultura. La cultura dà un nome al nostro dio, ci dice quante donne possiamo sposare, come corteggiarle. Dà un nome alle nostre gioie e ai nostri dolori. Ci accompagna per mano, in tutti i momenti della nostra vita. L’uomo è la sua cultura».

È questo il caso in cui la propria cultura non è più in grado di dare una risposta alle proprie domande, dice Orsini, se ci troviamo di fronte ai cosiddetti terroristi cresciuti in casa:

«Uno dei fatti più rilevanti che ho scoperto studiando le vite dei jihadisti “cresciuti in casa” è che la comunità jihadista, di al-Qaeda o dell’Isis, dona una quantità immensa di amore ai propri membri, per quanto tale comunità, come ho spiegato parlando della “trappola jihadista”, finisca poi con l’esigere ciò che dona, ovvero la vita».

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Titolo: Isis. I terroristi più fortunati del mondo e tutto ciò che è stato fatto per favorirli

Autore: Orsini Alessandro

Editore: Rizzoli

Pagine: 261

Prezzo: 18 €

Anno di pubblicazione: 2016



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