Generali, gangster e jihadisti. Storia della controrivoluzione araba

Nel tentativo di individuare i meccanismi della controrivoluzione venuti a manifestarsi fin dai primi giorni delle “rivoluzioni arabe”, ovvero dall’inizio del 2011 e perduranti ancora oggi, specie a partire dal 2013 – quando si è vista la repressione scatenarsi appieno – lo specialista del Medioriente Jean-Pierre Filiu si interroga, in Généraux, gangsters et jihadistes. Histoire de la contrerévolution arabe [Generali, gangster e jihadisti. Storia della controrivoluzione araba], di recente apparso Oltralpe per i tipi di La Découverte (311 pp., 22 euro), sugli elementi in comune fra l’egiziano Abdel Fattah Al-Sisi, il siriano Bachar Al-Assad, il libico Khalifa Haftar o ancora l’Algeria dei generali, per citarne soltanto alcuni. Sono a suo avviso “repubbliche mamelucche”, accomunate da un “discorso populistico molto aggressivo, da un apparato repressivo onnipresente e dal saccheggio sistematico delle risorse nazionali”. Unica eccezione – per alcuni aspetti – la Tunisia di Ben Ali, governata però da uno Stato poliziesco vero e proprio. Ne conclude che è per via dei nuovi mamelucchi, ovvero i propugnatori dello “Stato profondo”- termine ormai assai diffuso nel mondo arabo – che vanno fallendo le rivoluzioni del 2011.

La nozione di “Stato profondo” apparve in Turchia negli anni ’90 dello scorso secolo per designare l’alleanza inedita dei servizi d’informazione, una parte della classe politica e giudiziaria e il crimine organizzato, volta a contrastare, all’epoca, la guerriglia portata avanti dal PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Quanto ai mamelucchi, soldati di origine servile al servizio dei califfi e sempre in lotta fra loro, conquistarono il potere dopo aver vinto prima i crociati e poi i Mongoli, fino a divenire una vera e propria casta militare in grado di regnare sull’Egitto, anche dopo l’arrivo degli ottomani nei primi anni del ‘500.

Pertanto attualmente “il caso più eclatante di controrivoluzione con la mobilitazione di uno ‘Stato profondo’ implacabile è l’Egitto” sostiene Filiu. E questo non può sorprenderci, in quanto sul modello dello Stato turco, discendente dell’Impero ottomano, la Repubblica egiziana instaurata dagli “ufficiali liberi” del 1952 “rappresenta il caso più evidente di controrivoluzione realizzata con la ricomposizione e la mobilitazione di uno Stato profondo molto repressivo”. E i militari d’Egitto, che da allora governano il Paese – con la sola eccezione dell’intermezzo 2012–2013, segnato dalla breve e disastrosa esperienza al governo del Fratello musulmano Mohammed Morsi – si comportano come mamelucchi, uniti per dominare e soddisfare la loro sete di privilegi, ma sempre pronti a combattersi fra loro per il potere.

A questo riguardo, il richiamo alla lotta segreta fra Gamal Abdel Nasser e il suo “braccio destro” Abdel Hakim Amer, che condusse alla sconfitta egiziana nello Yemen e di conseguenza a quella inflitta da Israele nel 1967 – costituisce uno degli argomenti più interessanti del volume e lo rende più attuale che mai: Filiu spiega infatti che i moderni mamelucchi eccellono anche nella “fabbricazione” di una minaccia interna, quella del fanatismo islamico, perfetto per giustificare l’oppressione in nome della sicurezza e rivelatosi inutile nella lotta contro lo jihadismo, poiché più è forte la repressione, più l’estremismo si fa aggressivo. Per dirla con lo scrittore algerino Kamel Daoud “Gli jhihadisti sono i figli delle dittature, non delle rivoluzioni”.

Filiu, controcorrente, si era già mostrato diffidente in La Révolution arabe. Dix leçons sur le soulèvement démocratique [La rivoluzione araba. Dieci lezioni sulla sollevazione democratica] (Fayard 2011) nei confronti dell’appellativo di “primavere arabe”, a suo avviso “troppo stagionale e congiunturale”. Scrivendo “a caldo” fra il febbraio e il maggio del 2011, vi affermava che “i militanti islamici non sono ancora cambiati” ma che invece “il mondo arabo è cambiato e non tornerà indietro”. Considerava gli avvenimenti nella loro dimensione “regionale” e constatava che: una guerra civile lacerava la Libia e il regime di Gheddafi si rivelava incapace di ristabilire la propria autorità; Saleh nello Yemen veniva anch’esso costretto a concedere di tutto e di più, prima di consegnare il potere al suo vice, nell’ambito di una transizione supervisionata dall’Onu; delle manifestazioni senza precedenti si svolgevano in Siria, nonostante il rifiuto di Assad di giungere a un benché minimo compromesso.

Ex diplomatico (in Siria, Tunisia e Giordania), Filiu ora insegna a Parigi, dal 2006 nella Facoltà di Scienze Politiche, Storia contemporanea del Medioriente ed è autore fra gli altri di Les frontières du djihad (2006), L’apocalypse dans l’Islam (2008), Les neufs vies d’Al-Quaeda (2009), Je vous écris d’Alep (2013), Les arabes. Leur destin et le nôtre (2015), Le miroir de Damas (2017), nonché – con Cyrille Pomès – della trilogia a fumetti Le printemps des arabes (Futuropolis 2013 – 2016).

In Généraux, gansters et jihadistes dedica non poco spazio, oltre che ai generali gangsters – come annuncia il titoloanche al grand détournement [grande deviazione), su cui si fondano le dittature arabe contemporanee e che alimenta l’ondata controrivoluzionaria in corso. Filiu distingue tre periodi nel lungo tempo: il primo, quello della nahda, “rinascita” araba, con le aspirazioni all’emancipazione individuale e collettiva a partire dal XIX secolo e che si rivela cruciale nelle sollevazioni del 2011; il secondo va dal 1922 – anno dell’indipendenza ufficiale dell’Egitto – al 1971, allorché gli Emirati del Golfo entrarono a far parte dell’Onu; nel terzo invece – nel ventennio 1949-69 – si assiste all’eliminazione da parte dei militari delle formazioni pluralistiche e delle istituzioni parlamentari.

Alla “grande deviazione” si deve l’incompiutezza della “rinascita” araba: regimi di matrice spesso mafiosa si sono accaparrati il potere e le risorse, e di qui il collegamento dei “generali” ai gangsters. Durante la controrivoluzione le polizie politiche delle dittature hanno cooperato manifestamente con le bande criminali, le baltaguyyia – in Egitto e nello Yemen , e le chabbiiha in Siria. Nel frattempo l’elemento “jihadista” andava potenziandosi.

In conclusione, gli attuali dittatori di oggi si sono rivelati non in grado di garantire la “sicurezza” e la “stabilità” in nome delle quali hanno sacrificato le libertà elementari dei loro popoli. Lungi dal garantire la “stabilità”, creano invece instabilità, esportando inoltre il terrore nel continente europeo. Si assiste al fallimento del partito controrivoluzionario, nonostante le repressioni e le colossali somme di denaro investite nelle “sporche guerre”. In nessun Paese si è ripristinato lo statu quo antecedente al 2011 e, a dispetto del prevalere della dinamica controrivoluzionaria, perdura la fase della ribellione.

Titolo: Généraux, gangsters et jihadistes. Histoire de la contrerévolution arabe

Autore: Jean-Pierre Filiu

Editore: La Découverte

Pagine: 311

Prezzo: 22 euro €

Anno di pubblicazione: 2018



Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *