Fare poesia per ricostruire la memoria.
La nakba nei versi di Ghassan Zaqtan

«Sono nato in una famiglia di profughi di un villaggio a sud di Gerusalemme. Mio padre era un attivista politico e un poeta. A casa avevamo una biblioteca. La sua raccolta di libri cresceva giorno dopo giorno, proprio come noi. Anche durante le sue lunghe assenze da casa, i libri continuavano ad arrivare, tramite i suoi compagni ed amici. Papà li conservava gelosamente e incessantemente, anche dopo ogni nostro spostamento tra i campi profughi, in seguito alle varie fasi del conflitto al quale abbiamo assistito. Quando dovevamo partire in fretta, papà impacchettava prima i libri, poi i vestiti. È nata così la mia attività intellettuale, la continuazione della mia vita accanto a quella biblioteca e alle case che avrebbero ospitato la famiglia».

Svelano l’imprescindibile connessione tra cultura e politica queste parole di Ghassan Zaqtan, da molti considerato il più degno erede del celebre poeta palestinese Mahmud Darwish. Già tradotte in inglese, con una antologia che sette anni fa si è aggiudicata il prestigioso premio Griffin Poetry, le opere di Zaqtan, egregio rappresentate delle generazioni degli scrittori nati negli anni ‘50, sono ora state tradotte in italiano da Simone Sibilio in In cammino invocano i fratelli. Versi scelti (Edizioni Q, 2019). Una selezione antologica di tre recenti lavori che segnano l’apice della produzione poetica di questo scrittore palestinese, la cui opera si inserisce nel solco della modernità, facendo tesoro delle irradiazioni dei sui accesi dibattiti e le profonde trasformazioni in atto nella regione, come quelle che stanno ridisegnando i rapporti di forza in seguito agli Accordi di Abramo con i quali Israele ha normalizzato la relazione con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco

Cresciuto in esilio, soggiornando in diversi Paesi arabi come accaduto a tanti palestinesi dopo la Nakba, all’inizio della sua carriera, Ghassan Zaqtan prova a non seguire le orme del padre, dedicandosi – anche con un certo successo – allo sport.  L’immagine della biblioteca del padre in viaggio, tra Betlemme e Damasco, resta però un chiodo fisso nella sua testa, anche dopo che viene bruciata e distrutta. E così, Zaqtan inizia a lavorare nel mondo del giornalismo culturale, divenendo in fretta l’addetto culturale per la rivista di sinistra Al-Hurrya di Damasco e poi uno dei fondatori del trimestrale Bayader, pubblicato dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina, Olp, a Tunisi. «Questa rivista aveva una missione: fornire una lettura culturale della realtà politica, presentando le espressioni artistiche. Doveva essere una piattaforma per una vasta e diversificata gamma di intellettuali palestinesi e arabi e per accogliere le voci critiche e in dissenso, spesso aspro, con la linea politica dell’Olp. La sfida era di pubblicare una testata dell’establishment ufficiale, mantenendo al contempo quella distanza necessaria tra l’intellettuale e l’autorità, la distanza che consente all’intellettuale di respirare ed esercitare il suo ruolo di critica della funzione politica. Non è stato facile, ma ci fu entusiasmo e spirito dialettico», racconta decine di anni dopo Zaqtan a Reset, parlando da Ramallah, dove è tornato dopo gli accordi di Oslo, fondando la Casa della Poesia e dando alla luce la rivista Al-Shuara, I poeti.

Una data, quello di Oslo ‘93, che ha segnato nella vita di questo poeta – divenuto poi capo del Dipartimento letterario del Ministero della Cultura palestinese – una cesura personale e professionale, perché quegli accordi hanno rivoluzionato anche il mondo della cultura e della letteratura. «Per sette decenni di esilio e occupazione, i palestinesi erano stati infatti in grado di rappresentare il loro dramma anche attraverso la produzione culturale solida e influente sulla scena araba e internazionale, riuscendo a preservare l’identità culturale della Palestina e del suo popolo in patria e nella diaspora. Una produzione letteraria con sue caratteristiche e peculiarità, che ha espresso con forza il dramma della Nakba, la crudeltà dell’esilio e la preservazione dell’identità sotto occupazione, portando alla cosiddetta fase “della resistenza”», spiega Zaqtan, convinto che   gli Accordi di Oslo abbiano messo questa letteratura di fronte a una visione diversa e in un confronto con le sue affermazioni fondamentali che erano basate su quel sogno del ritorno che alla fine per qualcuno si realizza, dimostrandosi però un’illusione.

Chi torna a vivere in patria in quegli anni, continua a sentirsi in esilio. «Si trattava di un ritorno limitato a una parte ristretta del luogo, regolata dalle condizioni e dalle politiche dell’occupazione, un ritorno incompleto in un luogo incompleto. Per me è stato come transitare verso uno dei livelli dell’esilio: provenivo da una famiglia di rifugiati che era stata sfollata dal suo villaggio, Zakaria, occupato nel 1948. Il villaggio si trova a sud di Gerusalemme e ad ovest di Betlemme, ed è stato distrutto e hanno costruito un insediamento sul suolo e sopra le sue case. Anni dopo, ho potuto organizzare un complicato viaggio per mia madre (allora ad Amman, ndr) per farle vedere il suo villaggio dopo cinquant’anni, farle rivedere l’orizzonte, ricordare il suo luogo perduto e recuperare con forza la sua nostalgia per ogni sua componente, la famiglia, i nomi dei suoi amici. E la stazione ferroviaria abbandonata, di cui abbiamo cercato scrupolosamente i resti dietro i cespugli del villaggio. La preparazione per la visita ha richiesto, secondo i termini di Oslo, lunghi mesi e la visita carica di tensione è durata solo due ore. Dopo io sono tornato nel mio appartamento in affitto a Ramallah e mia mamma a casa sua in Giordania».

Zaqtan prova a registrare tutti i momenti e i dettagli di questo suo ritorno incompleto, rivelando anche l’impotenza di chi non riesce a fare i conti con la perdita, offrendo – come evidenzia Sibilio introducendo le sue opere – un vero e proprio «inventario di luoghi cancellati dalla storia con lo scopo di riaffermare la presenza palestinese e rimapparla», come si vede proprio nel poema “Quattro sorelle da Zakaria” con il quale il poeta ritorna sulle tracce del villaggio di famiglia raso al suolo nel ‘48.

 

Quattro sorelle da Zakaria

Quattro sorelle scalano il colle

sono sole

vestite di lutto.

Quattro sorelle sospirano davanti al bosco.

Quattro sorelle

madide lettere leggono al buio.

Un treno da ‘Artuf

passava oltre la foto.

Un cavallo portava una ragazza da Zakariyya

oltre la curva nitriva in pianura.

Sulla gola le nubi andavano lente.

Quattro sorelle da Zakariyà,

sole

sul colle

sono vestite solo di lutto.

 

La memoria è la fonte profonda del testo creativo di Zaqtan che si definisce un costruttore di ricordi, un tessitore per natura con il compito di custodire, arricchire e proteggere la “memoria” che nelle sue poesie si articola in una pluralità di forme e declinazioni: memoria dei luoghi perduti attraverso cui accedere ad un passato cancellato; memoria letteraria per dialogare con i poeti del passato; memoria degli assenti le cui voci emergono nettamente tra i suoi versi. «Dobbiamo preservare il movimento e il flusso della memoria, salvarla dall’immobilità e dall’indolenza, e continuare ad aprire canali e costruire ponti tra essa e il presente mutevole», precisa Zaqtan, la cui opera, negli ultimi anni, si è occupata non solo di Palestina, ma anche di altri conflitti, come ad esempio quello siriano. Con il suo sforzo culturale, il poeta cerca di recuperare – con la scrittura – le vite e i ricordi che le guerre vogliono cancellare, per restituire alla collettività semplici storie personali. «La vita dimora nelle voci basse, tenui, nei margini e nelle consuetudini da cui contemplare i piccoli destini. Il conflitto macina i piccoli destini e impone la narrazione dei combattenti, spesso falsa. Il vero racconto respira altrove. In Siria è in corso una guerra crudele e brutale. Io non cancello, ma cerco di far uscire le voci sepolte dal trambusto della guerra, dai piccoli sogni e di spazzare via la polvere dalle foto di famiglia. Non è così tanto una metafora come sembra».

 

Quelli che giunsero lì 

Quelli che giunsero ai laghi – pochi comunque, di cui erano in tanti i pretendenti –

dissero che loro – i morti – erano arrivati lì ad uno ad uno

trascinando i loro sospiri sulle braccia come coperte dagli Inferi.

Dissero, inoltre, che loro – i morti – avevano iniziato a tirar fuori dal petto i ricordi come si estrae

il nocciolo dalla polpa.

Li avevano lastricati sulla sabbia, uno ad uno, come uccelli liberi dalla gabbia in cerca solo d’acqua.

Altri – meno sofisticati – dissero che quelli – sempre i morti – avevano asciugato i loro giorni sulla sabbia, come stracci lavati, o secondo qualcun altro, come mobili usati, sbiaditi dall’usura.

E si erano messi a raccontare, per rimuovere la polvere dagli angoli bui, dalle maniglie delle porte, dai braccioli delle poltrone, dagli abiti appesi ai fili del bucato, dai vetri delle finestre e dagli specchi, dalle foto dei viaggi e delle nozze.

Quelli che giunsero dai laghi dissero questo e altro,

ma nessuno credette loro. 

 

Tracciando con le parole paesaggi, illuminando particolari materiali o simbolici, il poeta «prova a trattenere il ricordo come forma di resistenza all’oblio», scrive Sibilio, e come memoria sociale e popolare che torna viva ogni qualvolta il dibattito si riaccende. Come accaduto proprio negli ultimi mesi, quando la presidenza Trump agli sgoccioli del suo mandato ha sponsorizzato una serie di accordi di normalizzazione con Israele. La nuova fase inaugurata da Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e infine Marocco con i cosiddetti Accordi di Abramo è stata percepita dai palestinesi come un tradimento da parte della umma araba che pare ormai essere evaporata. «Noi palestinesi siamo gli eredi naturali di strati di civiltà accumulatisi su questa terra dai cananei ai greci ai romani, tutti i popoli erano qui ad un certo punto, la vita umana su questa terra non si è fermata un solo giorno da quando l’uomo ha scoperto l’agricoltura a Gerico più di diecimila anni fa: questo è il punto di partenza su cui basarsi che ogni intellettuale dovrebbe avere ben presente mentre affronta l’Accordo del secolo», chiarisce Zaqtan, riferendosi al piano di pace messo nero su bianco dall’amministrazione Trump senza il coinvolgimento dei palestinesi. Un piano destinato a rimanere su carta che ha però evidenziato non solo l’isolamento ormai definitivo dei palestinesi dalla scena politica mondiale, ma anche la progressiva marginalità del dossier israelo-palestinese nella politica internazionale.

«L’intera storia della regione è stata ormai ridotta a un’era di poche decine di anni, cancellando nei fatti i secoli precedenti», fa notare Zaqtan che nelle ultime settimane non ha lesinato critiche neanche all’Olp, dopo le dimissioni di Hanan Ashrawi, una delle voci palestinesi più note a livello internazionale, che spiegando il suo addio ha fortemente criticato la gestione monocratica delle istituzioni palestinesi da parte del presidente Abu Mazen, eletto nelle ultime votazioni del 2005 che da allora non sono mai state più convocate.  Una donna – Hanan Ashrawi – che ha ripetuto che il sistema politico palestinese ha bisogno di un rinnovamento, con l’inclusione di giovani, donne e nuovi professionisti qualificati. Parole da tempo ripetute anche da Zaqtan nei suoi articoli che compaiono sui quotidiani palestinesi. In questo quadro, agli intellettuali come lui spetta il compito di illuminare quella storia che rischia di diventare un cono d’ ombra. «I politici hanno corrotto la narrazione della Palestina – conclude Zaqtan – e allora il ruolo della cultura è quello di riappropriarsi della storia, recuperarla dall’esilio in cui è stata confinata da racconti frammentari, parziali e carenti».

Titolo: In cammino invocano i fratelli. Versi scelti.

Autore: Ghassan Zaqtan

Editore: Edizioni Q

Pagine: 124

Prezzo: 14 €

Anno di pubblicazione: 2019



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