Amartya Sen: ancora identità e violenza
dieci anni dopo

A due anni di distanza dalla pubblicazione di An Uncertain Glory. India and Its Contradictions (1), il filosofo ed economista indiano dell’Università di Harvard Amartya Sen ritorna a concentrarsi sulla relazione tra identità e violenza.

Da pochi mesi nelle librerie è infatti The Country of First Boys, una raccolta di saggi per cui Sen si è avvalso del contributo di Antara Dev Sen e di Pratik Kanjilal, un lavoro attraverso il quale l’economista bengalese si ripropone di aggiornare la propria riflessione sulla politica identitaria e sulle probabilità che gli estremismi sfocino nella violenza e nel conflitto interetnici ed internazionali.

In An Uncertain Glory, scritto nel 2013 con un altro economista dello sviluppo, il belga Jean Drèze della Delhi School of Economics, Sen tornava a riflettere sulle condizioni economiche dell’India contemporanea, sull’onda lunga di un tema a lui caro su cui Sen aveva lavorato soprattutto per tre studi apparsi a cavallo tra gli anni Novanta ed il Duemila (India: Economic Development and Social Opportunity (1995), Indian Development: Selected Regional Perspectives (1997) e India: Development and Participation (2002)) dedicati ad esaminare le conquiste economiche e sociali dell’India ed i molti passi da compiere ancora lungo la strada dello sviluppo  (a partire dalla partecipazione politica femminile, dalle sfide sul fronte educativo, dalla contrapposizione all’estremismo politico del partito Hindutvà e dal superamento delle violenze tra classi).

Un subcontinente indiano con una crescita economica che ha messo il turbo (intorno al 7% solo nell’ultimo biennio, del 6% nell’anno della stesura del libro, il 2013) non può, infatti, che essere caratterizzato da una “gloria incerta”, quella stessa che liricamente Shakespeare attribuiva ai bizzarri giorni di primavera. Sebbene anche in The Country of First Boys il punto di partenza sia proprio un subcontinente indiano incapace di offrire le stesse opportunità a tutti gli uomini e a tutte le donne (“i bambini vengono sempre prima” sin dalla più tenera età – sottolinea Sen – mentre la figura femminile viene relegata ad un ruolo subalterno), qui il ragionamento di Sen si allarga poi all’intera arena internazionale e ai suoi temi più caldi.

Venendo al titolo di questo libro, The Country of First Boys, ebbene, secondo il ragionamento stesso di Sen esso contiene diverse possibili letture: da un lato, infatti, potremmo tradurlo come «il paese in cui i bambini vengono sempre prima» facendo quindi riferimento all’India come Stato che offre opportunità diverse a seconda del genere di appartenenza (o, allargando lo spettro, della casta o delle condizioni socioeconomiche di provenienza), ma dall’altro lato, più liberamente, potremmo interpretare questo titolo come «il paese dei primi della classe» ed in questo senso l’esser primi della classe diviene una vera e propria «first boy syndrome», come la chiama Sen, secondo cui gli indiani (e in particolare i politici indiani maschi) hanno la tendenza di natura quasi ancestrale (o più precisamente maturata negli anni delle elementari) a primeggiare, a voler prendere sempre i voti più alti, a competere, ma anche – e in questo senso in chiave positiva – a dare il buon esempio agli altri all’insegna di un complesso di «azioni e reazioni» di cui di solito soltanto le cerchie più abbienti possono godere, lasciando le classi subalterne (ovverosia coloro che eloquentemente si trovino in condizioni di «disparity») perpetuamente in disparte. Il successo indiano (soprattutto quello economico), insomma, rischia di essere un successo fruibile soltanto dai “primi della classe”, ovverosia di cui possono godere solo coloro che per cause di natura si trovino ai piani più alti della gerarchia sociale del paese (2).

Ma, nella teoresi seniana, questa interpretazione della “sindrome dei primi della classe” contiene anche molte altre domande, come ad esempio: perché occorre ripudiare fermamente una visione “ad una dimensione” dell’identità individuale? Su quali molteplici elementi è invece fondata l’identità di ciascuno di noi quali individui che aspirano alla “libertà di condurre una vita ragionevolmente di valore”? Come riequilibrare il peso sociale della donna dopo centinaia di anni in cui, in tutto il mondo, “i maschi sono (appunto) venuti prima”? Come mai si è rivelata sbagliata la teoria di huntingtoniana memoria circa un fantomatico “scontro delle civiltà”? Come mai l’India multiculturale è stata capace di contrapporsi al terrorismo internazionale, nonostante gli – ancora presenti – irrigidimenti del sistema castale e l’endemica povertà? Quale lezione in più può dare la politica razionalista del Padre della nazione indiana Rabindranath Tagore agli Stati di oggi, rispetto all’ascetismo politico caro alla tradizione gandhiana?

Sono di questo tenore le domande che Amartya Sen imbastisce e a cui egli cerca di dare risposta nel suo ultimo lavoro che ripercorre i suoi interventi divulgativi degli ultimi quindici anni (fin dal primo articolo del 2000 pubblicato per il The Little Magazine all’avvento della Presidenza neocon di George W. Bush che molti nodi avrebbe lasciato irrisolti nella politica internazionale a partire dalla situazione precaria di Iraq ed Afghanistan).

Erano quegli gli anni in cui i filosofi neoconthecof influenzavano la strategia di politica estera del primo mandato del Presidente Bush stesso all’insegna dell’elaborazione della famosa teoria dello “scontro delle civiltà” (3) contro la quale Amartya Sen prese a condurre una vera e propria battaglia di resistenza culturale (4), sottolineando l’assenza di fondamento dei tentativi essenzialisti di ipostatizzazione e di reductio ad unum delle identità dei popoli del pianeta e mettendo in evidenza come anche nelle culture considerate “altre” da parte dell’Occidente si siano proposti storicamente numerosi modelli politico-istituzionali propedeutici all’instaurazione di un sistema politico liberaldemocratico fondato intorno al rispetto dei diritti individuali (tra gli esempi più cari a Sen figurano in primo luogo l’età della tolleranza dell’Imperatore dell’India Ashoka (III sec. a.C.), il sincretismo religioso del sovrano musulmano dell’India Akbar (1542-1605) e la Costituzione dei 17 articoli del Giappone (604 d.C.)). Nell’ottica seniana, in particolare, occorre combattere la pretesa di univocità dell’identità non soltanto a livello delle relazioni internazionali ma anche a livello delle politiche interne ai singoli Stati. Da questo punto di vista, a suo parere, l’India rappresenta di nuovo un caso imprescindibile in quanto i suoi Padri della nazione (egli pensa con particolare riguardo a Gandhi, Tagore e Nerhu) si erano sempre rifiutati di rappresentare soltanto la propria confessione religiosa di appartenenza e la propria casta di nascita mentre avevano impostato una Repubblica laica e pluriconfessionale. In questo senso Sen non può che scagliarsi ardentemente contro l’esperimento del partito induista Hindutva fondato intorno al primato etnico e confessionale della tradizione induista del paese e fermo nel rivendicare pretese di controllo della libertà di espressione e della libertà di insegnamento, esigendo il controllo pervasivo dei media e delle istituzioni formative scolastiche ed universitarie indiane (tra cui l’Università di Nalanda, nel Bihar, di cui Sen stesso è stato a lungo Cancelliere) (cfr. p. 243 e sgg.). Nella visione seniana, insomma, l’estremismo emotivo ed i tentativi di ravvisare la quintessenza dell’identità di un popolo e dei suoi abitanti non può che condurre inevitabilmente alla violenza tra individui e tra popoli, una violenza che una “politica fondata intorno alla paura” come quella propugnata dai partiti di ispirazione etnicista non può che fomentare (cfr. p. 159).

Questo The Country of First Boys contiene poi una potente considerazione sugli effetti della globalizzazione, un processo da ‘raddrizzare’, a dire di Sen, nel senso di un riequilibrio tra paesi affluenti e paesi emergenti, capace di andare oltre le tradizionali rotte commerciali che dimenticano lo sviluppo di troppe aree del pianeta (cfr. p. 118). Nel saggio Sharing the World, per esempio, Sen rammenta come i soli paesi del G8 siano responsabili di oltre il 75% dell’esportazione di armi verso i paesi di tutto il mondo, in tal modo favorendo una molteplicità di conflitti di bassa intensità che troppo spesso sfuggono dalle cronache internazionali (5). È qui che emerge la chiamata seniana alla responsabilizzazione dell’economia di mercato che ha il dovere di tornare capace di ritrovare la sua ragion d’essere nell’endiadi indissolubile tra mercato ed etica per favorire la “libertà come valore universale” (6).

Nel momento in cui poi Sen riconosce le origini del dibattito liberaldemocratico nella storia del pensiero politico britannico e statunitense, nondimeno egli non può che criticare la pretesa assimilatrice cara allo Stato-nazione europeo desideroso di annullare ogni differenza etnica e linguistica. In questo senso la democrazia non necessita di particolare preparazione (e quindi non va esportata), ma deve essere piuttosto “interiorizzata” e, quindi, «un popolo non dev’essere giudicato in base alla propria capacità di essere democratico, quanto piuttosto esso deve divenire migliore proprio grazie allo strumento della democrazia» (p. 80).

Ecco allora che, come Sen mette in evidenza nel suo saggio dal titolo Sunlight and Other Fears. The Importance of School Education, anche la formazione scolastica deve essere significativamente estesa in maniera fattiva alle nazioni nel loro complesso, favorendo un equilibrio tra apprendimento tecnico-vocazionale ed apprendimento valoriale intorno alla democrazia (educazione civica) ed alla diversità (ecco perché, per esempio, in India deve essere condannata la rilettura della storia attraverso le lenti di un induismo che si fa politico-militante e non più unicamente culturale). La formazione, pertanto, nella visione seniana, non è da confinarsi alla “basic education” ma va estesa ben oltre l’età infantile, combattendo l’abbandono scolastico e l’assenteismo dei docenti, favorendo modalità esperienziali di apprendimento e l’inclusione delle bambine a lungo bollate come esseri umani di seconda scelta e sovente “non meritevoli” dell’attenzione e della spesa delle pubbliche istituzioni. La scuola primaria ha anche il dovere di combattere la malnutrizione infantile soprattutto nei paesi più poveri dove spesso le famiglie non riescono a mantenere i figli all’insegna di un sostentamento di qualità, un vero e proprio “diritto” sancito dalla stessa Corte Suprema dell’India proprio all’inizio del Duemila (7).

Alla scuola indiana spetta secondo l’economista bengalese il dovere di riconoscere un profondo tributo alla figura e all’opera di Rabindranath Tagore, il poeta laureato e Padre della nazione che ha fondato nel Nord dell’India l’istituto formativo di Santiniketan (città natale dello stesso Sen) che attirò numerosi pedagogisti come Maria Montessori, Leonard Elmhirst e lo stesso John Dewey. Tagore è forse il simbolo delle molteplici linee direttrici cui ispirare le istituzioni formative come lo stesso Sen le intende: Tagore era, infatti, un intellettuale capace di dialogare di filosofia e fisica con uno scienziato del calibro di Albert Einstein e di sdoganare l’eccesso di fervore religioso in capo allo stesso Gandhi (che arrivò a sostenere che il terremoto nello Stato indiano del Bihar del 1931 che aveva causato migliaia di vittime rappresentasse una “terribile punizione divina”), ma Tagore era anche il cantore dell’unità tra i popoli e le culture nella diversità perché per lui il mondo altro non era che “un unico nido” e significativamente egli viene ritenuto padre fondatore della nazione non solo dell’India a maggioranza induista ma anche del Bangladesh a maggioranza islamica. Per Tagore, peraltro, l’apprendimento non si misurava soltanto attraverso le prestazioni e la quantità di nozioni possedute (egli peraltro condannava senza appello la ripetizione a memoria che bollava come “istruzione del pappagallo”), mentre anche la corporeità ed il semplice atto di stare insieme uomini e donne correvano nel senso di favorire la capacità di apprendere (8). Ma sarà soprattutto la democrazia come sistema politico a poter beneficiare della ricostruzione del “lato Tagore” della storia politica indiana cui Sen si dedica puntualmente: un sistema politico, nella fattispecie, che avrebbe il dovere di contrastare le nozioni di “nazionalismo culturale” e di “sciovinismo” al fine di abbracciare in senso pieno la diversità di vedute e di contrastare l’univocità culturale. Nel ritratto di Tagore che Sen ci affida quale “eroe dell’indipendenza nazionale” emerge proprio la possibilità di contemperare la fedeltà cosmopolitica con l’attaccamento alla propria nazione di appartenenza dal momento che Tagore era stato uno dei primi intellettuali indiani del Novecento a mettere in evidenza la confluenza della cultura induista, di quella islamica e di quella britannica nel subcontinente, così come di restituire il proprio cavalierato alla Gran Bretagna quando nel 1919 le truppe del generale inglese Reginald Dyer uccisero oltre trecento persone radunatesi ad Amritsar per protestare pacificamente contro le ingiustizie perpetrate dall’amministrazione britannica in India.

A far da sfondo al discorso sull’empowerment individuale è, infine, il celebre assunto seniano in base al quale le riforme sociali devono avere preminenza rispetto all’imperativo della crescita economica: un sistema liberaldemocratico efficiente, infatti, nell’ottica seniana non è soltanto quello garantito da un sistema pluralista e dal government by discussion formulato da Walter Bagehot e da John Stuart Mill, quanto piuttosto quello che richiede un equilibrio tra ‘forma’ e ‘sostanza’ della democrazia, soprattutto per quanto concerne il valore della responsabilità e l’impegno per le politiche pubbliche.

NOTE

(1) Jean Drèze and Amartya Sen, An Uncertain Glory, Princeton University Press, Princeton 2013.

(2) Amartya Sen, The Country of First Boys, ibidem, op. cit, pp. 130-131 (questo saggio è omonimo al libro e gli presta il titolo).

(3) Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon and Schuster, New York 1996.

(4) Amartya Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Mondadori, Milano 2004.

(5) Amartya Sen, Sharing the World: Interdependence and Global Justice, in Amartya Sen, The Country of First Boys, op. cit, pp. 115-126.

(6) Amartya Sen, On Ethics and Economics, Basil Blackwell, Oxford 1987; cfr. anche Amartya Sen and Emma Rotschild, Adam Smith’s Economics, in Knud Haakonsen, The Cambridge Companion to Adam Smith, Cambridge University Press, Cambridge 2006.

(7) Amartya Sen, Sunlight and Other Fears: The Importance of School Education, in Amartya Sen, The Country of First Boys, op. cit, pp. 95-114.

(8) Amartya Sen, What Difference Can Tagore Make?, in Amartya Sen, The Country of First Boys, op. cit, pp. 199-216. Cfr. anche Amartya Sen, Development as Freedom, Oxford University Press, Oxford 1999 e Amartya Sen, The Idea of Justice, Penguin, London 2009.

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Titolo: The Country of First Boys and other essays

Autore: Amartya Sen

Editore: Oxford University Press

Pagine: 276

Prezzo: 17,50 €

Anno di pubblicazione: 2015



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