Gaza: tre forze su cui puntare
perché le cose cambino

Siamo nel 1979. Quando Oriana Fallaci, nel pieno fulgore della sua carriera di giornalista d’assalto, va in Vietnam con una sua collega a intervistare il generale Giap: grande protagonista della guerra d’indipendenza e, al tempo stesso, spirito libero e, quando necessario, anche critico. Per sentirsi raccontare di una visita avvenuta qualche anno prima da parte di alcuni dirigenti dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp).

Qui siamo a metà degli anni Settanta, ai tempi della grande intossicazione ideologica. Il voto dell’Assemblea generale Onu che equipara il sionismo al razzismo; la comparsa di Arafat al podio con il mitra e il ramoscello d’ulivo, nelle vesti abusive di padrone della guerra o della pace; gli appoggi internazionali; l’inizio della guerra civile in Libano, dove i cristiani sono sotto attacco e la stessa Olp ha spostato la sua sede centrale. Insomma, la possibilità di ripetere, in un diverso contesto, l’esperienza vittoriosa del Vietnam.

Ma Giap non condivide affatto questa analisi e le spiega perché. Personalizzato, con un certo margine di arbitrarietà, il suo discorso sarà più o meno questo: “La vostra dovrebbe essere la classica guerra asimmetrica; un conflitto in cui l’avversario dispone di una forza militare infinitamente superiore alla vostra ma voi siete molto più motivati di lui Ma non ha possibilità di successo. Perché il nemico opera su di un terreno a lui noto e dove la guerriglia è impraticabile. Ed è soprattutto – e qui sta la differenza fondamentale rispetto alla nostra esperienza – motivato come voi. Conseguentemente, la violenza non può essere lo strumento primario per raggiungere i vostri obbiettivi e andrà sostituita con la politica e soprattutto con la capacità di garantire alla vostra causa il massimo sostegno sia nel mondo arabo che a livello internazionale. Ricordatevi, infine, che avete di fronte uno Stato che non è un’entità artificiale inventata dall’Occidente e quindi dipendente da questo, ma una struttura dotata di forza propria e che tenderà sempre più a perseguire un proprio disegno incompatibile con il vostro“. La diagnosi, se così vogliamo chiamarla, era esatta. Perché, come sarebbe apparso assolutamente evidente con l’andare del tempo, l’ipotesi della guerra asimmetrica si sarebbe scontrata con un rapporto sempre più squilibrato a favore degli israeliani.

Le tre fondamentali tappe di questo processo, interpretabili anche come occasioni perdute, furono, in primo luogo, il ritirarsi dal processo negoziale delle due principali componenti esterne: il mondo arabo e l’Occidente (intendendo per tale gli Stati Uniti; gli europei, con l’esclusione dell’Italia di Craxi e, a intermittenze, della Francia, non ne furono mai parte attiva). Per arrivare agli accordi di Oslo, basati sulla disponibilità autonoma di Israele a fare concessioni e sulla capacità dei palestinesi di fermare la violenza; dando così luogo a un circuito perverso prolungato fino ai nostri giorni e con effetti sempre più disastrosi. A seguire, l’entrata in campo di Hamas, parto – per inciso – dei servizi di sicurezza israeliani in alternativa ad al Fatah, l’assassinio di Rabin, i micidiali attentati dello stesso Hamas, il naufragio del negoziato del 2000, sciaguratamente accompagnato da Arafat con un segno di vittoria e interpretato dall’Occidente come incapacità dei palestinesi di accettare qualsiasi compromesso. E, a coronare il tutto, l’attacco alle Torri gemelle, in corrispondenza con l’avvio della seconda Intifada, che avrebbe portato a considerare l’islamismo politico come un nemico generale quanto indistinto e i palestinesi come irrecuperabili alla causa della pace. Questo, mentre la prima Intifada, conflitto asimmetrico ma a bassissima intensità, aveva fatto crescere a dismisura l’appoggio internazionale alla loro causa.

Seguiranno vent’anni, segnati dalla progressiva retrocessione della questione palestinese da “problema da risolvere come premessa per un processo di risistemazione pacifica e democratica di tutto il Medio oriente” (questo dirà Obama all’Università al Azhar) a fastidiosa eredità da accantonare. Un processo cui, tanto per essere chiari, contribuiranno tutti: Netanyahu a dire che non aveva nulla in contrario ad affrontare il problema ma che i palestinesi non erano disponibili a discuterne, perché volevano distruggere Israele; i governanti europei a prenderne atto, sino a negare la richiesta palestinese di essere riconosciuti come Stato perché questo avrebbe offeso gli israeliani; e, ebbene sì, i dirigenti di Ramallah, rigidi sui principi (Gerusalemme, frontiere, ritorno dei profughi) sanciti da risoluzioni internazionali quanto sordi alla necessità di costruire le fondamenta stesse di uno Stato e complici attivi dell’occupante sui problemi della sicurezza.

Nel frattempo Israele e i Paesi del Golfo raggiungono una serie di accordi, sponsorizzati da Trump. C’è il reciproco vantaggio, nessuno protesta. Ma per i palestinesi nulla; nemmeno la valanga di soldi, ipotizzati dal genero di Trump, Kuschner (e che forse i palestinesi avrebbero accettato, con la formula del silenzio/assenso).

Ma, all’indomani della penultima guerra di Gaza (siamo nel 2021), si riapre finalmente per loro una reale finestra di opportunità. Simboleggiata dal fatto che, per la prima volta in una storia ahimè centenaria, un grande quotidiano americano mostra a piena pagina la fotografia di diversi loro giovanissimi caduti: chi erano, cosa speravano di fare nella vita, cosa stavano facendo prima di essere colpiti da bombe intelligenti. Opportunità di cui sono peraltro consapevoli anche gli stessi palestinesi, come dimostrato dai sondaggi tenuti sia in Cisgiordania che a Gaza. E da cui emerge: la scarsissima fiducia nelle loro rispettive leadership (il più gettonato, Barghouti, è da vent’anni nelle carceri israeliane); la scarsa credibilità della formula “due popoli, due Stati“; e, infine, la disponibilità, anche se nutrita di scetticismo, a contentarsi di accordi che migliorino le loro condizioni di vita.

Accordi che sembrano, tra l’altro, a portata di mano: c’è la mediazione egiziana, c’è il silenzio/assenso Usa, c’è a Gerusalemme un nuovo governo che si regge sull’appoggio di una lista araba, c’è la disponibilità di Hamas a siglare una tregua a tempo illimitato in cambio di sostanziosi aiuti.

Non sappiamo quando e perché questo processo si sia arenato. L’ipotesi più fondata è che a ciò abbiano contribuito la debolezza e le divisioni interno del governo Bennett e, soprattutto, il mancato impegno americano. A loro il compito di “metterci i soldi”; loro la renitenza ad affidare i quattrini a una organizzazione ufficialmente catalogata come terroristica (lo stesso principio che li portò e li porta ad abbandonare a sé stessi libanesi, siriani e afghani; come a dire che si fanno pagare ai popoli le colpe dei loro governi).

Seguiranno il ritorno di Netanyahu, con il concorso determinante della destra razzista, l’ulteriore giro di vite in Cisgiordania mentre è in dirittura d’arrivo l’accordo con l’Arabia Saudita, pietra tombale della questione palestinese. Questa la tela di fondo entro la quale maturano l’eccidio del 7 ottobre, con la relativa rappresaglia israeliana. L’inizio vero, come vedremo, di quella “guerra asimmetrica” sui cui rischi Giap aveva messo in guardia i palestinesi.

A questo punto, la domanda è “perché”. Una domanda cui occorre rispondere, evitando le reazioni propriamente razzistiche (“belve con sete di sangue”) così come quelle vagamente assolutorie (“azione ingiustificabile ma comprensibile alla luce di…”). E, ancora, niente “distruzione di Israele” cui far corrispondere quella di Hamas. La prima è una formula vaga quanto sinistra che può significare tutto e il contrario di tutto: da un nuovo Olocausto fino ad un mutamento della forma istituzionale dello stato. E non rientrava comunque nell’orizzonte degli autori del massacro del 7 ottobre, non a caso ufficialmente ascrivibili alla sola “ala militare”. E senza alcuna partecipazione e/o condivisione da parte del vasto fronte che fa capo all’Iran. La seconda, la distruzione di Hamas, ufficialmente conclamata da Israele, ma che, aldilà dei proclami e dei relativi “effetti collaterali”, si rivelerà ben presto impossibile da realizzare.

E allora, perché? A questo punto, e alla luce di quello che è successo, le ipotesi più ragionevoli per capire il perché dell’attacco sono due; e non necessariamente in contrasto l’una con l’altra.

La prima ha a che fare con il confronto con Israele. Ed è quella di riaprire finalmente quella “guerra asimmetrica”, abortita sul nascere nel 2001 e di cui esisterebbero ora tutte le premesse. A partire, questa volta, dalle diverse motivazioni dei due contendenti. Da una parte, chi è disposto a sacrificare la sua gente alla Causa; dall’altra un popolo che farà mancare sempre più il suo sostegno alla guerra totale cavalcata da Netanyahu. E, ancora, da una parte chi fa appello all’opinione pubblica internazionale, certo di essere ascoltato; e dall’altra chi la sfida sempre di più ogni giorno che passa. Il tutto, però, senza rendersi conto che, tra le due tifoserie, quella dell’avversario è infinitamente più efficace della propria. E che lo choc ricevuto, non renderà certo gli israeliani più sensibili alle ragioni del Nemico.

La seconda, e maggiormente condivisa, ha invece a che fare con l’esigenza di riporre al centro dell’attenzione il problema palestinese. Un obbiettivo che è stato raggiunto: oggi, ma anche nel futuro prevedibile. Ma questo non significa affatto che ciò lo renda più vicino a una soluzione. Mentre, dopo gli orrori del 7 ottobre e dei mesi successivi, è diventata pura utopia l’ipotesi di un accordo tra le due parti: che si tratti dei “due popoli due Stati” o di qualsiasi altra possibile soluzione. E la prospettiva di un allargamento del conflitto, al di fuori di qualsiasi controllo, appare assai più realistica rispetto a quella di un generale cessate il fuoco.

Per altro verso, le due parti non possono continuare a essere quelle di oggi. L’Israele di Netanyahu aveva già ampiamente dimostrato in passato di essere perfettamente in grado di dire no agli Stati Uniti; fino a denunciare, in casa loro e davanti a camere riunite plaudenti, Obama come un novello Chamberlain. Figuriamoci poi oggi, a meno di un anno dalle presidenziali americane e con la prospettiva di un ritorno al potere dell’amico Trump. E, in quanto allo schieramento palestinese o filo palestinese, l’estrema articolazione delle posizioni – nessuna automaticamente guerrafondaia ma anche nessuna coerentemente pacifista – non è più un atout, ammesso e non concesso che lo sia stato in passato.

Perché le cose cambino – o per evitare che il quadro si deteriori in modo irreparabile – dovrebbero, allora, entrare attiva mente in campo tre forze che sono finora rimaste silenti: la Lega araba, la dirigenza palestinese e la sinistra israeliana. Il loro silenzio non è casuale. La Lega araba ha ricostituito la sua unità in una prospettiva di pacificazione a uso puramente interno. Rinunciando, di proposito, a costruire una linea internazionale comune. La dirigenza palestinese non esiste. E, all’interno di Israele, il clima si fa sempre più tossico per chi dissente.

Tutto ciò, però, non giustifica il silenzio. E, ancor più, la passività auto-liquidatoria all’interno di un mondo sempre più radicalmente polarizzato. E, tra l’altro, non si chiede poi molto. Non è necessario che gli arabi moderati scendano in campo contro Israele o interrompano il flusso del petrolio; basterebbe che minacciassero una rottura con lo stato ebraico, una volta messa in atto la minacciata distruzione del Libano o prolungato all’infinito il massacro di Gaza; e che, per converso, legassero lo sviluppo dei loro rapporti con Israele all’accettazione formale della prospettiva “due popoli due Stati”. A partire dal loro impegno diretto nella gestione del dopoguerra a Gaza.

Per altro verso, occorrerebbe comunicare formalmente all’attuale, si fa per dire, governo palestinese quello che sa benissimo ma che si rifiuta di ammettere. E cioè, che il recupero del suo ruolo interno e internazionale è assolutamente necessario; ma passa per la sua radicale rimessa in discussione.

Leggi, dalla sua disponibilità a porsi al servizio dell’unità del popolo palestinese e quindi della sua rappresentanza politica. Un’ipotesi che è anche una garanzia e una sfida per la controparte israeliana; e che, come tale, dovrebbe essere gradita dal suo popolo anche se respinta in linea di principio da Netanyahu.

Da anni, da decenni questo popolo si sentiva sicuro. Al punto di dimenticare l’esistenza dell’Altro. E di essere totalmente assorbito dalle sue divisioni interne. Ora, lo choc e il comprensibile desiderio di rivalsa e di vendetta. Ma, sin d’ora, accanto a questo, non solo e non tanto la percezione del fatto che la distruzione cieca in atto non distruggerà Hamas né porterà a casa i propri cari; ma anche, e soprattutto, la convinzione che re Bibi lega le sue fortune alla permanenza dello scontro e all’esaltazione del pericolo. E che, in conseguenza, il suo allontanamento dal potere, qui e oggi, è la premessa necessaria per qualsiasi processo di normalizzazione.

Il tempo a disposizione è breve. Meno di un anno dalle prossime elezioni americane. Ma è sufficiente per avviare concretamente almeno uno di questi tre processi. Non saremo, in questo caso, più vicini alla soluzione del problema; ma almeno avremo evitato la catastrofe.

 

 

Questo editoriale è stato in origine pubblicato nella rivista Mondoperaio, numero di Febbraio 2024.

Immagine di copertina: una foto scattata il 15 dicembre 2023 nel sud di Israele mostra due soldati israeliani che camminano su una collina. Sullo sfondo, la striscia di Gaza. Foto di Gil Cohen-Magen/Afp.

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