Berlusconi politico, un fallimento
di fatto che rischia di continuare

Lasciamo stare per un momento il tycoon, l’interprete dell’anima italiana, l’autobiografia della nazione – non un bellissimo complimento, dati i precedenti –, il gigante della tv commerciale che portò al suo picco, e lasciamo stare anche il conflitto di interessi che valse all’Italia un declassamento nel rating di libertà e che un po’ almeno gli servì. Tutte cose importanti. Ma parliamo del Berlusconi politico, la cui parabola cominciò proprio mentre, chissà per caso o per fortuna, mi capitava di dar vita a una rivista, Reset, che avrebbe dovuto a lungo occuparsi di lui, un uomo agli antipodi della cultura e dello stile azionista e liberalsocialista, che presuntuosamente prendevamo a modello da Bobbio e Vittorio Foa. Lasciamo stare tutto questo e mentre le ceneri di Berlusconi vengono tumulate, parliamo della sua politica.

La famosa scesa in campo – inverno ’93-’94 – avviene sulle rovine della cosiddetta Prima Repubblica, un passaggio nella storia italiana che è ancora oggetto di interpretazioni unilaterali, e peggio, fantasiose e cospirazioniste (la congiura dei magistrati e dei comunisti), versioni trainate da coloro che ne furono vittime. E ci sono anche ragioni per capirli, ma non quando rimuovono il paesaggio di corruzione, profonda e diffusa, che qualche colpevole doveva avercelo, e il catastrofico debito pubblico ad opera dei governi degli anni Ottanta. Quella narrativa avrebbe ancora tenuto banco – anche se dalla decapitazione di Dc e Psi Berlusconi ricavava la sua prateria elettorale – e il pericolo comunista sarebbe stato l’argomento chiave della campagna di Forza Italia nel ’94, nonostante il Pci avesse concluso la sua storia nel 1989, iniziando un percorso che avrebbe nel tempo, lungo, portato alla confluenza con gli eredi progressisti della Dc e altre componenti repubblicane e liberali che sarebbero poi confluite nell’Ulivo e finalmente nel Pd nel 2007.

Quel processo avrebbe certamente preso troppo tempo, semplificando il compito di Berlusconi; eppure nel 1993 la sinistra stava conquistando i sindaci delle grandi città a man bassa e avrebbe potuto fare altrettanto su scala nazionale con candidati adatti a una coalizione più larga. In realtà Berlusconi ha rappresentato sempre la sinistra come comunista, nonostante le coalizioni avversarie che affrontava fossero quel che altrove erano i partiti socialisti o socialdemocratici. Ma avere candidato l’ultimo segretario del Pci, Occhetto, nella sfida per la guida del governo nel ’94 è stato un errore disastroso, che ha aperto la via alla carriera di Berlusconi ai vertici dello Stato, con una prima vittoria, pur fragile, della sua coalizione, che legittimava gli ex Msi e li associava sotto le sue ali con la Lega di Bossi. L’alternativa disponibile per gli ex Pci era quella di candidare Ciampi come primo ministro, cosa che avrebbe anticipato i tempi di quel che poi si fece con Prodi e con l’Ulivo solo nel ’96.

Ah, fu certo “visto arrivare”, il Berlusconi politico, ma la rapidità con cui il neonato leader costruì la formazione contraddittoria e a suo modo geniale tra il partito postfascista e la Lega nordista, per acchiappare voti al Nord e al Sud, non poteva trovare imitatori altrettanto rapidi e inventivi dall’altra parte. È vero che le contraddizioni della coalizione del Cavaliere esplosero poi rapidamente provocando la caduta del suo governo, ma vero anche che poi ripresero una andatura da lungo corso che sarebbe arrivata molto in là fino a quando la leadership passò di mano, a Giorgia Meloni.

Il centrosinistra fu molto più lento nel darsi una forma competitiva e trovò a lungo resistenze più forti ad amalgamare le varie componenti in uno schieramento convincente e stabile (stabile, mai, a dire il vero). Gli inciampi non mancarono anche quando il centrosinistra vinse poi nel ’96, nel 2006 e nel 2012, interrompendo comunque una possibile egemonia politica di Berlusconi, che è stata sempre più desiderata che realizzata.

La stagione della rivoluzione liberale a cura del presidente operaio è rimasta un sogno, così come la traiettoria riformista di un centrosinistra vincente, anche questa sempre arenata in un cabotaggio di governo, quando è andata bene, di breve durata e con cambi di primo ministro anche nel ciclo più lungo quello tra il 2012 e il 2018 (Letta, Renzi, Gentiloni). Entrambi gli schieramenti hanno fallito nell’impresa che avevano promesso agli elettori, certo con il contributo di leggi elettorali pensate (Calderoli, Porcellum) per destabilizzare gli avversari in caso di loro vittoria. L’ipotesi di una riforma che stabilizzasse il sistema e consentisse almeno un quinquennio di coerente azione di governo è stata tentata con la Bicamerale del ’97-’98, presieduta da D’Alema, ma abbandonata quando un accordo sembrava concluso proprio da Berlusconi. Ritentata da Renzi nel 2016, ma sconfitta solennemente dagli elettori, anche questa volta con il no determinante di Berlusconi.

Tutto questo per dire che il progetto politico dell’Unto di Arcore, annunciato come un grandioso rinnovamento, liberale o quale che sia, è sostanzialmente fallito perché mai uscito dalla nebulosa di programmi vaghissimi, nonostante il contratto (lista della spesa, da flaggare via via, ma poi mancava sempre il tempo) e perché mai davvero tentato nelle sue grandi promesse nella fiscalità, nelle infrastrutture e quant’altro. E proprio quando il leader della coalizione di centrodestra ha avuto i governi più lunghi della storia della Repubblica, il Berlusconi II e il IV, questi sono finiti, nel 2008 e nel 2011, il primo per una sconfitta elettorale alle regionali e il secondo sull’orlo di un collasso economico a ridosso di quello greco e pericoloso per tutta l’Europa.

Per usare le parole crude e chiare di una sintesi giornalistica del New York Times, poco dopo la morte del Cavaliere, “ciò che ha davvero destituito Berlusconi dal potere non è stato un improvviso risveglio etico in Italia o un’ondata di intolleranza verso le sue abitudini extracurriculari, ma il fatto irreversibile della crisi del debito in Europa e la mancanza di fiducia tra i leader e i creditori europei che potesse guidare il paese fuori da esso”: l’abbandono del 2011 e il salvataggio della nave escogitato dal presidente della Repubblica Napolitano con Mario Monti. Cosa a cui lo stesso Berlusconi si arrese senza reazioni scomposte, del che è bene dargli atto. Infatti né in questa occasione né quando dovette scontare la pena ai servizi sociali per evasione fiscale, due momenti critici, fallimentari in ogni senso e davvero pesanti per la sua persona, la sua risposta è mai uscita dai binari istituzionali democratici. (Cosa che negli Stati Uniti di Trump può solo essere oggetto di invidia). Quel che è seguito in termini di interviste, accuse e libri sul colpo di stato ordito in Europa da Merkel e così via è stato puro fumoso intrattenimento consolatorio ad opera degli house organs, che si spiega umanamente in quanto tale, data la gravità della umiliazione subita. Berlusconi, questa la cruda verità, era un leader politico semplicemente screditato. Non occorreva un complotto per screditarlo, semplicemente lo era già. Per gli altri leader europei e per il famoso mercato, che è congenitamente cattivo. Bastava chiedere fuori dalle nostre frontiere.

Il fallimento politico, compiutosi con lui vivo, rischia di raddoppiare nel seguito, dopo la sua scomparsa: i poveri resti di Forza Italia. L’idea iniziale aveva compiuto subito un buon tratto di percorso con Alleanza Nazionale, la svolta di Fiuggi, l’inizio di una promettente leadership di Fini. Ma Berlusconi percepì, comprensibile, Fini come un potenziale competitore nella guida del centrodestra, e si adoperò con il giornale di famiglia in prima linea nella campagna per buttarlo fuori e distruggerlo. Fini ci mise del suo ma fu il Giornale a liquidarlo. Lo stesso fece il Cavaliere con diverse altre figure politiche che lo affiancarono, sempre accentuando il loro ruolo gregario, delle donne come degli uomini. La leadership di Giorgia Meloni è dunque nata proprio in contrapposizione a Fini e al Pdl, il che forse le ha giovato, specie nel cerchio dei suoi sostenitori, per accreditarne l’autorevolezza, ma rappresenta anche un limite molto grave, nell’ipotesi di costruire quella destra conservatrice democratica e liberale europea (di cui al primigenio sogno di Berlusconi) perché la contrapposizione al politico che fece Fiuggi non porta niente di buono, è moneta cattiva, se si vuole legittimare una leadership capace di sedere nel contesto democratico europeo senza complessi di inferiorità: quanto pesa in Europa il fascismo e la difficoltà di parlarne! Il fallimento politico di Berlusconi è dunque certo e rischia di essere doppio, di continuare cioè nel Fortleben, nella vita residua della sua eredità politica, se non ci sarà un colpo di scena a opera della stessa Meloni.

Raccontando questo fallimento, riusciva facile vedere specularmente anche il fallimento del centro-sinistra nelle sue varie versioni, Pds, Ulivo, Ds più Margherita, Pd oggi, senza alleanze e dunque con scarse prospettive di rappresentare un’alternativa minacciosa, anche se i suoi avversari entrano ora in acque tempestose. Il fallimento parallelo non è un caso: c’è un vizio di sistema, vero? Che lo scenario possa cambiare ora che Berlusconi non blocca più il sistema?

 

Immagine di copertina: piazza Duomo a Milano durante le esequie di Silvio Berlusconi, 14 giugno 2023.

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