Traditori, nemici, collaborazionisti: il baratro della politica italiana

Cade o non cade? Si disfa, si scioglie o regge? Chi trarrà il dado? Presi dallo sport nazionale preferito dal circuito politico-mediatico, il retroscenismo sui tempi e modi della caduta dell’esecutivo, abbiamo perso di vista la vera posta in gioco: il paesaggio democratico che lascerà la prima esperienza di governo dichiaratamente populista in Europa occidentale quando si esaurirà, oppure no.

Non ci siamo accorti – o non abbastanza – che dietro la stagione delle poltrone ballerine, dei ribaltoni immaginati o forse solo auspicati, andava in scena in realtà tutt’altro: l’estate della ferocia. Una ferocia ineguagliata da decenni, nella vita pubblica italiana: rabbiosa, scomposta, e al contempo attentamente preparata. Ma ci sono sempre, nel concatenarsi della Storia, dei momenti-spartiacque: quelli che segnano un prima e un dopo – anche nella consapevolezza di una comunità. La dichiarazione del 1° agosto del ministro dell’Interno rappresenta uno di questi. “Stai buona, zingaraccia, stai buona, che tra poco arriva la ruspa”. Leggere e ripetere ad alta voce per credere.


Vale la pena riavvolgere il nastro per osservare l’escalation verbale – le parole sono pietre – che ha condotto, nel giro di poche settimane, a quest’abisso. Giacché la lingua non è utilizzata per caso: è lo strumento per centrare dei fini politici, per preparare il terreno ad altri, più concreti, atti. L’estate torrida della democrazia si è aperta – fine di giugno – con la costruzione di un bersaglio perfetto: la capitana della barca di un’organizzazione non governativa impegnata nel soccorso dei migranti al largo della Libia. Esaurito il confronto “di forza” sull’attracco della nave (a favore di quest’ultima, per altro), la macchina della comunicazione del primo partito d’Italia ha partorito o caldeggiato ogni genere di nefandezza contro il nemico perfetto: donna, giovane, tedesca, impegnata ad aiutare gli “ultimi della Terra”. Un cocktail micidiale. Attenzione alla terminologia, che non è casuale: si è costruito il nemico, esterno.

Le settimane che sono seguite hanno rappresentato l’acme della tensione e dell’insofferenza tra i due alleati di governo, oltre che tra questi e il principale partito d’opposizione. Una campagna quotidiana di accuse e insinuazioni reciproche che non ha portato ad alcun esito concreto sul piano politico – la caduta dell’esecutivo non fa comodo a nessuno, ora – ma ad un avvelenamento ulteriore del dibattito pubblico, se possibile. Non che questo sia noto, in questa stagione o nelle precedenti, per le sue alte vette, naturalmente. Insulti e colpi bassi sono all’ordine del giorno da anni, tra il serio e il faceto. Ma vale la pena, per seguire il filo degli eventi, di annotare qual è assurta ad essere la massima accusa da poter sfoderare contro l’avversario politico. Diciamolo senza orpelli: il collaborazionismo. Niente di peggio che collaborare col nemico interno – ad esempio il principale partito d’opposizione reo sostanzialmente di tutti i mali in cui si trova il Paese – o con quello esterno, la potenza straniera che ambirebbe a rigirare il dito nella piaga aggravando quegli stessi mali.

È esattamente questa l’accusa che i due contraenti di governo si sono rinfacciati nel mese di luglio. Lo ha fatto per prima la Lega, dopo l’elezione di Ursula Von der Leyen, per accusare il M5S di intelligenza col nemico: aveva sostenuto, in modo decisivo, la salita dell’ex ministra tedesca (!) scelta dal “vecchio establishment” al vertice più alto della politica europea. Boccone difficile da digerire, per un Movimento nato in opposizione a tutte le élites, quello di vedersi additato al fianco di queste. L’unica reazione possibile era quella di rispondere con la stessa, infamante – secondo la logica del veleno – accusa. Ecco dunque che sulla scelta del governo, non più rinviabile, sul Tav Torino-Lione già si prepara la macchina della contro-propaganda 5S: voteranno con il Partito Democratico, Forza Italia, con le lobbies di affaristi. Massima nefandezza, convergere su un provvedimento con forze di opposizione, nella visione “democratica” che prende il sopravvento.

Ed eccolo, il terzo vocabolo chiave fare capolino: traditori. Hanno tradito il mandato del popolo, quello del “cambiamento” – dunque stanno dalla parte delle élites, fanno altri, e loschi, interessi. Alto tradimento. Lo stesso di cui ora è accusato un ex sottosegretario dei governi di centrosinistra, Sandro Gozi, reo di aver intrapreso un nuovo incarico per conto del governo francese (!). Scelta che si può discutere, sia ben chiaro, ma non è di questo che si tratta. Il livello della delegittimazione totale dell’avversario prevede altro: la richiesta di revoca della cittadinanza, in nome del tradimento della patria.

Siamo al linguaggio della macchina comunicativa pre-bellica. La guerra non si vede, ma diverrà inevitabile se la catena non si spezza. Sarà forse un segno del destino che il salto nel buio finale del ministro dell’Interno, l’aggressione tv a una non meglio identificata “zingara” – il nemico interno, la chiusura del cerchio – con la minaccia di eliminarla con una ruspa sia giunta a poche ore dal centesimo anniversario della nascita di un Testimone del Novecento: Primo Levi. Testimone nel proprio corpo e con la mente degli abissi cui l’uomo, una manciata di decenni fa, è stato in grado di discendere. Scriveva Levi nella prefazione di Se questo è un uomo:

“A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che «ogni straniero è nemico». Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora, al termine della catena, sta il Lager”.

Siamo in tempo per fermarci prima. Ma c’è bisogno di farci tutti – al di là delle opinioni politiche, religiose, culturali – sentinelle democratiche contro la violenza. Verbale e non.

 

Foto: Andreas SOLARO / AFP.

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