Share e like, perché sul web il dilettante vince

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo un breve estratto di Stati di connessione (Franco Angeli), ultimo volume di Giovanni Boccia Artieri in libreria in questi giorni.

Quello che sta cambiando sono le condizioni di possibilità per la produzione e diffusione culturale i cui meccanismi di funzionamento erano definiti dai media di massa, dai loro linguaggi e modi di distribuzione ““centrici”” fondati sul controllo da parte di organizzazioni uno-a-molti e da infrastrutture di distribuzione materiale dei supporti. Quelle che osserviamo sono forme completamente distinte dai meccanismi interpersonali che producono e veicolano cultura nelle interazioni faccia a faccia e di piccolo gruppo. Oggi l’’emergere praticabile delle forme di distribuzione tra pari e di comunicazione molti-a-molti consentono una diffusione allargata e scalabile (tendente alla ““massa””) di contenuti amatoriali e di nicchia e delle forme di comunicazione che nascono nelle dinamiche interpersonali e di gruppo. In pratica la dimensione amatoriale e non professionalizzata è al centro di quella realtà di produzione e distribuzione di contenuti che l’’architettura e i linguaggi della Rete rende possibile e visibile. (…)

Quello che possiamo osservare in modo più astratto e generalizzato è la messa in visibilità di massa dell’’amatorialità e la connessione visibile e possibile fra le passioni individuali proiettate nella produzione di contenuti originali –– con tutte le sfumature del caso –– e la capacità di acquisire e condividere competenze sul sapere e sul saper fare che tolgono l’’amatore da una marginalità vicaria rispetto alla produzione professionale creando un contesto adatto allo sviluppo di un’’amatorialità che si professionalizza.

L’’amatore in tal senso:

sviluppa le sue attività amatoriali secondo standard professionali; egli desidera, in un quadro di loisir attivi, solitari o collettivi, riconquistare intere sezioni dell’’attività sociale come le arti, la scienza e la politica, che sono tradizionalmente dominate dai professionisti.

La condivisione di un sapere, di un’’esperienza che ha radici nel quotidiano sembra avere prevalenza sul contenuto condiviso. Di fatto ci troviamo di fronte ad una messa in comune del gusto e alla costruzione di esperienze di prossimità. In pratica si genera un contesto in cui si creano le condizioni di possibilità per la produzione di una forma capace di riaccoppiare il vissuto e la sua rappresentazione. Le dimensioni della passione e del piacere che sono alla base della pulsione amatoriale de-contrattualizzano il rapporto con la produzione, lo sottraggono alla logica puramente economica e i percorsi di senso che si producono sono valorizzati da forme del valore che sono centrate sulla messa in comune delle esperienze, sulla creazione di legami di vicinanza e prossimità, sulla valorizzazione del versante affettivo, in pratica sul rimosso, su quegli scarti (in senso paretiano) che sono alla base di una razionalità non economicizzata.

La dimensione intima e la circolazione di produzioni verso un pubblico ““prossimo””, accomunato dalle stesse proiezioni passionali e caratterizzato da una forma di consumo della produzione non necessariamente contrattualistico –– fruisco di contenuti lasciati per me gratuitamente e posso condividerli con altri al di là del principio di proprietà, come molta della cultura creative commons e le logiche di peer production ci insegna –– crea un mélange fra linguaggi interpersonali e di massa in cui il circuito produttivo finisce per essere connesso a pratiche discorsive di commento, di giudizio, opinione, ecc.
Nell’’atto di produzione è spesso co-implicata la distribuzione online da parte dello stesso produttore e la circolazione è soggetta a pratiche di ri-distribuzione, filtraggio collettivo, pareri e modifiche che spesso finiscono per riportare i contenuti da chi li ha prodotti affinché siano modificati, quando addirittura tali modifiche incrementali non siano lasciate ai consumatori stessi che si fanno ri-attivatori produttivi.

I contenuti open e il principio della ““beta permanente”” rappresentano ad esempio questo versante di continua possibilità di mutamento e traslazione di ciò che viene prodotto e immesso online. Il ““pubblico”” o ““consumatore”” di questi contenuti amatoriali è quindi parte costitutiva e sempre più visibile del processo: nel modello wikipedia, ad esempio, restano tracce delle modifiche successive di una voce e delle conversazioni attivate attorno alla voce stessa, così come ai processi decisionali di cancellatura o implementazione di contenuto; i contenuti soggetti a creative commons contengono diverse possibilità di manipolazione con citazione da parte di chi ha contribuito a dare nuova forma, ecc.

Questo non significa che non esistano pratiche di copia-incolla e di appropriazione senza citazione, così come la possibilità di manipolazione furtiva, ecc. Ma non è questo il punto: quella che si crea è una realtà in cui si normalizza una cultura della condivisione che valorizza i contenuti prodotti amatorialmente attraverso le forme di prossimità discorsiva e di relazionalità agganciate al contenuto stesso. Si tratta di contenuti che si orientano alla riflessività connessa, possono attivarla come non o attivarla secondo gradi diversi; possono essere oggetti il cui significato emerge da comunità riflessive o semplicemente prodotti che non innescano una riflessività immediatamente osservabile: sono comunque caratterizzati da una proprietà di scalabilità propria di ogni contenuto digitale e hanno una natura pubblica, cioè comunicativa, che li predispone comunque alla riflessività.

Il ““valore”” di un post su un blog, di un video su YouTube, ad esempio, dipende allora anche dai commenti che lo contornano, dalle citazioni che di questo vengono fatte in altri blog, da quanto viene condiviso e rilanciato ad esempio su Facebook e Twitter e, perché no, anche dai like che riceve attraverso l’’applicazione Facebook. Il contenuto amatoriale online non è mai a sé ma dipende dal contesto comunicativo più complesso ed è, appunto, all’’interno di questa complessità che va analizzato. Si potrebbe ribattere che, in fondo, si tratta dell’’esaltazione della società dei consumi dove all’’entusiasmo per le pratiche di appropriazione di contenuti culturali e oggetti mediali prodotti dai mass media da parte dei consumatori si sostituisce, in senso rovesciato, l’’entusiasmo per consumatori che per il semplice fatto di diventare (potenzialmente) produttori sviluppano un qualche vago empowerment –– peraltro subito interiorizzato dai mercati che fanno del coinvolgimento del consumatore o della sua partecipazione alla produzione, progettazione, ecc. una bandiera morale dietro cui velare uno sfruttamento che riporta alla visione di mercato neoclassica e al modo di produzione capitalista che si è sviluppato nella modernità.

Si tratterebbe però di ricondurre la nostra visione ad una prospettiva esterna di osservazione, cioè di tipo critico, assoggettata ad un pensiero decostruzionista –– ad un’’ermeneutica del sospetto –– che riporta ogni lettura immediatamente a discorsi di dominio e di potere: come se il significato potesse essere attribuito solo da fuori. Un paradigma più che utile per mettere in luce come la società riconduca in modo funzionale le pulsioni individuali e collettive secondo un approccio in stretta continuità con l’’idea di contingenza della modernità e con il pensiero modernista (anche in chiave post-).(…)

Nelle pratiche di produzione, distribuzione e consumo di questi contenuti prodotti, per così dire ““dal basso””, si specificano dei significati immediatamente riferibili all’’essere-nel-mondo e le forme simboliche che qui vengono generate e messe in circolo diventano un laboratorio di osservazioni sulle discontinuità possibili. E questo modo di osservare a partire dai fenomeni vivi, dai processi di produzione, distribuzione e consumo delle forme simboliche, non contiene di per sé un’’accezione positiva: alle forme della condivisione o del dono si contrappongono quelle dell’’odio online o quelle del potere giocato nelle connessioni.
Non si tratta però di adottare un paradigma dell’’ambivalenza ma di accettare l’’esistenza di piani di osservazione diversi e, per certi versi, irriducibili.

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