L’odio digitale che mina la democrazia. L’allarme dal Memoriale della Shoah

«La pacchia è finita», titola il Corriere della Sera a caratteri cubitali: il segnale più chiaro che l’odio e il discredito verso le minoranze hanno raggiunto il livello di guardia. La reazione scomposta del ministro “sovranista” all’ennesimo sbarco di rifugiati nel nostro Paese? No, l’accusa è rivolta direttamente dal quotidiano, ma agli ebrei – in una delle pagine (letteralmente) più buie della Storia italiana, la vigilia dell’adozione delle leggi razziali, nel settembre del 1938.

A ritrovare negli archivi quel ritaglio di giornale, e riportare l’inquietante parallelismo semantico, è Ferruccio De Bortoli, direttore decenni più tardi dello stesso quotidiano, nel corso di una serata tanto intensa quanto allarmante ospitata dal Memoriale della Shoah di Milano. Perché Premesso che non sono razzista, il titolo del ciclo di appuntamenti promosso nell’ex Binario 21, non è che il più ipocrita dei pretesti linguistici per giustificare lo sdoganamento delle peggiori aggressioni verbali a minoranze e soggetti vulnerabili di ogni genere.

A riflettere sul tema, insieme all’editorialista del Corriere, due politici esposti in prima persona al “fuoco sacro” dell’odio politico 2.0, l’ex presidente della Camera Laura Boldrini e il deputato Pd (ed ex presidente della Comunità ebraica milanese) Emanuele Fiano. Uniti, come altri personaggi pubblici, dal costante dileggio pubblico e privato per la loro storia e le loro battaglie, ma anche da una determinazione straordinaria a combattere questo ricatto collettivo.

Impossibile rinnegare oltre la gravità del fenomeno: la democrazia diretta de facto dei social ha consentito una vera e propria degenerazione del discorso pubblico, e il ritorno in auge della violenza verbale come arma “legittima” di lotta (di distruzione) politica. E a forza di voltare la testa, tutti o quasi, ci siamo risvegliati in un clima culturale/linguistico in cui chi fa la faccia feroce, chi usa l’espressione più volgare e colorita, è considerato quello “autentico”, che svela la vera natura delle cose e dà finalmente la lezione al nemico pubblico di turno. Come è stato possibile?

La scelta dell’avversario da additare, e la strategia per distruggerne la credibilità, di certo, non sono mai casuali, ha ricordato a tutti l’ex presidente di Montecitorio. Perché se la sistematica aggressione ai suoi danni non è stata altro che una prova di forza sessista per scoraggiare l’azione pubblica – politica, sindacale, civica – di tutte le altre donne del Paese, la chiave di lettura dell’operazione va cercata nella sua origine politica. A dare il là al festival osceno degli insulti pubblici e privati nei suoi confronti (e alle innumerevoli querele che ne hanno fatto seguito) fu infatti – sia ricordato nella memoria collettiva – un post dell’ispiratore di quel Movimento ora alle redini del Paese.

«E tu, che cosa faresti in macchina con la Boldrini?», aizzava con ironia grottesca Beppe Grillo sul proprio, seguitissimo, blog esattamente cinque anni fa. Il leader della Lega Salvini colse al balzo la proposta e innalzò a stretto giro l’avversaria a “nemica del popolo” numero uno. Quale miglior gioco di specchi per testare l’alleanza di ferro che sarebbe presto sorta?

Lo schema pare ormai rodato, ma l’eversione digitale è lungi dall’essere un problema solo italiano. L’Ungheria è stata il laboratorio ideale per testare e poi lanciare su scala mondiale la mobilitazione popolare contro il capro espiatorio George Soros: una calamita perfetta per i retropensieri e pregiudizi atavici degli europei. E nella stessa Francia, come osservato da De Bortoli, quella dei gilets jaunes appare anche e soprattutto come una rivolta contro il politically correct: no all’ecologismo e al femminismo, lussi di un’aristocrazia fuori dal tempo; benevola tolleranza verso certi sentimenti “popolari” antisemiti e anti-islamici. Il suono dei campanelli della Storia è forte e chiaro. Ma che fare?

Relatore della proposta di legge che nella scorsa legislatura arrivò ad un passo dall’inserire nel nostro ordinamento il reato di apologia di fascismo, Fiano non ha dubbi. O meglio, ne ha avuti molti, di ordine culturale e costituzionale, nei lunghi anni di studio del dossier, ma li ha dissipati convinto dalla vera e propria emergenza democratica della questione, oltre che dalla lettura degli stessi dibattiti dell’Assemblea Costituente. La disposizione transitoria della Carta che proibisce la “riorganizzazione del disciolto partito fascista”, insieme alla legge sulla stampa tradizionale, non sono più sufficienti nel contesto ben più liquido e frammentato del nuovo secolo. A prevederlo, lunghi decenni fa, era stato lo stesso Piero Calamandrei. Per Fiano, l’Italia deve dotarsi dunque al più presto di nuovi strumenti giuridici capaci di impedire la diffusione dell’odio politico – online e offline – che mina le fondamenta della stessa democrazia. Per arrivare a poter chiudere immediatamente, per essere concreti, formazioni chiaramente neofasciste come Casapound così come di gruppi e pagine social rigonfie di teorie, insulti e oscenità che ben poco hanno a che spartire con la “libertà di parola” cui pensavano i Padri Costituenti.

Se poi agli strumenti giuridici si affiancherà una vera riscossa culturale, solo allora si potrà davvero uscire dalla trappola democratica mortale. Magari, come suggerisce Laura Boldrini, tornando ad andare fieri di educare i propri figli – perfino i propri amici e compagni di strada – nel segno di due parole diventate per qualche oscura ragione “fuori moda”: correttezza e bontà. Forse dovremmo solo riabituarci ad ascoltarne davvero il suono, e il significato.

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