Meritocrazia o aristocrazia? La profezia di Michael Young

Fortificati e legittimati dallo smartphone e dai social, molti elettori hanno cercato di prendere il potere votando, ha spiegato Baricco senza perifrasi. Votando cosa?  «Il contrario di quello che suggerivano le élites», «il contrario» di quelli del TINA (There Is No Alternative), «il contrario» dei noiosi del principio di realtà, delle regole europee, della «contraddizion che nol consente», perché qui invece «si puote ciò che si vuole», parola non del Dio onnipotente, ma del Dio Popolo, che fa finalmente valere le sue ragioni. «Il contrario», è così. La «rivoluzione sovranista» comincia da qui, applaude Steve Bannon, che queste pulsioni negative le conosce bene avendole cavalcate vittoriosamente nella madre patria, mentre gli avversari liberali, moderati, razionali sono in stato di ipnosi – ancora Baricco – e non sanno più cavalcare bene niente, in pro di qualche cosa.

Di fronte a un fallimento liberale il pensiero conservatore ha i suoi begli argomenti, da sempre, a cominciare da quel francese, Tocqueville, che metteva in guardia fin dal primo sguardo dato alla democrazia americana, nel 1832, che le maggioranze sono pericolose, non ragionano come rigorosi economisti, seguono vari impulsi: desiderio di vendetta, disprezzo per i diversi, per la scienza, altro ancora. La rivolta contro i politici precedenti e insieme le competenze e la tecnocrazia era da mettere in conto. Inseguire e criticare gli elettori con un manuale di economia o logica o buone maniere non dà risultati spettacolari. Dunque, sarebbe bene esplorare e monitorare sempre i possibili sfoghi di rabbia. E le loro ragioni vanno approfondite.

Aveva cominciato a farlo dopo i vari crash (Brexit, Trump, l’Italia) l’Economist, magari tardi, ma con la consueta eleganza: «L’attacco è in risposta all’ascesa di persone identificate dai loro detrattori, non irragionevolmente, come un’élite liberale». Oh sì, certo. Ma, osservava ancora la rivista, la classe dirigente liberale ha raccontato a sé stessa la storia di una sana «meritocrazia» grazie alla quale si è guadagnata i suoi privilegi, ma la realtà non è affatto così. L’élite, di cui sopra, vive in una «bolla» assicurata contro la «distruzione creativa» della globalizzazione. E si aspetta che il resto del mondo passi indenne attraverso crisi come quella del 2008?

Professionisti, finanzieri, professori non corrono rischi perché la «meritocrazia» è un circuito chiuso che si autosostiene. Rieccola la parola, coniata nel 1958 da Michael Young e oggi passata al microscopio come sospetta, ma non per colpa sua, come poi vedremo. Negli ultimi quindici anni le università americane più prestigiose hanno preso tanti studenti dall’1 percento delle famiglie più ricche quanti dal 50% di quelle più povere. Uno studio sulla distribuzione del reddito negli Stati Uniti nel tempo mostra che la fetta più grossa della ricchezza se la prende e se la incrementa non tanto il famoso 1% dei superbig contro la massa del 99, no, ma – cosa ben diversa – il 10% contro il 90%. Una fascia molto più grossa che se la passa alla grande nelle imprese, nelle professioni e anche nella cultura: aria di famiglia con l’élite liberale?

Il saggio, di Matthew Stewart, aveva in copertina (su The Atlantic) un neonato con i pannolini con sopra impresso il marchio dell’università di Yale: predestinato. E con un sottotitolo spiritoso: voi che state leggendo siete probabilmente «parte del problema». Qualcuno la chiama liberalocracy, qualcuno «meritocrazia ereditaria» (è il caso di Edward Luce in The Retreat of Western Liberalism) e documenta con dettagliate analisi la frustrazione delle aspettative, la falsificazione della promessa meritocratica: «Perché i perdenti non dovrebbero essere arrabbiati?». Qualcuno chiama in causa la cosiddetta «curva del Grande Gatsby», una idea, un grafico dell’economista Alan Krueger, dal quale si ricava che l’indice di «immobilità» sociale tra le generazioni è collegato all’indice di ineguaglianza, per cui in paesi come l’Italia o gli Stati Uniti le probabilità che i figli salgano più in alto dei genitori sono molto meno che in Danimarca, Svezia o Germania.

Quelli che nella storia difendono il perimetro e le mura che proteggono questi privilegi ereditari vengono di solito definiti «aristocratici», perché dunque continuare a usare indebitamente quell’altra parola, meritocrazia, per descrivere queste situazioni cristallizzate? Non mancano dei critici conservatori del liberalismo (come Patrick Deneen, Why Liberalism Failed) che infatti difendono l’aristocrazia, considerandola meno urtante per i sentimenti popolari. Questo spiegherebbe perché i reali britannici o quelli di Monaco siano molto meno detestati (quando non sono amati) di quanto lo sia Macron oggi tra i gilets jaunes.

Michael Young, per tornare all’inventore della parola, non solo è innocente, ma tutto questo aveva previsto. Nonostante spesso sui giornali il suo conio sia usato in quel modo che ne ha fatto il bersaglio dell’Economist, Young, britannico – e laburista di primo piano nell’ispirare il partito che vinse le elezioni dopo la guerra – scrisse The Rise of Meritocracy per indicare con una narrazione distopica il pericolo di scegliere dirigenti solo in base al quoziente di intelligenza. E voleva far pesare valori come la creatività, sensibilità e generosità, perché nessuna vita venisse considerata meno degna delle altre. Young dedicò non solo il libro, ma anche il resto della sua vita all’innovazione politica e al riformismo, che avrebbe voluto sempre in guardia contro la cristallizzazione dei privilegi tra le generazioni. Un rischio da combattere con riforme come quelle dedicate a una istruzione secondaria gratuita e di qualità, all’infanzia, alla sanità. Voleva politiche orientate alla stella polare della mobilità sociale, un obiettivo che non basta evocare dietro l’esausto slogan delle pari opportunità, consumato, appunto, da decenni di meritocrazia.

Questo articolo è uscito sul quotidiano “La Repubblica” il 17 gennaio 2019

Il dibattito promosso da ResetDOC attorno alla crisi del liberalismo e delle promesse del patto democratico prosegue a Milano e sul web su trendilliberale.reset.it.

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