La gloriosa liberaldemocrazia
un frutto buono per una sola stagione?

La generazione del dopoguerra, i boomer, quelli che grosso modo sono stati al comando fino a pochi anni fa (e molti resistono come il patriarca della serie tv Succession, come Trump o Biden o Putin, ma siamo agli sgoccioli), ha da tempo cominciato a raccontare ai più giovani che l’epoca d’oro della crescita, delle aspettative crescenti è tramontata, che il futuro garantito, gli aumenti di stipendio quasi come un fenomeno naturale, il posto e la pensione sicuri non sono più l’orizzonte stabile in cui ci è dato vivere qui nel florido Occidente. Questo tramonto si è affacciato non da ieri: il 2008 ha dato un colpo di grazia, ma la fine dell’epoca del miglioramento continuo si presentava già nei Novanta e, a guardare bene, già negli Ottanta.

Lo storico Pierre Chaunu nel ’75 descriveva la crescita come “più cibo, più abitazioni, più libri, più vita, una morte più tardi, più uomini, una natura meglio dominata dall’uomo”. Era difficile vedere in quel clima i segni che annunciavano che quello stato di grazia si sarebbe incrinato e si sarebbe rivelato un genere deperibile, una condizione che era stata resa possibile da una serie di fattori “storici”, parola che ci indirizza al mestiere di Andrea Graziosi che appartiene alla generazione di cui sopra e la cui memoria vigile e cosciente di cinquant’anni (seguiti alla sua gioventù) consente di abbracciare almeno una parte dei “trenta gloriosi” (i ‘50-‘60-‘70) e tutti i trenta non gloriosi venuti dopo. Un dettaglio biografico che aggiunge forza e chiarezza alla percezione del tempo presente riguardato in prospettiva storica, con l’ausilio di una documentata letteratura storica del declino, come nel caso di Chaunu o di Christopher Lasch.

Si fa presto a dire che per capire i problemi del presente bisogna inquadrarli, come si dice in inglese, in una bigger picture. Per realizzare una inquadratura in un campo sempre più allargato, come arretrando lo zoom, ci vuole una grande massa di conoscenze, di dati e di date, che Graziosi ha raccolto in decenni di lavoro sull’Europa, la Russia, la guerra fredda. E in questo brillante libro Occidenti e Modernità. Vedere un mondo nuovo, (Il Mulino 2023), troviamo espresso con una chiarezza assoluta il fatto che la congiuntura che ha riunito e integrato in Europa Stati nazionali (quelli che piacciono alla socialdemocrazia che vi ha prosperato pur senza troppo teorizzarli), Stati egualitari (con la loro cultura dei diritti e della democrazia) e società industriale, quella congiuntura che ci appariva come il nostro destino di occidentali, ora e sempre, era invece “solo il tratto di una parabola che aveva già cambiato direzione”. Una relativizzazione scioccante, simile a quella provocata dalla fisica quantistica (Rovelli) quando spiega che il tempo non è che una piccola piega che le cose hanno preso in un certo spicchio periferico dell’universo.

Quali erano i fattori che hanno reso possibile quel breve stato di grazia al culmine di quello che Graziosi chiama il Moderno Maggiore (il Moderno Minore era il socialismo sovietico estinto nell’89)? Il primo (notare la posizione preminente) era il boom demografico legato al calo della mortalità infantile, con conseguente aumento dei giovani e dell’energia diffusa nella società; il secondo, la rapida crescita economica sostenuta dal boom demografico e dalla grande mobilità umana da campagne a città; terzo fattore, un veloce aumento dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione e dell’istruzione; quarto, la crescita pur contrastata dei diritti degli individui, e delle donne; quinto, una vivacissima produzione ideologica come fattore dinamico; sesto, il predominio dell’Europa e dell’Occidente sul resto del mondo, e altro ancora, ma ci fermiamo qui.

Lo smantellamento di quelle condizioni privilegiate e protette che hanno reso possibile la congiuntura dei trenta gloriosi è arrivato ineluttabile da una serie di fatti di segno contrario, prima di tutto (anche qui) dal declino demografico, dal calo del tasso di fertilità, dall’allungamento della speranza di vita, fenomeno bellissimo questo che però produce invecchiamento medio della popolazione; in secondo luogo la fine del trasferimento di masse dalla campagne alle città industriali anche a livello europeo; terzo, la presa di coscienza dei limiti dello sviluppo e dei suoi costi umani e per il pianeta; quarto la decolonizzazione e in prospettiva la fine del dominio occidentale, con mutamento degli equilibri del mercato del lavoro. E a coronamento di questi processi lo spostamento del motore demografico dell’umanità dall’Occidente verso altri continenti.

Non si deve smettere di guardare il cambiamento drammatico della piramide della popolazione europea per età: la parte più grassa del grafico era intorno alla natalità, ora è intorno ai sessant’anni. Tutti i Paesi europei sono sotto il livello della riproduzione, ragion per cui quando si parla della “grande sostituzione” a opera degli immigrati, non stiamo parlando di una congiura ordita da poteri occulti, ma di un destino che l’Europa sembra volersi scegliere spontaneamente, a partire non da politiche di denatalità, ma dalla tendenza naturale che lega il benessere (guadagnato nei trenta gloriosi) al desiderio di non allargare il numero dei famigliari. I figli che in una società rurale compensavano piuttosto rapidamente il sacrificio e l’investimento con il loro lavoro, erano la scelta razionale di un mondo che accettava più facilmente l’idea della umana mortalità. Nelle società urbanizzate e più ricche l’agio trascina la sterilità, l’individualismo aspira all’immortalità e confligge con la fertilità, il desiderio di elevarsi socialmente trasforma la famiglia numerosa in una zavorra.

Che piaccia o no, così sono andate le cose in Europa. E oggi la correzione di questo trend con politiche di forte promozione della natalità, sembrano difficilmente in grado di correggere la tendenza. Per di più la denatalità dell’Occidente è una tendenza di lungo periodo, tanto che già nel 1936 gli Stati Uniti e il Canada erano scesi fino alla soglia del tasso di riproduzione di 2,2 figli per ogni donna fertile, per risalire dopo la guerra al 3,8 e scendere poi al 2,2 già nel 72. Il conclamato baby boom del dopoguerra è stato dunque solo una deviazione temporanea sia in America sia in Europa, mentre la discesa demografica del blocco socialista è stata ed è ancora più drammatica, accentuata dagli aborti che nell’Urss dagli anni Sessanta agli Ottanta erano quasi il doppio delle nascite.

Questi dati comportano vaste conseguenze nel mondo attuale dove si contano 280 milioni di migranti internazionali più 26 milioni di rifugiati e qualche altro milione di richiedenti asilo; significa forte pressione per un cambiamento di popolazioni ex omogenee e ora plurali, pressione che si esercita su società anziane e avverse ai cambiamenti, società che si pensavano stabilizzate con i loro sistemi di welfare, specialmente in Europa, dove il socialismo era diventato la pensione a 60 anni (Mitterrand). Paesi dunque anchilosati e in difficoltà ad accogliere mutamenti repentini dell’economia e anche del costume e pronti a sostenere leader politici che annunciano programmi nostalgici, di ritorno alle antiche sicurezze.

Noi siamo dunque nel pieno della rivoluzione delle aspettative decrescenti, che ha creato un «bacino reazionario» che rifiuta le dure ragioni dei conti, che vengono presentati come il diktat della tecnocrazia, l’imposizione di élites traditrici delle promesse. Costa caro rinunciare alla continua ascesa dei diritti sociali, che sono invece sottoposti inevitabilmente a una verifica contabile. Contraddizioni esplosive che minacciano le basi stesse della democrazia, che non può certo operare sulla natalità con la stessa determinazione con cui fa le manovre finanziarie di aggiustamento dei conti. Solo regimi autoritari, dal fascismo di Mussolini alla Cina di Deng, possono agire sulle scelte individuali della riproduzione con una pressione che è incompatibile con principi di libertà. Tutto questo spinge la riflessione di Graziosi a chiedersi se anche la liberaldemocrazia che pensavamo di celebrare vincente con La fine della storia di Fukuyama oltre trent’anni fa, non sia invece un fiore stagionale, destinato a lasciarci. Come impedirlo? Possibili correzioni radicali al metodo democratico che consentano di “pesare” i voti aumentando il valore di quelli dei genitori con famiglie numerose? Ardui progetti.

Graziosi traccia alcune possibili linee guida da accogliere come l’invito ad abbandonare i toni sprezzanti o paternalistici verso una popolazione ferita dai veloci cambiamenti e dallo sfumare di diritti che sembravano acquisiti, ad abbandonare l’ambizione di realizzare piani vincolanti a favore di ragionamenti aperti sul futuro. Sarà per esempio necessario preparare paesi come l’Italia, la Germania, il Giappone, la Corea del Sud al fatto che nei prossimi vent’anni la popolazione attiva diminuirà del 20 o 30 per cento e potrà essere sostituita solo con l’immigrazione. L’autore fa poi sua l’idea di accantonare l’utopia meritocratica nei fatti e nelle parole lavorando sul fatto che il divario nel livello di istruzione e nei talenti è oggi un innesco esplosivo che accresce la polarizzazione sociale, al punto che le disuguaglianze di csaquesto tipo, come già sostenuto da Michael Sandel, sono oggi un fattore corrosivo più forte delle disuguaglianze economiche, al punto che il più basso titolo di studio è oggi negli Stai Uniti il primo fattore indicativo del voto per i Repubblicani. Il “mondo nuovo” che questo libro cerca di “vedere” si presenta dunque come quello di un Occidente in declino, anche se il futuro rimane aperto e il modello liberaldemocratico europeo e l’Unione Europea stessa continuano a rappresentare, nonostante tutto, un polo di attrazione che potrebbe convincere i nuovi arrivi dal resto del mondo a seguirne le tracce.

 

Titolo: Occidenti e Modernità. Vedere un mondo nuovo

Autore: Andrea Graziosi

Editore: Il Mulino

Pagine: 216

Prezzo: 16 € €

Anno di pubblicazione: 2023



  1. Nonostante tutto… l’Occidente è, ma altrove. Nelle voci di narratrici e narratori indiani e soprattutto africani, che giudicano senza sconti se stessi e gli altri, tentando di praticare nelle loro terre d’origine, più spesso vivendo in due mondi con fatica e allo stesso tempo con agio, un ideale quotidiano di liberaldemocrazia anche per raccontarla a “noi” che abbiamo fissato in fotogrammi statici la memoria del passato mentre abbiamo ancora nostalgia dei nostri errori.
    Nei romanzi da e gli altrove che continuiamo a non vedere -mentre li consumiamo- c’è ancora traccia di ciò che rimane della “nostra” modernità. Le grandi narrazioni non sono morte. I frammenti, disseminati e mescolati in culture che non dovremmo più sentire altre o estranee, ci permettono ancora di vedere scenari di un futuro non disperante: se uscissimo dalle logiche dell’esportazione dei diritti umani e dagli stereotipi delle pari opportunità.
    Perché siamo ancora così ciechi?

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