Il nido della cicogna e altri dilemmi. Dialogo tra Saraceno e Nannicini

Merito, disuguaglianze e lotta alla povertà: le sfide della sinistra

Il volto terreo di Emmanuel Macron di fronte al fiume di giubbotti gialli riversatisi come d’improvviso nelle strade della Francia. Il gelo del premier uscente Paolo Gentiloni verso il suo predecessore incapace di valorizzarne gli sforzi per ricucire il tessuto sociale. Il corteo dei parlamentari a 5 Stelle tra le vie di Roma per celebrare l’”abolizione della povertà” sotto a un balcone d’infelice memoria.

Tre istantanee dall’annus horribilis del centrosinistra italiano, il 2018 che l’ha scaraventato a terra dopo anni di governo; tre bocconi indigesti che al netto della mise en scène politico-mediatica lasciano in bocca lo stesso gusto amaro: quello di una capitolazione storica di fronte alla prima delle proprie missioni, l’ascolto e il sostegno dei dimenticati.

Archiviata quell’annata vissuta nel rimorso più che nell’autocritica, il 2019 delle elezioni europee e del passaggio congressuale “post-renziano” per il Partito Democratico può dare l’orizzonte per un serio ripensamento delle politiche per rispondere senza ironie alle sfide di lungo termine di povertà, disoccupazione e rilancio della crescita? Ad arare il campo e gettare i semi di una narrazione nuova, più “umile” e consapevole, provano in questa conversazione due esperti d’impronta diversa come Chiara Saraceno e Tommaso Nannicini: accademica “pura” la prima, sociologa e specialista di politiche per la famiglia e contro la povertà; economista prestato alla politica il secondo, senatore Pd e braccio destro di Matteo Renzi negli anni di Palazzo Chigi.

Saraceno, Nannicini: la povertà è ben lungi dall’essere stata abolita, ma il reddito di cittadinanza si appresta a entrare in vigore, pur con tutte le incognite del caso, e la sinistra sembra afona di fronte a una novità di tale portata. È la messa a nudo di un deficit d’attenzione storico dei socialdemocratici, così come dei liberali, verso chi resta ai margini dello sviluppo?

CS: Credo che di deficit strutturale di questo tipo si possa parlare se restringiamo la visuale all’Italia. Nei Paesi del Nord a lunga guida socialdemocratica infatti una misura di sostengo al reddito a chi si trova in povertà come diritto esiste almeno dal primo dopoguerra e non e mai stata messa in dubbio dai partiti socialdemocratici, così come in Francia o Germania dove pure questa misura è stata introdotta da governi “di centro”. Direi quindi che la formazione di una vera e propria “alleanza nell’ostilità” a questa misura è stata una peculiarità tutta italiana che ha riunito il grande partito che ha governato l’Italia dal dopoguerra sino alle soglie degli anni ’90, la Democrazia Cristiana, per ragioni proprie di rapporti con la Chiesa e di visione caritatevole, insieme con  la sinistra, in particolare il Pci e a lo stesso sindacato, che non solo pensavano che ci volesse in primis il lavoro, ma vedevano interventi di questo tipo come un rischio rispetto ai livelli dei salari minimi. Quella da sinistra insomma era una preoccupazione di tipo morale, etico – che solo il lavoro può dare dignità – ma anche di tipo concreto – che prevedere un reddito minimo di garanzia potesse indebolire la contrattazione sindacale, in ultima analisi chi lavora. E registro che una fortissima ostilità culturale ad azioni di questo tipo è continuata anche negli ultimi governi di centrosinistra…

TN: Credo che ci siano due tic culturali nel nostro Paese, e indubbiamente nei filoni di pensiero cardine del centrosinistra, che rendono così difficile vedere queste misure inserite in maniera stabile e non sotto-finanziata nei sistemi di welfare. Uno è il tic lavoristico, per cui la priorità redistributiva deve essere aiutare chi lavora. L’altro è quello paternalistico: io Stato dall’alto della mia generosità ti elargisco una misura filantropica, ma questo non è un tuo diritto di cittadinanza, qualcosa che ti meriti per le condizioni di fragilità sociale in cui ti trovi non per tua colpa. E questi due tic non solo hanno frenato il dibattito nei decenni scorsi ma riemergono in molti dei contorni del disegno di questi mesi del reddito di cittadinanza. A ciò si aggiunga il fatto che per tutta una serie di debolezze politiche e sociali abbiamo avuto un’evoluzione del sistema di welfare fortemente fondato sulle pressioni categoriali piuttosto che su una tensione alla copertura universalistica, ed è chiaro che in un sistema del genere il sostegno ai poveri è l’ultimo della lista. Quanto ai governi dell’era Renzi, io rivendico che all’inizio della scorsa legislatura in questo Paese si spendevano 20 milioni in via sperimentale per il contrasto alla povertà e a fine legislatura c’erano 2,7 miliardi strutturali per una misura universale come il reddito di inclusione. Tuttavia riconosco che quell’intervento ha avuto un sotto-investimento di capitale politico: ci si è creduto poco e lo si è fatto tardi. C’è stato un cortocircuito tra chi disegnava quella policy e l’investimento politico del governo. E senza le risorse sufficienti e senza il capitale politico di chi dà quelle risorse, è difficile disegnare uno strumento coerente con quell’impianto universalistico di cui c’è bisogno.

Se non c’è stato e non c’è investimento di capitale politico, però, è evidentemente perché manca a monte un vero focus su questo tema, quasi non si sapesse bene come “trattare” culturalmente il tema della povertà: solidarietà umana, compassione, o rispetto di diritti? Come risolvere questa confusione e colmare questa lacuna?

CS: Intanto va riconosciuto che, a prescindere da ogni giudizio di merito, in maniera opposta e unidimensionale il M5S ha investito su questo tema e su questa misura tutto il proprio capitale politico, sin dall’origine. Quanto ai governi Renzi/Gentiloni non solo è mancato il capitale politico ma in proporzione anche quello finanziario, considerate le risorse ingenti spese per un investimento molto più forte, come quello degli 80 euro, con problemi di equità fortissimi considerato che escludeva in sostanza proprio più i poveri, gli incapienti, anche dentro la stessa categoria dei lavoratori dipendenti. Ed anche in campagna elettorale quel poco che era stato fatto in quel senso non è poi stato assolutamente valorizzato: anziché replicare ai 5 Stelle rivendicando quanto fatto e promettendo di continuare su quella strada aumentando gli investimenti contro la povertà ce ne si è quasi vergognati, e si è proseguito a interloquire invece nel segno dell’accusa – indecorosa oltre che falsa – del «voi volete far stare sul divano i poveri». Non si è costruito un discorso pubblico su questa necessità, ed evidentemente non ci si crede da un punto di vista dell’equità, della democrazia, dei diritti di cittadinanza, considerato il disprezzo tuttora prevalente con cui nel Pd si guarda al reddito di cittadinanza, ai suoi proponenti e ai suoi possibili beneficiari, che trovo del tutto sconvolgente dal punto di vista della costruzione del discorso pubblico.

TN: Non è un caso se ho parlato di sotto-investimento di capitale politico per rimarcare come chi ha disegnato il reddito di inclusione, così come la riforma degli ammortizzatori sociali, aveva una visione che poi è entrata in cortocircuito con chi prendeva le decisioni politiche, e questo ha creato delle distorsioni. Sarò più chiaro: è ovviamente una critica che non ha senso e che non condivido assolutamente dire che una misura di contrasto alla povertà aiuta i “divanisti” o i vacanzieri, anche considerato che la prima proposta di legge presentata dal Pd in questa legislatura – a firma Delrio-Nannicini – è stata quella di raddoppiare il reddito di inclusione. È chiaro dunque che il Pd deve togliersi quest’ambiguità dalla testa altrimenti non si capisce qual è la nostra idea di welfare. Io penso però, nel concreto, che i 6 miliardi aggiuntivi sul reddito di cittadinanza potrebbero essere spesi meglio. Da un lato investiamo 3,5 miliardi sul contrasto alla povertà (per arrivare allo 0,4% del Pil, contando anche le risorse stanziate da Renzi e Gentiloni sul Rei, come negli altri Paesi europei): raddoppiamo, come detto, il Rei portando a compimento il disegno del Reddito d’Inclusione Sociale (Reis) promosso da tempo dall’Alleanza contro la povertà. Una misura non paternalista, di vera attivazione sociale. Dall’altro utilizziamo gli altri 2,5 miliardi per portare a termine la riforma universalistica degli ammortizzatori sociali del Jobs act, in modo da offrire un sussidio di disoccupazione ancora più forte, non sottoposto alla prova dei mezzi, a chiunque subisca shock temporanei nei propri percorsi di formazione o di ricerca di un’occupazione. Questa è l’opposizione che vorrei vedere.

Nell’ultimo anno però gli shock veri per chi quelle misure aveva disegnato sono stati prima la batosta elettorale del 4 marzo, poi il dilagare dei gilet gialli in Francia. In un’epoca in cui povertà e disoccupazione sembrano diventare fenomeni di lunga durata piuttosto che “incidenti di percorso”, la lezione per il centrosinistra deve essere quella di rimettere al centro i bisogni di chi non lavora, oltre a quelli di chi già lavora?

TN: Non c’è dubbio che abbiamo sottovalutato questo tema. Difendo alcune cose che stavano dentro a quel disegno di governo ma riconosco che sono state fatte con una lacuna di visione unitaria che rendesse chiaro per cosa noi ci battevamo. Senza dimenticare che accanto al tema della povertà c’è anche quello delle disuguaglianze – di reddito, di opportunità, di accesso ai servizi – ed è anche dal contrasto di queste che dobbiamo ripartire. Ciò detto, ci sono molte cose che non mi convincono da questo punto di vista nel reddito di cittadinanza disegnato dai 5 Stelle, e la più insopportabile è proprio quest’ottica paternalistica per cui dall’alto della mia generosità io Stato ti aiuto perché sei povero, ma in cambio ti obbligo a fare delle ore di lavoro anche se non stanno dentro a un percorso formativo, ti propongo delle offerte congrue che devi accettare anche se a monte non c’è stato un percorso di attivazione sociale prima che lavorativa, o ti costringo a svolgere determinati consumi di tipo “primario”, come se anche il permetterti di risparmiare e costruirti con quella garanzia un percorso di emancipazione individuale non fosse parte della fuoriuscita dalla trappola della povertà.

CS: Su questi problemi di stigmatizzazione etica non potrei essere più d’accordo, anche se osservo che alcuni di questi difetti – a partire dal concetto della card che sottintende una malcelata voglia di “controllare” chi e come spende le risorse elargite – erano già insiti nel Rei. L’approccio lavoristico di questo reddito di cittadinanza risulta evidente anche dalla semplice osservazione che non ci sono neppure fondi per i Comuni per svolgere le attività di inclusione che non riguardano l’accompagnamento al lavoro, tutto è lasciato alle loro risorse: la spia più chiara della sottovalutazione della dimensione non puramente occupazionale della povertà. Aggiungo però che un’altra occasione che i governi di centrosinistra hanno perso sprecando le risorse in bonus frammentari di vario tipo è stata una riforma organica degli assegni per i figli, quando tutte le ricerche nazionali e internazionali mostrano che molte famiglie di lavoratori poveri con figli uscirebbero dalla loro condizione di povertà se solo ci fosse un sistema di trasferimento per il costo dei figli adeguato.

TN: Non c’è dubbio che la lotta alla povertà vada affrontata con politiche molto più attente alle diverse dimensioni del fenomeno, che è sociale e non soltanto occupazionale, elemento su cui il reddito di cittadinanza è miope. Non dimentichiamo che nella sacca dei 4,7 milioni di cittadini in povertà assoluta ci sono anche 1 milione di individui sotto ai 14 anni per i quali si pone un serio tema di povertà educativa; 500mila che hanno più di 65 anni; e 1,3 milioni di occupati, poveri che lavorano, e che hanno bisogno di work benefits. I famosi navigator per l’attivazione lavorativa insomma possono soddisfare le esigenze immediate sì e no del 25% di questa platea. Ecco perché si denuncia il rischio di confusione tra politiche contro la disoccupazione e la povertà. Al raddoppio del Rei dovremmo quindi accompagnare l’assegno universale per le famiglie con figli: il combinato disposto di queste due azioni è ben più generoso e si fa carico meglio della questione della povertà minorile e dello spezzare il circolo vizioso del trasferimento intergenerazionale delle condizioni di povertà. Quello era il nostro programma elettorale e questo è il nostro programma in questa legislatura. È chiaro però che non bastano i programmi e i disegni di legge: ci vuole una leadership politica e una classe dirigente che non mandi messaggi schizofrenici su quello per cui ci battiamo, e su questo dobbiamo ancora lavorare.

Certo l’obiettivo ideale sarebbe far entrare tutti nel mondo del lavoro, e possibilmente con salari e condizioni migliori, ma è evidente che in un contesto come l’attuale di stagnazione la mobilità sociale pare ridotta ai minimi storici. Da dove ripartire per assicurare nel medio periodo uno sblocco, possibilmente verso l’alto, dell’ascensore sociale?

CS: Se immaginiamo la mobilità sociale come un treno in progressione, dobbiamo osservare che in Italia anche nei decenni in cui questo si muoveva in avanti di stazione in stazione, la distanza tra i vagoni dove si trovano i passeggeri è rimasta sempre la stessa: anche in epoche di grandi trasformazioni della struttura socio-economica e produttiva, è sempre stato molto difficile passare da un vagone all’altro: l’origine sociale ha un peso enorme, e oggi in modo persino più marcato. Da un lato per via del nostro sistema scolastico che discrimina fortissimamente dopo la scuola dell’obbligo – basti pensare agli iscritti ai licei e agli istituti tecnico-professionali, tutti di classi sociali diverse, o ai corsi di laurea in Scienze dell’Educazione, tutti o quasi donne e di origine sociale modesta, al contrario di quanto accade in facoltà come Medicina o Giurisprudenza. Dall’altro nel nostro mercato del lavoro le agenzie del lavoro intermediano qualcosa come l’1% del rapporto domanda-offerta di lavoro: tutto il resto avviene per canali informali, e quindi prevalentemente di capitale sociale privato, quello che io ho e conosco. Così, se conta sempre dove si è nati e là fuori non ci sono molte possibilità, la percezione soprattutto delle famiglie di ceto medio e medio-basso è che ci sia piuttosto mobilità sociale discendente, perché quasi nessuno migliora la propria posizione rispetto a quella dei propri genitori. Per usare una metafora calzante, insomma, bisognerebbe che qualcuno dicesse alla cicogna dove depositarti, perché quella è la cosa più importante nella tua vita. Ecco perché non mi piace il concetto di meritocrazia: per il focus sulla crazia, che implica un discutibile potere dei meritevoli, ma anche per quell’enfasi sul merito come se questo fosse auto-evidente e tutti avessero la stessa possibilità di maturare il proprio. Dobbiamo invece mettere tutti nelle condizioni in primis di sviluppare il merito, e quindi di farlo valere appieno.

TN: Condivido in pieno l’analisi, e come politico vorrei avere la killer application, la singola risposta di policy per rispondere efficacemente al tema della trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza, ma non ce l’ho. Affrontarla organicamente richiede purtroppo tutta una serie di interventi di policy, ma anche di cambiamenti culturali. Questo è un Paese che si è seduto, un Paese in cui è difficile costruire il futuro: abbiamo derubato intere generazioni del diritto a sognare che investendo sulle proprie capacità ce la si possa fare senza l’aiuto della famiglia di riferimento e delle reti di relazioni che si riescono ad ereditare. Ed è per questo che molti vanno all’estero, non solo a fare i ricercatori ma anche mille altri lavori. Noi invece abbiamo organizzazioni pubbliche e private dove l’elemento gerontocratico è ancora molto forte, dove si entra per canali relazionali e si fa carriera in base all’anzianità e non a investimenti sulla voglia di fare. Per cambiare queste cose ci vogliono serie evoluzioni nel settore dell’istruzione, ma anche un cambiamento nei modelli produttivi, organizzativi e sociali più su larga scala. Così come ci vuole, ritornando al tema precedente, una rete di protezione universalistica così che ciascuno sappia che se investi su di te, rischi e ti metti in gioco, se poi non ce la fai c’è una rete che ti protegge e ti dà una seconda chance. Anche a me non piace il termine meritocrazia. Mi piace però il binomio merito-bisogno, a patto che, come insegnava Rawls, il primo sia al servizio del secondo: il dinamismo del merito deve poi avere un elemento che traina chi è in condizioni temporanee di bisogno. Senza questo il binomio si spezza e semplicemente non ha senso.

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