Prima di ritornare negli Stati Uniti dopo un paio di decenni trascorsi in Inghilterra, Bill Bryson nel suo famoso Notizie da un’isoletta scriveva divertito come “vi sono opinioni comuni davvero singolari che …. si impara tranquillamente ad accettare. Una è che …. la Gran Bretagna sia un paese grande”. “Il fatto è che i britannici hanno un concetto della distanza tutto loro”, Bryson continua, “si intuisce dalla convinzione unanime che la Gran Bretagna sia un’isola sperduta nelle acque di un mare verde e sterminato …. i suoi abitanti sono tutti …. consapevoli che nelle vicinanze si estende un’ampia porzione di terra chiamata Europa e che di quando in quando è necessario recarvisi … ma questo non significa che per loro sia meno distante di Disney World”.
A quanto pare questa distanza tra l’isola e il continente sembra essersi allargata ulteriormente. L’impatto politico dello UKIP di Nigel Farage, “Briton of the Year” per il Times, ha infatti agitato le acque della Manica e reso, a volte, impercettibile Calais da Dover, e da ben prima delle scorse europee nelle quali giganteggiava da primo partito, e dalle legislative della settimana passata (non tragga in inganno il singolo seggio conquistato, stiamo comunque parlando di qualche milione di voti). Secondo il Guardian, questi ultimi anni hanno visto risorgere un nazionalismo inglese che potrebbe caratterizzare il governo entrante di David Cameron, a dispetto di quei legami di solidarietà (basati pure sul welfare) tra le regioni del Regno Unito, e in primis una Scozia che sta rispondendo con un nazionalismo di ritorno che ha spazzato via il Labour, la forza politica che tradizionalmente la rappresentava a Westminster. A questo mi sembra aggiungersi il risveglio di quella convinzione, popolare, e rafforzata dalla scelta di Cameron di indire un referedum sull’Europa nel 2017, di un certo eccezionalismo inglese, di quel senso di specificità che percepisce il continente europeo culturalmente lontano quanto Disney negli USA.
L’anti-europeismo strisciante, unito alla retorica anti-immigrazione in un’epoca di restrizione del mercato del lavoro, spinge, infatti, alcuni elettori e politici mainstream, a guardare con simpatia a questi nazionalisti dei tempi moderni e alla loro demagogica propaganda. Promettono una nazione ricoperta d’oro, senza burocrazia europea e nemmeno i fastidiosi immigrati comunitari (glissando invece su quelli provenienti dal Commonwealth). Toccano le corde imperiali di una grande e civile isola, e la sua grandeur perduta che tende però a sopravvalutare la forza dei sudditi della regina. In realtà, in questo dibattito pubblico è tutto un po’ sopravvalutato, dal numero di immigrati, al loro presunto sfruttamento del welfare state, e all’impatto reale sull’economia. Lo stesso, se non peggio, dicasi per l’Europa. Il tutto è condito da proposte dello UKIP che includono, tra l’altro, file speciali agli aeroporti per i cittadini britannici perché è un orgoglio avere tale passaporto, l’uscita dall’UE e dal suo capitalismo (e quello promosso dalla City?), fino al richiamo xenofobo a preferire “i lavoratori britannici” pure se meno qualificati. Il leader conservatore e quello (dimissionario) laburista, Ed Miliband, hanno inseguito appunto Farage su questa strada alzando la voce su immigrati, rinegoziazione dei trattati comunitari, e grandezza nazionale.
Cameron, per esempio, il 28 novembre suggeriva un possibile blocco degli aiuti sociali ai cittadini europei durante i loro primi quattro anni di residenza nel Regno Unito. Con un tono meno radicale, il leader dell’opposizione di centrosinistra confermava come il “Labour controllerà l’immigrazione con regole eque”, aggiungendo come non fosse un “pregiudizio preoccuparsi dell’immigrazione, è comprensibile”. Il sogno per gli euroscettici del partito conservatore che guiderà il governo nei prossimi anni è però uscire dall’UE, limitando la circolazione dei cittadini europei, mantenendo tuttavia un qualche accesso al mercato economico. Proposte di un nazionalismo (di destra) neanche troppo velato. Discorsi questi sull’immigrazione e sull’isolazionismo spesso fuori dal tempo, e che considerano poco il contesto socio-economico globale. Hanno, sotto alcuni punti di vista, la stessa valenza del combattere i mulini a vento. La storia dell’Europa è fatta di migrazioni. Questa retorica, implicitamente accettata dal Labour, seppur con dei distinguo, ha legittimato socialmente, alcune politiche di Cameron, e molti dei suoi (presunti) successi. Il tutto con conseguenze notevoli, come visto in questi giorni, sulla credibilità dei laburisti, incapaci per anni di distinguersi dai conservatori e senza un realistico migliore progetto di società.
Se da un lato la distanza tra Inghilterra (non la Scozia) e l’Unione Europea potrebbe essersi realmente allargata, da un altro la competizione elettorale e gli sviluppi degli ultimi anni somigliano molto a quelli di altri paesi europei. Il dibattito sull’immigrazione mostra l’ambivalenza di questa presunta specificità di alcuni sudditi della regina. Non è, infatti, per niente una novità in una colta e vecchia Europa che, di tanto in tanto, necessita di un nemico sul quale scaricare le proprie debolezze e paure. Lo stesso sistema bipolare “perfetto” mostra poi delle crepe. Non bastava, infatti, la passata coalizione governativa. Oggi la governabilità è esclusivamente garantita da un maggioritario secco che favorisce il festival del voto utile. Nei fatti la società è, come altrove, politicamente molto più frastagliata, includendo un movimento come lo UKIP che è associabile con le ondate di partiti di protesta, nazionalisti, di destra, e anti-UE, che scuotono molte altre capitali europee decretando, al tempo stesso, il fallimento dell’attuale leadership europea e della sua politica monocorde. Una politica che, sebbene i conservatori facciano fatica ad ammetterlo, è, con l’austerity, pienamente attuata in Gran Bretagna, accentuando, secondo gli studi più recenti, le diseguaglianze, favorendo le classi ricche, destabilizzando il lavoro precario, e attaccando, come in molti paesi, un baluardo della cultura sociale europea, ovvero il welfare. Il tutto in nome di un pensiero economico neo-liberal incapace di rilanciare l’Europa, e, come suggerisce continuamente l’economista premio Nobel Paul Krugman dalle pagine del New York Times, non necessario e finanche metodologicamente zoppicante. Gli anni (di governo) a venire saranno pertanto cruciali nel comprendere il ruolo della Gran Bretagna nel contesto geopolitico europeo, e la funzione della stessa Londra, la capitale più dinamica e intellettuale d’Europa, il simbolo cosmopolita del vecchio continente. Starà agli inglesi decidere se continuare con il nazionalismo di un’affascinante isoletta, oppure se promuovere la dimensione innovatrice e multietnica dello spirito british.
Andrea Mammone insegna Storia dell’Europa presso la Royal Holloway, University of London. Il suo Transnational Neofascism in France and Italy è in uscita per Cambridge University Press. Sta scrivendo un libro sull’Europa di oggi e un’altro sulla Calabria. Ha scritto per il New Statesman, International Herald Tribune, The Independent, Foreign Affairs, The Guardian, Reuters, e The New York Times.
VERAMENTE UN OTTIMO ARTICOLO