Dopo Tolosa, il rischio di chiudersi nel ghetto

Il problema da oggi a Tolosa non sarà come riaprire la scuola in cui sono stati uccisi tre bambini stamane. Non sarà nemmeno come parlare ai ragazzi. Non sarà neppure come una città si muoverà, quanto peserà questo episodio all’interno della campagna per le presidenziali. In altre parole quali saranno le risposte politiche che daranno tutti i candidati. Il problema sarà la ridefinizione del rapporto tra una minoranza, quella ebraica, e lo spazio pubblico, cioè di tutti. Mi spiego.

La memoria automatica fa dire che l’episodio di Tolosa va ad arricchire la galleria di una serie di luoghi simbolici del mondo ebraico francese che nel tempo sono stati “visitati” dalla violenza e dall’aggressione. Si potrebbe pensare nell’ordine alla la sinagoga di Rue Copérnique, nel 1978; e poi allo scempio sui corpi dei defunti a Carpentras nel 1988. L’attentato alla scuola di Tolosa tuttavia ha una natura diversa. Una sinagoga e un cimitero, al di là del gesto efferato, richiamano la dimensione del raccoglimento. Si è là o si è portati là, perché si è con i membri della propria comunità.

Chi attacca là, lo fa perchè intende colpire proprio per dimostrare che è padrone della tua vita e anche del tuo corpo, nel caso tu sia morto. Una scuola ha un carattere diverso, riguarda i processi formativi e coinvolge le immagini, il bagaglio culturale, i contenuti che giorno dopo giorno si definiscono e “fanno crescere”. Colpire una scuola non significa dunque colpire solo il presente o la tradizione di una comunità, ma il suo futuro. Non è un problema limitato a quella scuola e non sarà solo a Tolosa, perché ovviamente il mondo non finisce a Tolosa.

Ma la tragedia di Tolosa segnerà una nuova tappa di un processo di accresciuta diffidenza verso ciò che è il mondo esterno, verso ciò che non è ebraico. A Tolosa, di fronte a una scuola, si è infranto un contratto – o forse più realisticamente, ciò che restava di un contratto – fondato sulla fiducia di ricevere tutela, ma anche sulla curiosità di aprirsi al mondo, di conoscerlo, non per diffidarne, ma per saperne di più. Da domani una parte importante della pedagogia, della costruzione della propria personalità culturale passerà per una didattica dell’autodifesa, del controllo degli spazi, dell’allargamento della frattura tra un mondo e il resto del mondo. In breve tra “noi” e “loro”.

Non sarà solo una distanza fisica, ma sarà anche un ritrarsi. Tutelarsi vorrà dire mantenere le distanze. E’ una dimensione che in Francia – ma non solo in Francia – ha una lunga storia. Una storia che in Europa ha almeno un trentennio di vita e che non è solo la conseguenza dei processi immigratori, dei conflitti dovuti alla presenza rilevante di “stranieri”, delle integrazioni non perseguite o delle politiche securitarie.

E’ anche la conseguenza di processi profondi, di disagio che le vecchie società europee hanno iniziato a vivere al momento dell’inizio della crisi del ciclo fordista quando la crisi del petrolio ha fatto riscoprire all’Europa la sua dimensione di debolezza, di fragilità. L’attentato di stamani ha sicuramente motivazioni legate all’attualità, ma ha una lunga storia che non nasce in medio Oriente, ma che è nel malessere profondo dell’Europa da molto tempo.

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