79 anni dopo, l’Italia ignora ancora il (suo) massacro di Domeniko

Il 17 febbraio '43 le nostre truppe cancellarono il villaggio greco, e i suoi abitanti

Dopo oltre un anno di permanenza in Grecia, non avevo ancora mai sentito parlare di Domeniko. Con la sua popolazione di meno di 600 anime, questo villaggio della Tessaglia, circondato dai campi e dalle colline della Grecia centro-orientale, non è esattamente una meta gettonata per i turisti. E nemmeno ha a che vedere con il turismo la ragione per cui ho percorso i quasi 400 chilometri che separano Domeniko dalla capitale Atene.

Nella nuvolosa mattinata del 16 febbraio, la popolazione e le istituzioni locali si sono radunate come fanno ogni anno per commemorare uno dei massacri più sanguinosi commessi dall’esercito italiano durante l’occupazione della Grecia nella Seconda Guerra Mondiale. In rappresaglia a un agguato partigiano con cui i contadini di Domeniko non avevano nulla a che fare, nella notte tra il 16 e il 17 febbraio 1943 le truppe italiane incendiarono il villaggio e fucilarono a sangue freddo oltre 130 civili.

Negli ultimi anni, la comunità locale ha intensificato gli sforzi per ottenere giustizia dallo Stato italiano, ma si è scontrata con il muro di gomma eretto da un Paese, l’Italia, che si ostina a rifiutare di fare i conti con il proprio passato.

Quello di Domeniko non è l’unico atto di violenza ai danni di innocenti perpetrato in Grecia dalle forze italiane di occupazione tra l’inizio del 1943 e l’armistizio dell’8 settembre. In quel periodo, di fronte all’intensificarsi della resistenza partigiana ellenica, i comandi italiani adottarono quella che la storica Lidia Santarelli ha definito una vera e propria «politica del massacro»: dalla rappresaglia si passò al principio di responsabilità collettiva, che non prevedeva distinzione alcuna tra civili e combattenti.

Il campo di concentramento di Larissa, aperto dagli italiani nell’agosto del 1941 e teatro di torture ed epidemie, cominciò nei primi mesi del 1943 a popolarsi anche di contadini, donne e bambini. 200 abitanti del villaggio di Almyros furono internati a Larissa come ostaggi, e il paese raso al suolo dagli incendi. Tra il febbraio e il giugno del ’43, quasi 300 detenuti del campo furono fucilati. Il 12 marzo a Tsaritsani, non lontano da Domeniko, gli italiani fucilarono in piazza più di 40 civili, per lo più anziani, che non avevano fatto in tempo a fuggire sulle montagne, e diedero fuoco a più di metà delle abitazioni, senza risparmiare neanche gli edifici pubblici. Oxinia, Farsala, Neapoli e Domokos sono solo alcuni degli altri villaggi bersaglio di distruzione e violenza ingiustificate, tanto che persino i comandi tedeschi protestarono contro la repressione sistematica portata avanti dalle truppe italiane.

Il 16 febbraio 1943, dopo un attacco partigiano che aveva provocato la morte di 9 soldati italiani in transito proprio nei pressi di Domeniko, la vendetta italiana si abbatté sui contadini inermi del villaggio. Date alle fiamme le abitazioni, i soldati della divisione “Pinerolo” radunarono la popolazione locale e costrinsero gli uomini sopra i 14 anni di età a intraprendere una marcia di 10 chilometri culminata, in località Kafkaki, con una fucilazione di massa. Secondo le versioni più raccapriccianti dei fatti, agli abitanti della vicina Damasi fu poi ordinato di seppellire i cadaveri.

Fu il capo della locale gendarmeria, Nikolaos Babalis, a denunciare per primo la strage, indirizzando un telegramma alla Croce Rossa e alle autorità greche che iniziava così: “Da mercoledì scorso, la cittadina di Domeniko non esiste più”. Questa denuncia costò a Babalis una condanna a morte da parte degli italiani – condanna poi commutata in detenzione e torture.

Nel dopoguerra, il villaggio fu progressivamente ripopolato dalle vedove e dai bambini. Nei paesi della valle circostante, le donne di Domeniko erano riconoscibili perché sempre vestite a lutto. Pochi anni dopo la guerra, i resti delle vittime furono riesumati e portati nella piazza centrale del villaggio, accanto a una targa commemorativa che ne elenca i nomi.

Oggi Domeniko è tornato ad essere un villaggio agricolo. Situato su una collina che domina la valle del fiume Titarisios, il paese è circondato da diecimila ettari di mandorli, la principale fonte di sostentamento per gli abitanti. Ma l’eccidio commesso dagli italiani ha segnato anche nel dopoguerra la vita del villaggio. La povertà – spesso acuita dall’assenza di uomini che lavorassero nei campi – ha spinto le madri a mandare i figli a studiare nelle città, sperando che il futuro riservasse loro una realtà diversa, lontano dagli stenti.

Tra i ragazzi della generazione nata e cresciuta nel dopoguerra c’è Stathis Psomiadis, presidente della locale associazione dei familiari delle vittime. Sua madre, oggi 86enne, ricorda ancora quella sera del 1943 in cui gli italiani la separarono dal padre e lei, bambina, non sapeva che non lo avrebbe mai più rivisto. Psomiadis, professore di matematica al liceo della vicina Elassona, ha iniziato a fine anni ‘90 a lottare per il riconoscimento del crimine di guerra commesso a Domeniko dagli italiani. Nel 1998, la Grecia ha ufficialmente conferito al villaggio lo status di comunità martire.

La memoria della strage è ben radicata nella memoria collettiva ed è scolpita nel marmo, non solo quello del monumento accanto alla chiesa. A Kafkaki, nel luogo fisico del massacro, ci sono una piccola chiesa ortodossa e un memoriale che culmina con una croce di quasi 9 metri, ben visibile dalla strada che attraversa la valle. Ogni anno, nel giorno della commemorazione, i cittadini depongono corone di alloro sulle lapidi. Tra i presenti, tanti portano lo stesso nome di un nonno o di un parente elencato tra i martiri del massacro, e hanno ancora i brividi quando lo sentono pronunciare durante l’appello delle vittime.

Eppure, man mano che ci si allontana da Domeniko e dagli altri epicentri delle violenze e dei massacri, si ha l’impressione che quella memoria collettiva progressivamente si annacqui fino a svanire del tutto, sostituita da una versione alternativa, edulcorata dell’occupazione italiana. È la declinazione ellenica del mito del «bravo italiano», una narrazione che nel dopoguerra le istituzioni italiane, con l’assenso delle potenze internazionali, hanno coltivato con coerenza certosina, e ancora faticano ad abbandonare.

Nel dopoguerra, un’apposita commissione delle Nazioni Uniti elencava 111 potenziali criminali di guerra italiani ricercati dalla Grecia. Nessuno scontò un giorno di prigione. I primi tentativi seri di assicurare ai colpevoli la giustizia sono stati fatti solo nei primi anni 2000, e al procuratore militare di Roma Marco De Paolis non è rimasto che constatare che i principali responsabili della strage, per quanto identificabili, erano tutti morti.[1]

Nel 2009, l’allora ambasciatore ad Atene Gianpaolo Scarante è stato il primo rappresentante dello Stato italiano a decidere di partecipare all’annuale cerimonia di commemorazione a Domeniko, nonostante il Ministero della Difesa abbia cercato in ogni modo di dissuaderlo, come lo stesso Scarante ha raccontato di recente. Dopo la sua visita, Scarante aveva inviato a Psomiadis una lettera di ringraziamento, promettendo che dal 2009 in poi il Ministero degli Esteri italiano avrebbe destinato “una o più borse di studio agli studenti di Domenikon che volessero compiere studi di specializzazione universitaria in Italia”. Quella promessa, però, non si è mai concretizzata.

Quest’anno, per la prima volta dal 2009, Psomiadis ha deciso di non invitare l’ambasciatore italiano alla commemorazione, non solo a causa delle promesse mai mantenute: dopo non essere riuscito ad assicurare alcun colpevole della strage alla giustizia, l’Italia rifiuta anche di elargire un risarcimento pecuniario ai familiari delle vittime. La battaglia legale capitanata da Psomiadis, però, non si ferma: un processo d’appello comincerà a Larissa il prossimo settembre.

In una lettera inviata al procuratore Marco De Paolis nel 2015, Psomiadis osservava amaro che sempre lo stesso è il destino dei poveri e dei semplici: “Per quanta ragione possano avere, non gli viene mai riconosciuta”. Ma dopo una giornata dedicata alle cerimonie di commemorazione, raccolti davanti a un bicchiere di tsipouro nell’unica taverna ancora aperta a tarda sera, gli anziani del paese si lasciano andare a una nota di ottimismo. È grazie alla loro lotta se anche fuori dal ristretto circolo degli storici, lontano dal villaggio e persino lontano dalla Grecia, si inizia finalmente a parlare del massacro di Domeniko.

 

[1] Gli sviluppi giudiziari che la strage di Domeniko ha avuto in Italia sono ben ricostruiti nel libro di Vincenzo Sinapi Domeniko 1943. Quando ad ammazzare erano gli italiani (Mursia, 2021).

 

Foto: La lapide che riporta il nome delle vittime della strage, accanto alla chiesa di Domeniko.

  1. Purtroppo sono le brutture della guerra, quando pensi di essere nel giusto perchè ti hanno ” caricato ” di principi di superiorità , razziale , psicologica , intelligenza . E se ti fermi a ragionare un attimo ( non fucilando la gente che non c’entra niente ) vieni meno al tuo dovere e potresti pagarne le conseguenze. La guerra è una brutta cosa , per il fatto che ci sono in ballo vite umane. Ed in qualche modo è brutta anche la guerra senza armi , quella dei ricatti , quella che si sta profilando adesso con Ucraina e Unione Sovietica, sperando che non comincino le cannonate, ma anche quella del mobbing e se partiamo dalla base anche quella del bullismo. E’ più che giusto commemorare queste vittime e ancora più giusto far si che la vergogna per l’ingiustizia possa essere di monito per noi che la raccontiamo e per quelli che verranno.

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