THE VISIONNAIRE

Francesco Grillo

Francesco è Amministratore Delegato di Vision and Value, società di consulenza direzionale e si occupa soprattutto di valutazione di politiche pubbliche per organizzazioni internazionali. E' direttore del think tank Vision, con cui gestisce diversi progetti dedicati a "le università del futuro", "big society", "la famiglia del futuro" ed in generale all'impatto della rivoluzione delle tecnologie dell'informazione sulla società e sull'economia. In precedenza ha lavorato per la Bank of Tokyo e con McKinsey. Laureato in economia alla LUISS, ha completato un MBA alla Boston University e un PhD presso la London School of Economics con una tesi sull'efficacia della spesa pubblica in ricerca (http://www.visionwebsite.eu/vision/staff_cv.php?cv=1) . E' editorialista de Il Mattino e de Il Messaggero ed è autore di diversi libri sull'impatto di Internet sulla sanità (Il ritorno della rete, Fazi, 2003), sull'automobile (La Macchina che cambiò il Mondo, Fazi, 2005), sui media (Il Sonno della Ragione, Marsilio, 2007).

Una grande coalizione a Londra?

L’unica incertezza inglese che, in questi giorni, è riuscita ad appassionare i media europei è stata quella sul nome della secondogenita di Kate e William; ed è paradossale il silenzio che è stato, invece, riservato alle elezioni politiche generali che si terranno domani nel Regno Unito. Eppure mai il canale della Manica è stato così politicamente stretto.

Èdall’Inghilterra (oltre che dalla Grecia) che possono arrivare glishock che costringerannoil Continentea cambiare strategia e assetti istituzionali. Ma è anche vero che tanto sul ruolo dell’Isola nel mondo (e, persino, sulla sua integrità territoriale) peseràil dibattito sulla possibilità stessa che l’Europa ha di riformare se stessa. E’ un cammino stretto tra due precipizi – la separazione del Regno dall’Unione Europea e quello della Scozia dal Regno – quello che il Paese più dinamico d’Europa e il suo unico leader possibile devono percorrere per arrivare al futuro. Ma è vero anche che – nonostante le minimizzazioni dei francesi – un’Europa senza gli inglesi rischia di assomigliare, sempre di più, ad un’isola in declino e senza idee. Per tutti, l’unica maniera per sopravvivere è cambiare bene ed in fretta.

Il risultato delle elezioni politiche è, in effetti, così incerto, che l’unica certezza è che aumenterà ancora l’instabilità emersa cinque anni fa quando fu necessario, per la prima volta dopo settanta anni di governi monocolore, formare una coalizione. Ed incertissimi sono gli effetti domino che queste elezioni potrebbero innescare.

Al momento, le ultime proiezioni elaborate dai ricercatori della London School of Economics, fanno prevedere non solo un Parlamento “appeso” ad una mediazione, ma una difficoltà a trovare persino una qualche coalizione, a meno che qualcunodei principali protagonisti non decidesse di tradire le parole spese nella campagna elettorale. Tradimento che equivarrebbe ad un suicidio politico in una società come quella britannica.

Ad avere il maggior numero di voti e di seggi sarebbero ancora i Tories, ma la coalizione con i Liberali perderebbe più di 50 seggi e rischierebbe – anche aggiungendo alla maggioranza gli unionisti irlandesi – di non raggiungere i 326 voti necessari ad approvare il discorso con il quale la Regina conferisce il mandato. La parabola di Cameron – “leader fortunato in tempi sfortunati” come dice l’Economist – non sorprende, in realtà: è vero che il Regno Unito già da due anni ha recuperato – in termini di Prodotto Interno Lordo – i livelli precedenti a quella crisi che ha avuto proprio l’Inghilterra come uno dei due epicentri (mentre il PIL dell’area euro è ancora sotto i valori del 2008) e che il tasso di occupazione è superiore al 75% (mentre in un Paese come l’Italia siamo sotto al 60); tuttavia è vero anche che ilreddito mediano di una famiglia inglese è inferiore a quello che l’Ufficio Nazionale delle Statisticheregistrava dieci anni fa e che la Gran Bretagna ha, secondo Eurostat, un numero di persone a rischio di povertà (16 milioni) che è secondo solo a quello che si conta per l’Italia.Come per gli Stati Uniti, anche nell’Inghilterra di Cameron la crisi è finita ma la classe media non se n’è accorta e ciò ha eroso il consenso del governo.

In effetti, una maggioranza aritmeticamente possibile sarebbe quella tra i laburisti- che guadagnerebbero seggi tra i tanti inglesi rimasti poveri nonostante la ripresa economica – e il partito nazionale scozzese che spazzerebbe via gli stessi laburisti dalle roccaforti del Nord e sarà il vero vincitore delle elezioni: tuttavia, il segretario dei laburisti Ed Millibandha già escluso la possibilità di questa coalizione a meno che la vulcanica leader del partito scozzese, Nicola Sturgeon, escluda, a sua volta, la possibilità di un nuovo referendum su un’indipendenza che è scritta nel nome stesso del suo partito.

La realtà è che il sistema politico inglese – ammirato dagli italiani perché quello che più di tutti ha avvicinato l’idea di “avere un vincitore chiaro la sera delle elezioni” – assomiglia, sempre di più, a quelli europei: i partiti non sono più due e mezzo (quello mezzo era il liberale democratico), ma almeno sei (se si aggiunge a quelli citati anche l’UKIP).

Se Cameron riuscisse a essere di nuovo Premier, da gentiluomo inglese non potrebbe non mantenere la sua parola sull’impegno di tenere nel 2017 un referendum sulla permanenza del Regno nell’Unione Europea. Al momento, ci sono poche ragioni oggettive per cedere all’antica tentazione di “isolare il Continente dall’Isola”, visto che Londra non aderisce a nessuno dei due matrimoni tra Stati – l’Unione monetaria e quella delle frontiere – che stanno creando più problemi di convivenza. Tuttavia, proprio questa posizione degli inglesi li rendemeno influenti sulle questioni europee e tra i britannici cresce l’irritazione verso i propri vicini così pasticcioni, incapaci di risolvere i problemi, paralizzati dai veti. Se anche la maggioranza dei partiti non mette in discussione l’appartenenza all’Unione europea, la maggioranza dei cittadini inglesi oggi voterebbe per l’uscita. Certo la situazione cambierebbe se, entro la data del referendum, il Premier inglese dimostrassedi aver convinto gli altri Paesi a modificare, ad esempio, il trattato. Se Cameron non riuscisse, tuttavia, a superare il diffuso scetticismo che gli inglesi hanno nei confronti di un’istituzione che non capiscono, si innescherebbe una reazione a catena in grado di sconvolgere tutto: gli scozzesi chiederebbero, immediatamente, un nuovo referendum nel quale la richiesta di separazione sarebbe rafforzata da quella di ritorno all’Unione Europea che il resto del Regno avrebbe lasciato; Londra si ritroverebbe fuori dal mercato comune europeo e capitale di uno Stato decisamente più piccolo, privato delle piattaforme petrolifere del Mar del Nord e, soprattutto, delle basi dove stazionano i sommergibili nucleari; l’Europa perderebbe non solo la propria economia più dinamica, ma la più importante piazza finanziaria del mondo e l’unico Paese europeo che ha, ad esempio, due delle dieci migliori università del mondo; le scosse telluriche sarebbero avvertite anche in Italia, con Matteo Renzi indebolito dalla perdita di un alleato nel confronto con la Germania e l’altro Mattero (Salvini) legittimato dalla doppia secessione.

In caso di un esito molto “appeso” a Cameron converrebbe, forse, provare a sorprendere tutti provando a trovare un accordo proprio con i laburisti: anche perché lo stesso dissolvimento del Parlamento e l’indizione di nuove elezioni richiede una maggioranza di due terzi e l’accordo tra i due partiti. È una possibilità “tedesca” che pochi, finora, hanno considerato, E, tuttavia, si tratterebbe, in fondo, di impegnare tutti in una battaglia per la sopravvivenza di un sistema politico e gli inglesi, nei momenti di più grave difficoltà, sono abituati a stringersi attorno ai propri simboli.

In qualsiasi caso, gli scettici e pragmatici sudditi di sua Maestà sembrano incamminati verso un territorio sconosciuto. Se fino a qualche anno fa, i giornalisti inglesi sembravano affascinati dalla politica italiana perché non riuscivano a capirla, tra qualche settimana troveranno motivi per esercitare un divertito sarcasmo anche in patria. Tuttavia, quando le previsioni sono così incerte, a fare la differenza sarà la capacità di leadership di chi proverà a governare tempi così instabili e la maturità del popolo che ha inventato la democrazia e che, nei secoli, ha dimostrato di essere sempre pronto a pagarne il prezzo, convinto che sia la modalità “meno peggiore” – come diceva sornionamente Winston Churchill – che una società ha a disposizione per governare se stessa.

Articolo pubblicato su Il Messaggero e Il Gazzettino del 6 Maggio

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