Nico Orengo, degnissimo successore di Giorgio Calcagno alla direzione di Tuttolibri de La Stampa, e raffinato scrittore, occupava al secondo piano del quotidiano torinese una piccola (e piuttosto buia) stanza subito a destra delle scale. Per vederlo seduto occorreva alzarsi sui piedi perché i libri lo sommergevano da ogni lato. “Troppi libri, altro che Tuttolibri” gli dissi e lui mi rispose: “Sempre pochi per potere salvare Tuttolibri. Servono per fare vedere a chi passa che c’è molto di cui occuparsi”. Chi è venuto dopo di lui si chiama Bruno Ventavoli e qualche giorno fa ha scritto un articolo intitolato “Cari editori, stampate meno libri” e lo ha corredato di una foto nella quale è sprofondato tra tanti volumi, meno però di quelli che facevano compagnia a Orengo. Il suo appello nasce dalla considerazione che le pagine culturali dei giornali non riescono a recensire – ovviamente – tutti i titoli, per cui è inutile che gli editori ne stampino oltre misura, visto peraltro che il mercato è in regressione. Al fondo Ventavoli lascia immaginare lo sfogo di chi non ne può più di essere bersaglio degli uffici stampa degli editori che gli chiedono ogni giorno spazio.
Mentre questo atteggiamento nei confronti dei libri spiega perché lo storico supplemento letterario è diventato un inserto sul tempo libero, avverandosi così la nera profezia di Orengo che ne presagiva la fine, è naturale chiedersi perché mai un operatore culturale dovrebbe sentirsi come un imprenditore che abbia troppi fornitori o un missionario che recrimini quante più siano le nuove chiese. Un discorso come quello di Ventavoli avrebbe potuto essere fatto da un libraio privo di spazi o da un piccolo editore senza sbocchi, ma non da chi dovrebbe augurarsi una produzione editoriale che aumentando gli permetterebbe di raggiungere nuovi lettori del giornale. Ventavoli evidentemente crede che la superproduzione di libri agisca come l’oro che più ne circola e meno vale e perciò fa come se, in presenza di un numero crescente di persone che non si curino e non comprino medicine, le case farmaceutiche riducessero la produzione di farmaci anziché sostenere una campagna di sensibilizzazione e di pubblicità al loro uso e all’obbligo sociale alla salute. A Ventavoli sfugge che I libri sono invece oro che incrementa il proprio valore più se ne trova e sono anche medicine il cui effetto è di indurre rassicurazione più siano reperibili.
Il responsabile di un giornale che in teoria si occupa di libri dovrebbe, dal momento che i libri sono il foraggio del giornale, lanciare appelli alla lettura anziché alla loro riduzione e intanto fare due considerazioni. La prima: se in Italia escono 70 mila titoli l’anno, ciò significa che siamo un Paese culturalmente avanzato al pari di altri dove nessuno si sognerebbe di lamentarsi dell’eccessiva attività editoriale e dove quello che Ventavoli definisce “problema generale, intellettuale, sociale, industriale, razionale” viene individuato nella disaffezione alla lettura e non certo nella sua maggiore offerta; la seconda: se l’iperproduzione libraria è davvero uno spreco di carta e motivo di penalizzazione dei libri la cui vita in libreria diminuirebbe oltremodo, perché ben altri sprechi di più vaste dimensioni, come innanzitutto il cibo e l’abbigliamento, ma anche le risorse naturali qual è l’acqua, non vengono scoraggiati e il loro uso sottoposto a un piano di contingentamento?
Se c’è un bene il cui esubero non può in realtà che essere salutare, questo è il libro: non solo per il futuro delle pagine letterarie e per i loro responsabili, ma anche per i lettori che oggi non ci sono. Molto meglio per un inappetente tenere il frigorifero fornito di numerosi alimenti che stimolino la fame anziché lasciarlo semivuoto. Quella che Ventavoli chiama bulimia verrebbe infatti meno se i lettori anoressici riprendessero a leggere. Quanto al suo problema di vivere sommerso dai libri (peraltro tutti gratis) e di come selezionare quelli degni di essere recensiti, dovrebbe imparare da Seneca che suggeriva di tenere i libri che si possono leggere non potendo leggere quelli si possono avere. In altre parole, se non arriva a occuparsi di tutti, tratti quelli che può, secondo il suo gusto. Da sempre è stata dopotutto questa la regola di ogni testata letteraria e peraltro di ogni lettore. Chiedere agli editori di stampare di meno (con quale criterio non viene detto) è come essere invitati a un banchetto luculliano e protestare per le troppe portate. Basta decidere cosa mangiare.
Personalmente, avendo per parecchi anni diretto una testata letteraria che si chiamava Stilos ed essendo vissuto nelle condizioni di Ventavoli di ricevere decine e decine di libri al giorno, nonché sollecitazioni continue di uffici stampa, autori ed editori, trovavo – pensandola come Orengo – che il profluvio fosse un riconoscimento del mio lavoro e che avrei dovuto preoccuparmi il giorno in cui i libri e le telefonate si fossero ridotti. L’attaccamento al proprio giornale si dimostra anche ringraziando gli editori di esistere e di peccare in superproduzione. Parlando per il bene del libro, Ventavoli parla in realtà del suo personale benessere. Senonché, avendo scritto una bella Storia della letteratura ungherese in due volumi, potrebbe valutare l’idea di trovare posto in qualche giornale di Budapest. Lì sicuramente non avrebbe problemi a decidere quali libri recensire.
IL SOTTOSCRITTO