L'ASINO DI BURIDANO

Massimo Parodi

Professore di Storia della filosofia medievale all'Università Statale di Milano.

Natale

Ma non era meglio il Natale degli anni Cinquanta, quando tutti sentivano il desiderio di serenità e di rinascita, di far gioire i bambini, di usare la tradizione del regalo per affermare la propria possibilità di pensare, almeno per una volta, al superfluo? No, non era meglio, perché c’era voluta una guerra mondiale per provare quei sentimenti.
Ma non era meglio il Natale degli anni Sessanta, quando finalmente esisteva la possibilità di approfittare dell’occasione festiva per accrescere il proprio benessere, le proprie disponibilità, il numero dei propri elettrodomestici? No, non era meglio, perché era stato necessario essere poveri, andare a lavare alla roggia o spaccarsi la schiena chinandosi sulla vasca da bagno.
Forse era meglio il Natale degli anni Settanta, quando più forte era il bisogno e il senso di una pausa nella fatica della vita quotidiana, nello sforzo di uno sviluppo che cominciava a perdere un’idea precisa della direzione da seguire? No, non era meglio, perché erano stati necessari la strage di piazza Fontana, la nascita del terrorismo, l’assassinio di Aldo Moro.
E allora che dire del Natale degli anni Ottanta, quando cresceva l’illuminazione per le strade, nelle vetrine tra biancheria rossa e proposte di inutili doni scintillanti, quando la folla percorreva incontrollabile le vie eleganti della città? No, non era meglio, perché era stato necessario perdere la speranza di uno sviluppo razionale e si stavano gettando i semi che, nel fertile terreno della Milano da bere, avrebbero prodotto la crisi degli anni successivi.
E infatti negli anni Novanta ci si comincia a sentire in colpa per l’eccesso di consumismo, per la perdita del significato religioso della festa, per gli eccessi che sembrano obbligatori senza più avere alcun fondamento in qualche conquista sociale o economica. E dunque il Natale di quegli anni non era meglio, perché era finito il senso di rivincita sul passato e ci si cominciava a interrogare più seriamente sul futuro.
Ma negli anni del nuovo millennio il futuro si è fatto un po’ cupo e talvolta spaventoso, abbiamo cominciato a lamentarci della perdita delle tradizioni, del venire meno dell’amore per la nostra storia che ci portò persino a negare le radici giudaiche e cristiane dell’Europa. Si è arrivati fino al punto di mettere in discussione presepio e albero di Natale in nome del pluralismo culturale e religioso. Ci si trova costretti a pensare al domani invece che limitarsi a essere felici che non sia più ieri, e guardare al futuro è sempre più difficile che uscire dal passato, cosa di cui comunque non si può fare a meno.
Forse sono finiti quei pochi decenni di ricreazione che, al prezzo di orribili carneficine, ci facevano sentire meglio nel nostro oggi, si torna alla fatica quotidiana di costruire un futuro accettabile, in cui si possa comprare un regalo nel mercatino berlinese senza essere travolti dal camion di chi pensa a un futuro del tutto diverso. Forse siamo tornati alla realtà e, se servono anche i sogni, non siamo sicuri che esistano sogni collettivi buoni per il nostro presente.
Ci sono buone ragioni per credere che sia meglio il Natale di oggi, che sia più vero, più problematico e quindi più reale.
O forse aveva semplicemente ragione la scrittrice americana Erma Bombeck quando scriveva che “Non c’è niente di più triste che svegliarsi la mattina di Natale e scoprire di non essere un bambino”. Come individui e come società ci rendiamo conto di non essere più bambini e quindi buon Natale.

  1. Ateo inossidabile e maestro elementare di indiscutibile laicità, faccio fare il presepe a scuola. Non solo perché mi piaceva farlo da bambino, ma anche perché penso che le prime nozioni di educazione civica per i nostrani, e di interculturalità per gli allogeni stiano nel essere informati sul perché domani si fa vacanza.
    Così, in prossimità del 25 aprile, do una rudimentale informazione sulla Resistenza e faccio cantare Bella Ciao. So che qualche genitore dei miei alunni è fascista, ma per ora il 25 aprile è festivo e il 28 ottobre no. Tra le pareti domestiche – esercitando il suo diritto e il suo ruolo – la famiglia provvederà a spiegare al figlio la diversità della propria fede.
    Analogamente mi comporto per il Natale, fatto storico di importanza tale da essere punto di partenza della datazione universalmente accettata.
    Il presepe, cioè la ricostruzione plastica dell’evento è un espediente didattico efficace, già in uso prima di Bruno Vespa.

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