A qualcuno piace freddo. Anzi, a molti. Cinquantacinque anni dopo la scomparsa di Marilyn Monroe, in circostanze mai chiarite a soli 36 anni il 5 agosto 1962, il caso non è chiuso. Altro che Michael Jackson, il cui Thriller restaurato e in 3D sarà alla Mostra di Venezia! Vola la leggenda di Norma Jean Mortenson (poi Baker), il nome anagrafico di Marilyn, si trasmette di generazione in generazione, contagia i social network che pure tendono a dissacrare chicchessia. La sua traiettoria continua oltre il cursum perficio che fa da sottotitolo a un bel libro pubblicato da due tossicologi e una criminologa forense dell’Università di Firenze, Francesco Mari, Elisabetta Bertol e Barbara Gualco (L’enigma della morte di Marilyn Monroe, Le Lettere ed., 2012). La frase latina, citazione di una lettera di san Paolo che significa «sto concludendo la mia corsa», evoca quanto era iscritto su una mattonella della villa in stile ispanico di Brentwood, Los Angeles, in cui la Monroe morì. Un segno premonitore dell’«intossicazione da barbiturici dovuta a overdose per ingestione» iscritta nel referto dopo l’autopsia. Ma i tre studiosi fiorentini non concordano e concludono la loro disamina rilanciando l’inquietante ipotesi di sempre, suffragata da inediti riscontri scientifici: «Si è trattato di avvelenamento acuto letale da Pentobarbital. La modalità di somministrazione del tossico non è avvenuta per via orale. Non si è trattato di atto suicidario. L’omicidio è stato perpetrato a opera di ignoti, legati vuoi alla polizia, vuoi alla criminalità organizzata, vuoi ai servizi segreti preoccupati per la sicurezza nazionale, che in nome di questa possono agire anche di propria iniziativa, senza dover rendere conto nemmeno alle più alte autorità dello Stato». Forse tenendo all’oscuro – aggiungeremmo per sentimentalismo – lo stesso presidente John Fitzgerald Kennedy, indicato da più fonti come uno dei suoi amanti (si vociferò anche del fratello Bob Kennedy). Per JFK una svampitissima Marilyn due mesi prima, il 29 maggio 1962, s’era prestata a canticchiare il proverbiale Happy Birthday, Mr President al Madison Square Garden di New York. Né JFK sarà più fortunato della «sua» dea bionda, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963.
A proposito di bionde, un sondaggio di pochi giorni fa commissionato a Euromedia Research da un mensile, vinto dalla mora Monica Bellucci, incorona come la più bella e attraente delle bionde giusto Marilyn Monroe, che prevale su tante bellezze di oggi, per esempio Charlize Theron o Michelle Hunziker (seconda e terza in classifica). Intanto, a oltre mezzo secolo di distanza, non si fermano i ritrovamenti e le pubblicazioni di immagini e testimonianze “inedite”: quasi un ossimoro nel caso di Marilyn, che resta l’icona per definizione del dopoguerra americano. Sebbene nulla sia all’altezza dell’archivio del fotografo Milton Hawthorne Greene, battuto all’asta quattro anni fa per 1,8 milioni di dollari: decine di migliaia di immagini, tra cui 3.700 scatti di Marilyn, per non parlare della raccolta di diapositive colorate di Marilyn con Laurence Olivier tratte dal film Il principe e la ballerina. Anche post mortem la storia continua: Marilyn comprata e venduta, passata di mano, replicata all’infinito a costo di perderne l’essenza, sublimata e condannata all’eguale da qui all’eternità.
Altri rarefatti clic quasi sempre in bianco e nero della donna che amava troppo sono esposti in gallerie in giro per il mondo, lasciando affiorare alla ribalta rughe e ombre, tormento e silenzio sul volto più luminoso di Hollywood. Un carattere che fotografi come la sua amica Eve Arnold, scomparsa quasi centenaria nel 2012, ma anche altri grandi autori tra cui Henri Cartier-Bresson, quasi presagiscono e svelano durante le riprese dell’ultimo film che Marilyn riuscirà a portare a termine, Gli spostati di John Huston. Il metaforico «vilipendio di cadavere» della Monroe e l’ossessione collettiva per le caselle dell’oca più bella del secolo cominciano subito, corrispondendo alla trionfante «iconomania» del Novecento, nel suo caso anticipata dai multipli pop che il geniale Andy Warhol le aveva dedicato. Era stato il filosofo tedesco Gunther Anders – sodale giovanile di Brecht ed esule antinazista in America dove lavorò anche in un magazzino di costumi a Hollywood – a cogliere nel secondo dopoguerra il sentimento di antiquatezza dell’uomo, la sua «vergogna prometeica» di non essere una merce immortale come le altre. La mania delle immagini reiterate su scala industriale, secondo Anders, consente all’uomo – altrimenti escluso dalla produzione seriale – di acquisire «un’esistenza multipla», di moltiplicarsi in migliaia di copie, finalmente merce tra le merci, con la possibilità di accedere all’illusoria eternità dell’effigie. E il divismo ne costituisce l’esito coerente: è l’ammirazione per le stelle del cinema che «irrompono nella sfera dei prodotti in serie, da noi riconosciuta ontologicamente superiore».
Osservazioni perfette per descrivere la parabola della bambola gonfiabile e puntualmente sgonfiata, andata in sposa per la prima volta – sedicenne – all’operaio Jimmy Dougherty, poi moglie del campione di baseball Joe Di Maggio, e, ancora, convolata a ingiuste nozze con l’intellettuale Arthur Miller. Tre dei tanti naufragi. Scrisse il poeta beat Ed Sanders nei versi di For Marilyn Monroe, August 5, 1962: «Chi è l’uomo che non hai mai avuto/ no mai avuto mai avuto/ in nessun giocatore di baseball sorridente/ o commediografo senza uccello/ e i tuoi seni! i tuoi seni! i tuoi seni guardano dall’Occhio della Pace/ bianchi nella loro essenza e i capezzoli sono stelle!».
Il mito Marilyn, che non a caso «vanta» migliaia di sosia, va a conferma, ma anche a dispetto del suo talento, della verve, del fascino, dell’aura di attrice «congelata» in alcuni fotogrammi. Fra tutti, lei con la gonna sollevata dall’aria di una grata in Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder (1955), lo stesso regista che ne fece una sensualissima interprete comica in A qualcuno piace caldo al fianco della irresistibile coppia en travesti Lemmon-Curtis (1959). «Mi è capitato spesso di finire su un calendario. Ma mai per una data precisa» recita una delle freddure di Marilyn, che ci aveva visto giusto: il suo tempo non finisce mai. È la condanna degli zombie, il perenne presente in un mondo che non ricorda o non sa cosa siano il peccato e il candore, binomio indissolubile. Un mondo che in fondo non sa poi granché di Marilyn Monroe.
Ha vissuto. E’ diventata una dea, dunque immortale, nonostante sia stata uccisa, da sempre ne sono sicura, allo stesso modo, 35 anni più tardi, di Diana Spencer, tutt’altra esistenza ma stesso risultato finale. Del resto, ambedue hanno vissuto solo per 36 anni, e se muori giovane, sarai giovane per sempre, diventerai un mito eterno. E la storia è tutta qua, non ne sapremo mai di più, perché certi segreti non verranno mai resi noti. Cursum perficio.