STORIE USATE

Siegmund Ginzberg

L’assalto al Parlamento secondo Shakespeare

“Via! Bruciate tutti i registri del Regno. Il Parlamento d’Inghilterra sarà la mia bocca”, dice il capitano dei ribelli, Jack Cade, nel guidare l’assalto ai centri del potere a Londra. Ribelli che ritengono di rappresentare “il popolo”. Contro i politici “corrotti” e “traditori”. A riferirlo è un cronista d’eccezione, il nostro inviato dalla scena della rivolta, William Shakespeare. I rivoltosi sono già entrati in città, si apprestano a invadere la munitissima Torre di Londra, con la stessa facilità con cui i loro emuli di mezzo millennio dopo invaderanno il Campidoglio di Washington e i palazzi del potere a Brasilia. Hanno sopraffatto le guardie, che non sono più in grado di opporre resistenza, stanno saccheggiando gli edifici pubblici, stanno dando la caccia all’odiato re e ai suoi ministri, ai membri del suo Parlamento e ai suoi giudici.

È innanzitutto una rivolta fiscale. Su questo non ci piove. Il primo ordine è chiaro e perentorio: “Bruciate i registri delle tasse!”. Il nemico numero uno è l’apparato amministrativo, con le sue appendici burocratiche e giudiziarie, quelle che servono a raccogliere le tasse. Non avevano ancora inventato la rottamazione delle cartelle. Né la flat tax. L’obiettivo non è più solo diminuire le tasse: è cancellarle, eliminando ogni traccia. Shakespeare non è un contemporaneo della rivolta che sta raccontando. L’atto IV scena VII dell’Enrico VI, Parte Seconda, parla di una ribellione avvenuta nel 1450, un secolo e mezzo prima di quando saranno scritte e rappresentate le sue tragedie storiche (la prima rappresentazione dell’Enrico VI è del 1590). È fiction prima che cronaca. Shakespeare è un cronista che sa lavorare di fantasia. Sa raccontare in modo meraviglioso. Sa dire cose molto più vere, molto più profonde del vero. È un grandissimo giornalista, come forse non ce ne sono più. Ma è anche un cronista scrupoloso, che si è documentato sulle fonti disponibili.

Foto di Wikimedia Commons, ritratto attribuito a John Taylor

Le cinquecentesche Cronache di Holinshed elencano come obiettivi principali dei rivoltosi del Kent “la punizione e la correzione delle malefatte dei cattivi consiglieri [del re e della regina], che non venga più chiesta la quindicesima [una tassa sulla proprietà, cioè una patrimoniale], e che non si parli mai più di altre imposte o tasse”.  I rivoltosi non sono pezzenti, poveracci, vagabondi. Semmai sono l’equivalente cinquecentesco del popolo della partite Iva. Gli altri protagonisti della scena IV,7 dell’Enrico VI, Parte Seconda sono un macellaio, un tessitore, e un altro ribelle dalla professione non identificata. Jack Cade stesso è un cardatore di lana, un professionista specializzato, e possiamo presumere ben pagato, non un disoccupato o un mendicante. È gente che indossa il grembiule di cuoio degli artigiani, non sono straccioni. È gente tartassata dalle tasse, non poveri a cui nessun governo, nemmeno il più rapace, potrebbe spremere imposte.

L’altro famosissimo grido di battaglia dei rivoltosi, “Let’s kill all the lawyers!”, ammazziamo tutti gli avvocati! – o un po’ meno anacronistico: “ammazziamo tutti gli uomini di legge!” – ha anch’esso a che fare con le tasse, con l’avversione alle cartelle esattoriali, ai contratti capestro, ai codicilli incomprensibili, alle trappole della burocrazia e ai procedimenti giudiziari. Non ce l’avevano con la scrittura e i libri (le loro rivendicazioni le presentavano al Parlamento e al re per iscritto). Ce l’avevano con notai, giudici e avvocati, accusati di impiccare i poveracci, che magari non sanno né leggere né scrivere, a leggi e regolamenti incomprensibili ai più.

“Non è forse una vergogna che la pelle di un agnello innocente diventi pergamena? E che quella pergamena, una volta scribacchiata, mandi in malora un uomo?”, sbotta Jack Cade. I rivoltosi hanno catturato e gli portano dinnanzi uno scrivano, uno che “sa leggere e scrivere e contare”. “Orrore!” è la reazione di Cade. “L’abbiamo beccato mentre scriveva cose da far ricopiare ai ragazzi”. Insomma faceva anche il maestro di scuola. “Una vera canaglia”, il commento di Cade. E meno male che insegnava ai ragazzi, non alle ragazze. I talebani hanno inventato meno di quel che si crede. Altra accusa a carico del povero maestro e scrivano: “Ha in tasca un libro scritto in lettere rosse” – con capoversi in rosso, probabilmente una Bibbia o un breviario – “No! Allora è uno stregone!”. Interviene il macellaio: “No, non è uno stregone, sa scrivere e usare la grafia legale”. Cade lo interroga: “Scrivi il tuo nome? O fai un segno [magari una croce], come ogni uomo onesto che si rispetti?”. E quello: “Ringrazio Dio di essere stato educato tanto bene da poter scrivere il mio nome”. Si è condannato da solo. “Ha confessato! Facciamolo fuori! È un furfante e un traditore!” vociferano i rivoltosi. “Impiccatelo, con la penna e il calamaio appesi al collo”, la sentenza senza appello.

Altra colpa immonda, da pena capitale, è la conoscenza delle “lingue straniere”. A cominciare dal latino. I rivoltosi cercano e catturano Lord Saye. Viene presentato come “un pezzo grosso”, quello che “ha venduto le città [di cui gli inglesi si erano impossessati] in Francia”. Peggio, “quello che ci ha fatto pagare ventun quindicesimi e uno scellino a sterlina con le ultime tasse”. “Bene, per questo gli taglieremo dieci volte la testa”, la sentenza di Cade.

Ecco l’elenco delle sue malefatte. In primo luogo, ancora una volta, l’aver trafficato con libri e lettere. “Hai proditoriamente corrotto la gioventù del regno facendo costruire una scuola di grammatica, e mentre prima i nostri antenati non avevano altro libro che la tacca e la taglia [strumenti pratici di misura], hai introdotto l’uso della stampa, e [addirittura] costruito una cartiera. Verrà dimostrato a tuo danno che ti circondi di uomini avvezzi a parlare di sostantivo e verbo e simili parole obbrobriose, intollerabili a un orecchio cristiano. Hai incaricato giudici di interrogare i poveri facendo domande a cui non sanno rispondere. Per di più li hai messi in prigione e siccome non sapevano leggere li hai fatti impiccare…”.

La colpa più grave di tutte è che conosce le lingue. Il macellaio gli chiede che ne pensa del Kent, la provincia in cui è nata la rivolta. Quello risponde in latino: “Bonum terrum, mala gens”, buona terra, malagente. “Parla francese” osserva il macellaio. Ma no, parla olandese, interviene un altro rivoltoso. “Ma no, questo è au-taliano (outalian), lo conosco abbastanza bene”, interviene un altro. Francia e Olanda sono i nemici dell’Inghilterra. L’Italia è terra della quale non conoscono nemmeno il nome. Shakespeare non resiste alla battuta.

Ma lui conosceva bene l’Italia, la sua storia e la sua cultura. Non è una terra cupa e triste come la Danimarca di Amleto. È una terra bellissima e meravigliosa, dove però si dipanano tutti i conflitti e odi politici, tutti gli intrighi, tutte le lotte e faide di fazione. L’Italia è rovinata dagli scontri di partito, dalle vendette incrociate, dalle famiglie che si odiano l’un l’altra a morte, come nella Verona dei Montecchi e Capuleti. Ha i difetti di rissosa faziosità già deprecati da Dante nelle sue invettive. Ma l’Italia per Shakespeare è una metafora per parlare della sua Inghilterra. Gli spettatori delle sue tragedie ritrovano nelle risse politiche italiane i conflitti di casa loro, a cominciare dalla Guerra delle Rose, tra i Lancaster e i York. E anche l’abitudine, per la fazione perdente, di cercare aiuto all’estero, in Europa, in Francia.

Foto di Wikimedia Commons

La ragione principale per cui Lord Saye viene decapitato assieme al genero, le teste mozze issate su picche, e costrette a baciarsi esposte al pubblico, è che viene considerato un agente dei francesi, solo perché ha negoziato una pace con loro. Inutilmente Saye si proclama patriota: “Non ho venduto il Maine, non ho perduto la Normandia, e darei la vita per recuperarli”. Ha combattuto i Francesi in guerra. È stato tra i compagni di spedizione di Enrico V, che hanno vinto ad Agincourt e hanno dato in dote all’Inghilterra la Francia intera. Ma non gli perdonano di conoscere il francese. I rivoltosi sono nazionalisti e sovranisti ultrà. E c’è chi se ne approfitta. È uno dei partiti, delle grandi casate nobili che si contendono il potere, quella dei York, ad aizzarli contro il partito avverso, ad attizzare la rivolta di popolo nell’intento di soppiantarli al governo.

Oltre a essere nazionalisti beceri, i rivoltosi di Shakespeare sono anche xenofobi, che ce l’hanno con immigrati e stranieri. Come lo sono tutti i populisti, compresi quelli nostrani, o i sostenitori della Brexit, di Trump o di Bolsonaro. Sospettano lo straniero, il profugo, l’ebreo (ma anche l’irlandese, o lo scozzese), solo perché parla una lingua diversa da quella che usano loro, e mangia in modo diverso. Quelli della Cornovaglia e del Galles sono i loro terùn. Lo straniero è la bestia nera in quasi tutta la produzione letteraria e teatrale di epoca elisabettiana. Come lo Jago dell’Otello, uno spagnolo già nel nome, quindi un nemico, è cattivo dentro, per natura.

Il Sir Tommaso Moro è una tragedia a più mani. Fu riscritta di continuo, ma mai rappresentata, causa problemi con la censura. Certamente ci mise mano anche Shakespeare. Anzi è l’unica tragedia di cui ci siano pervenute tre pagine manoscritte di pugno di Shakespeare stesso, ora conservate al British Museum. È qui che gli argomenti contro gli stranieri vengono esposti nel modo più esplicito e brutale. La folla inferocita ce l’ha con due immigrati a Londra. Uno ha il nome francese, l’altro è chiaramente italiano. Lo chiamano Lombardo, è probabilmente un ricco mercante, forse un banchiere (è rimasto il nome dei banchieri e assicuratori italiani che formavano una comunità di importanza decisiva per l’economia inglese del medioevo nella centralissima Lombard Street). I londinesi doc li vogliono linciare. Li accusano di aver molestato le loro donne.

Peggio: di volergli togliere il pane di bocca. Le donne sono le più cattive, Rimproverano i mariti di pusillanimità: “E allora, marito? Ma come, uno straniero qualsiasi ti frega il cibo, un altro la moglie? Per la Madonna, come può sopportarlo un uomo vero, di carne e di sangue? […]”. È una donna a minacciare di chiedere aiuto alle altre donne perché “facciano a pezzettini” i trasgressori. “Visto che i nostri mariti sono imbrigliati dalle leggi e costretti a sopportare i vostri torti, saranno fuori legge le loro mogli e saranno loro a darvi una bella ripassata”. Poi si accontentano di rivolgere una petizione alle autorità cittadine, a nome dei “mastri artigiani di questa città” (riecco le partite IVA).

Foto di Lawrence OP (Flikr)

Piangono miseria, si lamentano di “danni, intralci e perdite, fonti di estrema povertà” causate dagli “stranieri”. Poco ci manca che facciano barricate per ottenere ristori. La lamentela è accorata: “Accade infatti che forestieri e stranieri tolgono il pane di bocca ai bambini senza padre, e portano via il sostentamento agli artigiani e il commercio ai mercanti, al punto che la povertà è talmente aumentata che ognuno piange la miseria dell’altro, poiché gli artigiani sono ridotti all’accattonaggio e i mercanti all’indigenza”. Conclusione: “Pertanto, viste le premesse, il rimedio deve venire dal popolo […]. E poiché l’offesa e il danno feriscono tutti, tutti devono far leva sulla propria forza […] non tollerando che i suddetti stranieri vivano nell’agiatezza, mentre i cittadini nati in questa regione vanno invece in rovina” (Il libro di Sir Tommaso Moro, scena I, versi 112-130). Non vi pare di aver già sentito discorsi del genere, non nella Londra del 1500, ma a casa nostra?

Tocca alla massima autorità politica della Londra dell’epoca, appunto a Tommaso Moro, cercare di indurre a più miti consigli i rivoltosi inferociti contro gli stranieri. Quelli, ne chiedono l’espulsione. Lui li avverte: “Attenti, voi offendete proprio quello che invocate, cioè la pace […]. Mettiamo che vengano allontanati […]. Immaginate di vedere questi disgraziati stranieri che si affollano verso la costa e i porti, con i bambini in spalla e i loro poveri bagagli. Mentre voi ve ne state a soddisfare le vostre smanie di sovranità, con le autorità zittite dal vostro berciare, e voi tronfi nella vostra arroganza. Cosa avreste ottenuto? Ve lo dico io: avreste mostrato solo come superbia e arroganza possono prevalere e si può distruggere l’ordine. Ma se così succedesse […], altri furfanti, seguendo le loro ubbie, con identiche mani, identiche ragioni e identico diritto, vi spolperebbero, e gli uomini si divorerebbero fra loro come pesci voraci” (Scena 6, versi 82-96). È questa la parte indubbiamente di pugno di Shakespeare. Gli spettatori dell’epoca sanno benissimo che Tommaso Moro finirà decapitato per ordine del Re (sarà fatto santo e martire dalla Chiesa di Roma). Chissà che a perderlo non sia stata anche l’impopolarità dei suoi appelli alla tolleranza, alla ragione e all’umanità.

Le storie di Shakespeare spesso parlano dell’attualità dei suoi tempi fingendo di parlare di tempi passati. Un po’ come le storie di chi state leggendo. La vicenda del Sir Tommaso Moro racconta di una sollevazione di 75 anni prima. Ma il populismo xenofobo aveva avuto una recrudescenza in epoca elisabettiana.  Come oggi dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Ucraina, verso la fine del 1500 arrivavano a frotte in Inghilterra profughi in cerca di asilo e mezzi di sussistenza. Erano ebrei in fuga dall’Inquisizione. Poi soprattutto ugonotti, protestanti calvinisti stritolati nelle guerre di religione che devastavano l’Europa. Nel 1550 Edoardo VI gli aveva concesso accoglienza. In fin dei conti erano perseguitati dallo storico nemico, contro il quale l’Inghilterra aveva combattuto una guerra interminabile. La Guerra dei Cent’anni. Che in realtà durò più di un secolo: dal 1337 al 1453. Gli ugonotti accolti in Inghilterra prosperarono. A Londra avevano una comunità numerosa, con proprie chiese, propri usi e costumi, lingua propria, proprie fiorenti attività economiche. Attiravano altri correligionari. Dopo la strage della notte di San Bartolomeo nel 1557, il flusso costante di profughi ugonotti dalla Francia divenne, per necessità, marea. Davano fastidio ai londinesi “autentici”. Fu buon gioco per chi, per ingraziarsi il popolo, gli prometteva di ributtarli a mare. La parola d’ordine divenne: “Prima gli inglesi”. Elisabetta si barcamenò. Non li espulse, ma nemmeno li accolse.

Quest’articolo è stato pubblicato in origine sul Foglio di sabato 14 gennaio 2023. 

 

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