ZATTERA SCIOLTA

Giovanni Cominelli

Laurea in Filosofia nel 1968, dopo studi all'Università cattolica di Milano, alla Freie Universität di Berlino, all'Università statale di Milano. Esperto di politiche dell’istruzione. Eletto in Consiglio comunale a Milano e nel Consiglio regionale della Lombardia dal 1980 al 1990. Scrive di politiche dell’istruzione sulla Rivista “Nuova secondaria” e www.santalessandro.org, su Libertà eguale, su Mondoperaio. Ha scritto: - La caduta del vento leggero. Autobiografia di una generazione che voleva cambiare il mondo. Ed. Guerini 2008. - La scuola è finita… forse. Per insegnanti sulle tracce di sé. Ed. Guerini 2009 - Scuola: rompere il muro fra aula e vita. Ed. Guerini 2016 Ha curato i volumi collettivi: - La cittadinanza. Idee per una buona immigrazione. Ed. Franco Angeli 2004 - Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria? Ed. Guerini 2018

LA COSCIENZA GEOPOLITICA

Da LINKIESTA
1° giungo 2021
Giovanni Cominelli

Affrontare il futuro Serve un nuovo patto generazionale per costruire la coscienza geopolitica dei giovani
La paura di fronte al mondo che cambia è uno dei segnali del declino nazionale. La coscienza di chi sarà la classe dirigente del domani deve operare un salto quantico, ma gli adulti e gli anziani hanno un ruolo determinante per dargli una guida politica e culturale

Perché i giovani hanno paura del futuro? Perché il futuro una volta era migliore, come sostiene Sabino Cassese, o perché non vedono il presente o perché lo vedono e ne hanno paura?
Il mondo, questo sconosciuto, si è messo a girare più veloce del solito. Stare al suo passo è diventato faticoso. Così, la tentazione di adagiarsi nel proprio Io, alla ricerca di un rifugio narcisistico, è diventata prevalente tra i giovani – considerati tali fino a 34/35 anni – come documentano ricerche e sondaggi. L’inverno demografico dell’ex-Occidente – in Italia la natalità è calata del 24%, secondo il Presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo – ne è una delle conseguenze. L’altra è la paura del futuro e l’altra ancora è l’oblio del passato, che tocca il suo acme nella “cancel culture”. Si vede solo il presente, ma avvolto nella nebbia.
La condizione di paralisi e di fuga mentale e psicologica delle giovani generazioni di fronte al mondo che viene avanti è uno dei segnali ed una causa del nostro declino nazionale.
Non basterà l’iniezione di miliardi promessi dal PNRR per invertire la rotta, se la coscienza/autocoscienza delle giovani generazioni non opera un salto quantico. E non avverrà senza un forte impegno politico, culturale e educativo delle generazioni adulte e anziane, da costruire attraverso le scuole, le Università, i mass-media, le agenzie di volontariato civile, le associazioni sportive, i partiti… Questo dovrebbe essere il terreno del cosiddetto “patto generazionale”.
Qual è il contenuto di tale patto? È quello della formazione di una coscienza geopolitica e glocalistica delle giovani generazioni.
Impresa difficile per molte storiche ragioni. Se gli Italiani del 1300/1400 erano l’avanguardia economica e culturale mondiale, poi si sono persi nei marosi dell’Atlantico, si sono richiusi, dopo Lepanto, nel Mare Nostrum, mentre spagnoli, olandesi, portoghesi, inglesi, francesi si lanciavano alla conquista del mondo. Dall’Unità abbiamo tentato di uscirne, ma il nostro “imperialismo” di risulta è rimasto provinciale, mentre i tedeschi e persino belgi si gettavano sull’Africa.
Nessuna nostalgia o invidia, si intende, per i tramontati imperialismi e nessuna velleità di futuri. Intanto, però, occorre prendere atto che risulta più difficile “educare al mondo” le giovani generazioni in un Paese abituato da secoli a muoversi nel vasto mondo non come uno Stato-nazione, ma come un pulviscolo, ieri di Stati, oggi di corporazioni, interessi particolari, partiti, Guelfi e Ghibellini…Così, i nostri Centri studi, dall’Ispi agli Istituti universitari di Geografia e Storia alle Scuole – le discipline storiche sono in contrazione – e le riviste come Limes, Aspenia, Affari internazionali fanno fatica a contrastare il provincialismo culturale del Paese e della sua classe dirigente. Di ben altra dotazione dispongono i francesi, gli inglesi e gli americani.
Così, benché l’Africa sia il nostro partner demografico incombente, con i suoi prossimi 2 miliardi e passa nel 2050, sui nostri giornali – è stato confermato da una ricerca recente – viene menzionata pochissimo e solo in relazione ad eventi clamorosi, che ci toccano oggi e direttamente.
Che “il movimento del mondo” sia in accelerazione in questi ultimi trent’anni lo documenta velocemente l’omonimo libro di Khanna Parag. I punti di cambiamento: la demografia, ossia gli squilibri asimmetrici fra un Nord che invecchia e un Sud giovane, capace di offrire la forza lavoro, di cui il primo ha bisogno; la politica, ossia rifugiati e profughi provenienti da guerre civili e Stati in fallimento, come pure i tanti che fuggono dalla persecuzione etnica, dalla tirannia o dal populismo; l’economia: migranti in cerca di opportunità, lavoratori lasciati a casa dall’outsourcing, impiegati costretti al pensionamento anticipato a causa delle crisi finanziarie; la tecnologia, con l’automazione industriale che ridurrà sempre più i posti di lavoro nelle fabbriche e nella logistica, mentre algoritmi e intelligenza artificiale renderanno sempre più superflui i lavoratori specializzati…
I quattro scenari, cui ci pone di fronte, non sono luminosi, a parte l’ultimo: le Fortezze regionali, il Nuovo medioevo, i Barbari alla porte, le Luci dal Settentrione. Alcuni di questi prevedono guerre con miliardi di morti e genocidi. Ci attende un futuro quantico, nel quale l’onda gioca a mosca cieca con il corpuscolo che sei tu.
Non c’è dubbio! Alle generazioni del dopoguerra i contorni presenti e futuri del mondo apparivano più nitidi. Perciò, negli anni ’60 si alzarono d’improvviso e decisero che il mondo presente si poteva cambiare, anzi “liberare”. Fu John Kennedy a interpretare, per primo, questo mood. Prima di Camilo Torres e di Che Guevara. Certo nel mondo post-bellico e post-coloniale si stavano sollevando, da tempo, forze di liberazione…
Ora, chi racconta il mondo presente ai giovani, che si avviano generosi e sonnambuli verso il futuro?
Le retoriche utopico/distopiche non dicono la verità sul presente/futuro del mondo. La si può estrarre, scavando faticosamente, solo dalle miniere del presente. La lezione inflittaci dal Covid ha almeno un lato positivo. Ci ha insegnato che la storia del mondo procede in modo drammatico e attira ciascun individuo e nazione nel suo vortice. Nessuno può scappare. Sì, l’avvenire non è fatto di “domani che cantano”, come recitava il poeta surrealista/comunista Paul Éluard…
Perciò alla retorica sostituiremo – chi comincerà a farlo?! – l’informazione, l’analisi, i fatti che accadono in Asia, Africa, America Latina e che modificano già oggi le nostre vite e il nostro futuro. Solo gettandoli in faccia alle giovani generazioni, come un secchio di acqua gelata, susciteremo, forse, lampi di risveglio.
La rivoluzione della Rete consente una connessione esistenziale tra la dimensione locale e quella globale.
Si tratta, oggi più che mai, di rovesciare la famosa Tesi XI di Marx su Feuerbach: «Finora i filosofi hanno solo diversamente interpretato il mondo; si tratta ora di trasformarlo». Al momento, si tratta di tornare a interpretarlo, per costruire una coscienza geopolitica/glocalistica. Per presentare il mondo ai ragazzi, con responsabilità e coraggio.

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