STORIE USATE

Siegmund Ginzberg

I cipressi di Van Gogh

In manicomio Vincent Van Gogh dipingeva cipressi, non girasoli. Si era fatto ricoverare di sua propria volontà. All’inizio non lo lasciavano nemmeno uscire dalla sua stanza. I primi schizzi della sua “Notte stellata” li fece attraverso le sbarre alla finestra. Il dipinto è dominato da due enormi cipressi che quasi toccano le stelle e la luna. Aggiunti dall’immaginazione: non ci sono nelle foto del paesaggio che si vede da quella stanza. Mentre le montagne che fanno da sfondo sono proprio le Alpilles di cui poteva vedere il profilo da quella finestra con sbarre.

C’è chi ha argomentato che quel dipinto sarebbe un “autoritratto simbolico”. Un autoritratto che si aggiunge agli altri che dipinse durante il ricovero. Per Van Gogh i cipressi, come gli alberi e la natura in genere, erano “una consolazione”. La “Notte stellata” è in possesso del Metropolitan Museum di New York, che ha in corso una splendida mostra interamente dedicata ai cipressi di Van Gogh. Oltre a questo sono esposti altri 23 dipinti e 15 disegni, provenienti da collezioni in tutto il mondo. Tutti trattano di cipressi. È un’occasione unica, forse irripetibile, di comparare dipinti di cipressi che non si erano mai visti uno a fianco dell’altro.

“Vorrei fare dei cipressi qualcosa come le tele dei girasoli, perché mi colpisce che nessuno li abbia fatti come li vedo io…”, aveva scritto al fratello Theo. “Quando facevo quei girasoli, ero in cerca di qualcosa di opposto e, al tempo stesso equivalente. E mi sono detto: è il cipresso”. Solari, giallo oro quelli, crepuscolari, verde scurissimo, quasi nero, questi. Dipingeva anche ulivi, più tormentati, contorti di quanto lo siano i cipressi, e ulivi e cipressi insieme.

Non approfondì il tema ulivi quanto quello cipressi. Forse non fece in tempo. Le crisi si succedevano e non gli consentivano di lavorare all’aria aperta. O forse lo affascinavano di più i cipressi. “Il [loro] verde ha una qualità tutta particolare. È la macchia nera in un paesaggio assolato”: Van Gogh associa direttamente i colori all’istituzione dove ha scelto di farsi rinchiudere. “Comprenderai che questa combinazione di ocra rossa, di verde intristito col grigio, di linee nere che definiscono i contorni, tutto questo dà un po’ di quel sentimento di ansietà di cui alcuni dei miei compagni di sfortuna soffrono”, scrive all’amico Èmile Bernard a proposito del Giardino dell’Ospedale di Saint-Paul-de-Mausole a Saint Rémy, dipinto mentre era ricoverato.

La notte stellata è il dipinto più over-interpretato tra quelli di Van Gogh. Ne è stato scritto tutto e il contrario di tutto. In chiave medica, in chiave psicanalitica, in chiave di tecnica coloristica, e così via. “Un cervello che soffre sotto un astro bruciante”, è l’impressione che fece su Paul Klee. C’è stato chi ha argomentato che si tratterebbe di un dipinto religioso. Van Gogh notoriamente aveva perso la fede. Era in conflitto col padre che avrebbe voluto continuasse la tradizione di una famiglia di severi pastori protestanti. Van Gogh stesso aveva fatto da giovane il missionario in un villaggio di poveri minatori di carbone in Belgio. Ma non era il suo mestiere. Né fare il missionario né fare l’apostolo operaio. Gli sarebbe piaciuto, diceva, dipingere un’agonia di Cristo nel giardino di Getsemani. Non ci riuscì. Lauren Soth, autrice di un saggio su “L’agonia di Van Gogh” sostiene che la “Notte stellata” sarebbe un sostituto simbolico del dipinto a soggetto religioso che non gli veniva. Non mi convince molto. Forse perché sono allergico ai misticismi religiosi. Così come mi sanno di tirate le innumerevoli esegesi psicanalitiche.

Non era la prima notte stellata che Van Gogh dipingeva. Aveva già dipinto, nel 1888, una “Notte stellata sul Rodano” (è conservata al Musée d’Orsay di Parigi). Alle luci pulsanti delle stelle corrispondono i lunghi riflessi tremolanti delle luci di una città sul fiume. È molto suggestivo. Così come è suggestivo “Terrazza del caffè la sera”, sempre del 1888, in cui compare lo stesso cielo stellato sopra i tavolini di un caffè sul selciato della Place du Forum ad Arles.

La fonte è stavolta letteraria. Van Gogh leggeva moltissimo. I libri non si limitava a far finta di leggerli. Sarà stato lunatico, ma non era ignorante. Era diligente, anzi pignolo, quanto nella sua pittura. “Non mi hai detto se hai letto Bel-Ami di Guy de Maupassant oppure no e cosa ne pensi […]. Te lo dico perché l’inizio di Bel Ami contiene una descrizione di una notte illuminata di stelle a Parigi con i caffè vivacemente illuminati sul boulevard ed è pressappoco lo stesso soggetto che ho appena dipinto”, scriveva alla sorella Wilhelmina. Van Gogh lavorava di fantasia, non di realismo.

Ma lui non ne era pienamente soddisfatto né dell’uno né dell’altro di quei cieli stellati. Ne aveva in mente un altro ancora, diverso. “Lo voglio dipingere di nuovo, e forse una di queste notti tornerò ad arare lo stesso campo [soggetto] se il cielo sfavilla”, aveva scritto a Theo descrivendogli quella prima “Notte stellata”. “Finora non sono stato capace di farli [i cipressi] come li sento”, lamentava. “Di fronte alla natura, le emozioni si impadroniscono di me al punto da farmi svenire, e il risultato sono un paio di settimane in cui non riesco più a lavorare. Tuttavia ho l’intenzione di tornare alla carica per attaccare i cipressi [attaquer les cyprès]”, scrisse ad Albert Aurier, uno dei pochissimi giornalisti che non l’avevano ignorato. Ci sarebbe riuscito, nove mesi dopo.

Cos’è che gli mancava in quei primi tentativi? Non lo soddisfaceva del tutto la tecnica usata nel rappresentare il cielo? Sì, certo. Ma forse soprattutto un’altra cosa. Sentiva il bisogno di un’aggiunta di fantasia. Di qualcosa che nell’inquadratura presa a modello non c’era. I cipressi, diamine. Anzi, un doppio cipresso, o un solo cipresso ma sdoppiato se si preferisce. Lacerato, diviso in due, sdoppiato, ma in modo meravigliosamente produttivo, come la sua mente.

Il cipresso respira, si muove, è vivo. Specie quando in Provenza soffia il mistral, il maestrale, convogliando aria fredda dalle alpi lungo la valle del Rodano. È violento, imprevedibile. È un vento dipinto anche da Monet e Gauguin. Scrittori che conoscono bene la Provenza, Dumas, Zola, lo stesso poeta del Sud della Francia, Frédéric Mistral, lo associano a momenti drammatici, di ansia, di crisi. Van Gogh divenne sempre più sensibile al vento, a mano a mano che la sua salute psichica si deteriorava. “Diavolo di un mistral, non mi tira certo su di morale”, scrisse al fratello.

Rappresenta spesso i suoi cipressi con le cime che si piegano, i rami che sembrano agitarsi, arrotolarsi in vortici, che si muovono verso l’alto, come lui stesso scrisse, in grandi “correnti d’aria circolari”. In uno degli schizzi in china sanguigna esposti alla mostra del Moma, proveniente dall’Art Institute di Chicago, il cipresso sembra addirittura in fiamme, quasi suggerisce l’arbusto ardente con cui Dio si manifestò a Mosè. Qualcuno ha associato il mistral alle ansie europee di fine Ottocento circa gli effetti del vento sulla mente umana. Le pubblicazioni mediche dell’epoca se la prendono spesso e volentieri con gli effetti deleteri del vento sulla salute, lo accusano di essere la causa di “subitanee passioni, improvvise esplosioni di ira e altrettanto improvvise ricadute in apatia e languore”. Era l’età del manicomio. Eppure quelli erano anche gli anni in cui veniva eretta a Parigi la Tour Eiffel.

Quando lo fecero uscire dalla sua stanza-cella e lavorare all’aria aperta Van Gogh amava dipingere sottovento, studiarne gli effetti su quel che stava ritraendo. Nell’esaminare e curare i dipinti per la mostra al Metropolitan si sono trovati di fronte a un piccolo mistero. Uno dei dipinti di cipressi aveva incastonata nella pasta del colore anche pietruzze e granelli di sabbia. A prima vista sembravano coni di cipresso. Si sono chiesti se Van Gogh avesse di proposito gettato terra e sassi sulla tela, o gli fosse caduto il pennello. Probabilmente a dare il tocco era stato il vento stesso, appunto il mistral.

Molti dipinti di Van Gogh riescono a rappresentare il movimento. L’effetto del vento sui cipressi, ma anche su rami e spighe di grano. Dipinge anche nuvole che si arrotolano, e luna e stelle che vorticano. Nel dipinto la “Notte stellata” del giugno 1889 le stelle sembrano spirali di galassie e comete. In altri dipinti sono vortici di nuvole a produrre un effetto simile. Può richiamare l’effetto che luci distanti, che si fatica a mettere a fuoco, come le stelle producono su chi le fissa. Specie in chi soffre di una leggera miopia, o ha gli occhi inumiditi dalle lacrime. C’è chi vi ha voluto addirittura vedere una rappresentazione precisa della dinamica della complessa matematica della turbolenza dei fluidi nei modelli di Kolmogorov. Con cui è possibile determinare velocità e direzione delle particelle in relazione alle altre particelle di un fluido.

Nei pazienti affetti da glaucoma l’eccesso di pressione nella cornea può portare a una diffrazione della luce nei suoi componenti, conducendo l’osservatore a percepire aloni colorati attorno alle fonti di luminose. Ma non c’è niente che indica che Van Gogh soffrisse di glaucoma. Di malanni bastano e avanzano quelli che via via gli vennero diagnosticati. “Epilessia”, “vertigo”, “mania acuta con allucinazioni della vista e dell’udito”, “agitazione psicotica”. Stranamente non la schizofrenia, lo sdoppiamento della personalità, né la bipolarità maniaco-depressiva che può portare al suicidio. Anche Claude Monet, oltre a essere astigmatico, soffriva di xantopsia. Edgar Degas dipingeva arabeschi sempre più colorati e surreali a mano a mano che progrediva la sua cataratta. Edvard Munch, il cui celebre “Urlo” è tutto un turbine di colori nel cielo di sfondo, dipinse nel 1924 una “Notte stellata” ad Åsgårdstrand, una piccola località balneare a sud di Oslo. Il cielo è quello del nord, ma la tela è evidentemente influenzata dal cielo notturno che Van Gogh aveva dipinto in Provenza. Munch era anche lui un caso clinico.

Lasciatemi mettere le mani avanti: le spiegazioni cliniche in pittura lasciano il tempo che trovano. Ma sta di fatto che, a un certo punto del ricovero nella clinica per malattie mentali di Saint-Rémy, Van Gogh aveva perso la capacità di dipingere turbolenze. Potrebbe dipendere dai farmaci che gli venivano somministrati. Alla digitalis, usata per curare aritmie cardiache, allucinazioni, depressione e psicosi, si attribuisce una pronunciata xantopsia (visione in giallo). Giallo come alcuni dei suoi girasoli (non tutti, altri tendono a un verdastro malaticcio), e come la sua “Camera in giallo” di Arles, dipinta un anno prima della morte. Avrebbe dipinto ancora una “Strada con cipressi e cielo stellato”, nel quale compaiono anche due figure affiancate che si incamminano. Uno dei due ha una vanga in spalla (o forse un’ascia?). Sono seguiti a poca distanza da un barroccio col tetto giallo, tirato da un cavallo bianco. Anche questo è stato interpretato come un soggetto con simboli religiosi. L’avrebbe definito in una lettera come “l’ultimo tentativo” con cipressi e astri in cielo. La frase è stata interpretata come se fosse cosciente della fine imminente.

Ho l’impressione che troppe interpretazioni stroppino. Atteniamoci ai fatti. Dopo essere stato dimesso come “guarito” da Saint-Rémy, tornò a cercare la pace nel nord, ad Auvers-sur-Oise. Un paio di mesi dopo, si sparò, che non aveva compiuto i 37 anni. C’era finalmente riuscito, dopo innumerevoli altri tentativi di suicidio. Una volta aveva cercato di avvelenarsi ingerendo i propri colori. Da vivo non era riuscito a vendere nemmeno uno dei suoi dipinti.

Eppure continuava a dipingere. Con disciplina. Quasi per tigna, mi verrebbe da dire ricordando il modo in cui l’amico Emanuele Macaluso, quasi centenario, rispose a un giornalista che gli chiedeva perché continuasse a fare battaglia politica. “Per tigna”, rispose lui, attribuendo la frase a un immaginario soldato di Napoleone che continuava a sparare malgrado la disfatta. Van Gogh invece era convinto che continuare a lavorare fosse l’unico rimedio ai suoi malanni. Scrisse a Theo: “Qualche giorno fa leggevo sul Figaro la storia di uno scrittore russo che soffrì tutta la vita di una malattia nervosa, era soggetto ad attacchi terribili del suo male, e poi ne morì [Dostoevskij?]. Che fare? Non ci sono cure, anzi l’unica possibile cura è lavorare con lena”.

Mentre scrivo queste righe vedo dalla mia finestra i cipressi di viale Mazzini a Roma. Ci passo sempre volentieri dal centro del viale, perché i cipressi profumano. Hanno resistito tutti, sembrano in buona salute. Mentre sono stati tagliati quasi tutti i pini romani a ombrello, dopo che uno, dall’enorme tronco dalla scorza rossiccia, si era abbattuto sulla Corte dei Conti. Avevano, credo, la stessa età dei pini. Anche alcuni lecci non ce l’hanno fatta. È l’unico quartiere della capitale disegnato negli anni ’20 del secolo scorso con un’idea urbanistica, alberi compresi. Per far crescere i pini com’erano ci vorrebbe un secolo. Ma non ne hanno ripiantato ancora nemmeno uno. Evidentemente hanno altre priorità. A cominciare dalla spazzatura che si accumula giusto lì di fronte.

E mi vengono in mente i versi di una poesia di Giosuè Carducci che ci facevano studiare a memoria alle elementari: “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti/van da San Guido in duplice filar…”. Non ricordavo il seguito, confesso. Sono andato a rivedermela. È più divertente di quel che ricordavo. I cipressi lo rimproverano per le sassate che gli tirava quando era birichino. Per farlo fermare gli ricordano la nonna Lucia. Dopo l’“Ansimando fuggìa la vaporiera,/mentr’io così piangeva entro il mio cuore” (strano: è da un treno in corsa anche il primo incontro nelle lettere di Van Gogh coi cipressi), ti aspetteresti un finale strappalacrime. E invece si riscatta: “Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo/rosso e turchino, non si scomodò:/tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo/e a brucar serio e lento seguitò”.

 

Quest’articolo è stato pubblicato in origine sul Foglio di sabato 16 agosto 2023. 

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