IL SOTTOSCRITTO

Gianni Bonina

Giornalista e scrittore. Vive a Modica. Ha pubblicato saggi di critica letteraria, romanzi, inchieste giornalistiche e reportage. È anche autore teatrale. Ha un blog all'indirizzo giannibonina.blogspot.com

Alajmo, Buttafuoco e la Sicilia del Corriere

In un numero di luglio de “La lettura”, il supplemento culturale del Corriere della sera, è apparso un confronto al quale la testata, volendo ricordare i sessant’anni della morte di Tomasi di Lampedusa, ha invitato due scrittori siciliani, Pietrangelo Buttafuoco e Roberto Alajmo, a  pronunciarsi sull’attualità e la validità della celebre citazione contenuta ne “Il Gattopardo”, fin troppo abusata come regola di condotta, circa il verbo per cui occorra cambiare tutto per non cambiare niente. Frase che Tancredi rivolge allo “zione” per giustificare il suo reclutamento tra le forze liberali antiborboniche allo scopo di minarne l’azione così da salvare il Regno delle due Sicilie. Frase buttata lì, che in realtà non significa niente nemmeno nei propositi di Tancredi né nella visione di Lampedusa, che “La Lettura” ha tuttavia pensato di ripescare proponendo due opinioni contrapposte sul suo fondamento.
Ne è venuto fuori un pasticcio, non tanto perché la commemorazione di Lampedusa (che “La Lettura” conosce approssimativamente se presenta l’autore come duca di Palma e Montechiaro) non può valersi di una frase che fa solo un bell’effetto ma che è in sostanza un’aporia, da accostare ad altre del tipo “Amor ch’a nullo amato amar perdona”, possibili di qualunque interpretazione e di nessuna, quanto perché gli scrittori chiamati a dire se è vera o falsa, nonché attuale, forse proprio perché siciliani, si sono esibiti in due teoretiche che volendo essere alternative sono risultate invece una il doppio dell’altra.
Non avendo capito cosa intendessero, il giornale ha perciò titolato la nota di Buttafuoco “Il Gattopardo ha ragione – Tutto è diverso, nulla cambia” e quella di Alajmo “Il Gattopardo ha torto – Un’altra Sicilia è possibile”: come se realmente l’uno e l’altro sostenessero tesi contrapposte, mentre appaiono come i monaci di Borges, in lite ma sostanzialmente simili. Alajmo, quello che si è fatto carico di dimostrare che la massima lampedusana non vale più in Sicilia (perché poi in Sicilia se Tancredi voleva affermarla nel continente?), non è andato oltre un giudizio di sospensione, secondo cui non si sa se la Sicilia sia cambiata in meglio o in peggio e semmai è cambiata “a macchia di gattopardo”. Dal canto suo Buttafuoco, quello che in “Buttanissima Sicilia” ha sostenuto con violenza i cambiamenti in peggio dell’isola, dovendo stavolta sofisticamente addurre ragioni alla tesi dell’immobilismo, ha trovato che nulla è invece cambiato e naturalmente, secondo il suo costume, ha sparato a zero sui suoi corregionali arrivando a scrivere che “un buon siciliano, si sa, è sempre un cattivo cittadino italiano”. Forse lo sa solo lui questo, dimodoché essendo siciliano non può che essere il primo cattivo cittadino italiano, visto che non vive in Sicilia.
Quel che per certo si sa, questo sì, è che sia Buttafuoco che Alajmo figurano tra i siciliani “cambiati”, come Pirandello temeva per se stesso nella culla e per tutti i siciliani, al pari di Camilleri, anche per il quale la Sicilia e i siciliani sono cambiati e certamente non in peggio. Cambiati sono i due scrittori e giornalisti quantomeno nelle loro professioni, che molto camaleonticamente hanno lasciato per dedicarsi alla direzione di teatri (uno dello Stabile di Catania, lasciato in un mare di debiti, e l’altro del Biondo di Palermo, mai arrivato agli attuali minimi storici) non certamente in maniera nicodemica, come fedeli confusi tra i miscredenti e rimasti perciò giornalisti, ma come scrittori da riconoscere, perché tali, in possesso del titolo valido a occupare posizioni pubbliche di potere, secondo retaggi spagnoli di apparenza e opulenza che sia Alajmo che Buttafuoco hanno fieramente fatto propri: cambiando entrambi al punto che il primo ha lasciato al momento la Rai e il secondo non si è fatto scrupolo alcuno di lavorare in un giornale come “Repubblica” nel quale si è trovato, pur professandosi uomo di destra, a muovere un inusitato attacco contro Berlusconi, ragione per la quale è stato ovviamente licenziato da Panorama.
In sintesi, per il nipote del fascista ennese Nino Buttafuoco la Sicilia non è cambiata affatto, mentre per il gesuitico notomizzatore dei pazzi siciliani forse è cambiata ma non si sa come e quanto. Per sostenere le loro tesi, provando così di essere della stessa colla, si sono valsi uno all’insaputa dell’altro dell’esempio dell’autostrada Palermo-Catania, Buttafuoco per dire che è da sempre un deserto e che non cambierà mai e Alajmo per affermare che le sue gallerie non sono tutte al buio e che qualcuna è illuminata, sebbene un cartello segnali il contrario – imbastendo una tale tirata per arrivare al punto che tra cambiamento e stagnazione a prevalere è il caos, elemento che proprio non ha che fare con Lampedusa. Alajmo ha fatto di più: per dare una base filosofica alla tesi che Lampedusa sbagliava ha – tra faceto e serio: ma di più serio – tirato fuori l’effetto del gas Radon che, emerso dai crateri delle stragi di capaci e Via Amelio, ha mutato i caratteri genetici dei siciliani che dal 1992 avrebbero preso una nuova consapevolezza vivendo come una metamorfosi palingenetica. “La Lettura” non ha battuto ciglio e ha riportato persino nella titolazione l’immagine del Radon che si sprigiona da sottoterra e raggiunge i neuroni dei siciliani. Amando il grottesco, nei modi di un compiacimento che lusinga molto autori e registi palermitani, Alajmo ha forse voluto ridersi addosso, ridere cioè di se stesso siciliano, ma il giornale non lo ha capito concludendo che chi nega gli effetti del Radon è in malafede.
Buttafuoco l’ha buttata invece in politica – a modo suo of course – e dalle rovine della landa desolata che è la mortifera Sicilia ha messo in salvo quelli che forse sono i principali responsabili della deprecatio temporum e cioè il capo dello Stato, il presidente del Senato e il ministro itinerante oggi agli Esteri, tutti “estranei all’immobile rovinio di una periferia remota”. Perché siano estranei Buttafuoco non lo dice, ma non occorre: l’atteggiamento di imputare il cattivo andamento di una casa non ai padroni ma alla servitù negletta è molto siciliano e caratteristico di chi, come Buttafuoco, spara a zero contro la Sicilia per aggirarsi intanto tra i meandri dei suoi palazzi con in mano la patente esclusiva di ideologo di destra, ammiccando a sinistra e fino a qualche tempo fa attento a cogliere senza smentire voci di una sua candidatura alla presidenza della Regione. Per poi naturalmente dire che la Sicilia non cambia ed è buttanissima.
Avrebbero entrambi dovuto astenersi per conflitto di interesse all’invito del Corriere di commentare Lampedusa e non dividersi piuttosto le pedine per una partita a dama destinata al pareggio e combinata. Ma hanno voluto esibirsi, finendo per incassare che “La Lettura”, presentando il tema, li abbia “mascariati” chiedendo la loro opinione se “anche nella terra dei delitti di mafia si può credere in uno slancio diverso”. Ma scusate: perché terra di mafia, pretestando Lampedusa? Perché quell’“anche” che separa la Sicilia dall’Italia? E perché non si dovrebbe credere a priori in uno slancio diverso? Più che il parere dei due influencers siciliani, “La lettura” avrebbe dovuto proporre il proprio: quantomeno per misurare la distanza tra Milano e la Sicilia.

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