Quando l’Ungheria sognava l’Occidente

Prima di Berlino, la Cortina di Ferro era caduta vicino la piccola città ungherese di Sopron, al confine con l’Austria. Prima della breccia che sgretolava la linea dei blocchi contrapposti passando per Bornholmer Strasse, la frontiera tra Est e Ovest aveva iniziato a perdere pezzi in Ungheria. A pochi metri dai posti di guardia militarizzati e dal filo spinato, il 19 agosto 1989, alcuni rappresentanti della società civile orientale e occidentale organizzarono un picnic su un prato. Un déjeuner sur l’herbe paneuropeo, un appuntamento simbolico pensato per mettere fine alle scissioni causate dalla guerra fredda. L’iniziativa era stata eccezionalmente autorizzata dal governo comunista di Budapest e rappresentava una prima piccola apertura per superare la politica delle divisioni. Ma quel giorno d’estate migliaia di persone, in particolare cittadini provenienti dalla Germania Est che stavano passando le vacanze nel paese balcanico, venuti per caso a conoscenza dell’iniziativa, si unirono al raduno. Camminarono verso la storica linea di demarcazione, sfidando la loro incolumità, decisi ad attraversare pacificamente il confine. La polizia del regime comunista, colta di sorpresa, non reagì e rinunciò a sparare sui civili. Solo qualche mese prima, ad aprile, il governo aveva ordinato di togliere l’elettricità alla barriera lunga 240 chilometri che correva sulla frontiera austriaca. E a giugno a Budapest si respirava già aria di cambiamento, quando il ministero degli Esteri ungherese aveva rimosso un pezzo di recinzione. A novembre crollerà il Muro, segnando l’inizio della riunificazione dell’Europa e la costruzione di uno spazio democratico comune attraverso l’adesione di una gran parte degli stati dell’ex blocco dell’est fuoriusciti dall’orbita dell’Unione Sovietica.

“Per tanti di noi il 1989 ha rappresentato un momento di speranza. Da allora, l’Ungheria è cambiata anche se, a guardare bene l’attuale politica, lo scenario non si è poi trasformato molto”, raccontano Zsuzsa Berecz e Sarah Günthe, artiste del gruppo Pneuma Szöv. Che letteralmente significa “Collettivo dell’aria”, ha sede in un vecchio palazzo nel centro di Budapest e raccoglie attivisti e visionari che usano la creatività come uno strumento di narrazione e opposizione alla politica del primo ministro Viktor Orban, leader del partito di destra radicale Fidesz, al potere dal 2010 e vincitore delle ultime elezioni con oltre il cinquanta per cento delle preferenze. Fondato undici anni fa, Pneuma Szöv organizza performance teatrali e artistiche in strada e occupa temporaneamente edifici pubblici con l’obiettivo di restituirli alla comunità. Il nome del gruppo deriva dalla sua prima esibizione: una mostra, organizzata negli uffici di un centro commerciale abbandonato, in cui una serie di attori erano impegnati a ricreare in provetta lo smog che infesta la capitale, una delle città più inquinate in Europa.

“Attraverso il nostro lavoro, abbiamo cercato di capire cosa rimanesse dell’eredità rappresentata dalla caduta del Muro di Berlino. Ci siamo risposte che la principale promessa del 1989 era raggiungere gli standard di vita dell’Occidente”, aggiungono Berecz e Günthe. L’Ungheria era stata per quattro decenni un satellite dell’Unione Sovietica e, come successo negli altri paesi dell’Est, la svolta politica aveva fatto nascere illusioni di carattere economico. Ma la speranza che le proprie condizioni di vita potessero migliorare e raggiungere i livelli occidentali, e della vicina Austria in particolare, si è ben presto scontrata con gli effetti dell’introduzione dell’economia di mercato: i licenziamenti di massa e la chiusura delle fabbriche considerate non in linea con il nuovo impianto neoliberista. “Dagli anni Novanta in poi, le privatizzazioni scatenate, la rapida deindustrializzazione e la mancanza di politiche sociali hanno portato alle attuali politiche autoritarie e a una mancanza di solidarietà in tutti i livelli della società”, proseguono Berecz e Günthe. “Come collettivo riteniamo sia necessario rivisitare le alternative emerse alla fine dello scorso secolo e progettare risposte che non cancellino il nostro ‘passato socialista’ a favore di un presente neoliberista. Crediamo si debbano scrivere nuovi percorsi, traiettorie che traggono ispirazione dalle nostre storie locali ma che al contempo siano internazionali”.

La sua Ungheria Orbàn l’ha chiamata “democrazia illiberale”, riprendendo le teorie elaborate dallo studioso Fareed Zakaria su Foreign Affairs. Una definizione usata per indicare uno stato che non rifiuta i principi del liberalismo ma che non fonda la sua struttura unicamente su tale ideologia. Sotto il leader populista fautore di politiche anti immigrati e autoritarie, il paese è in crescita, la disoccupazione è in calo e sono aumentati gli investimenti stranieri. Ma se la ricetta economica sembra dare buoni risultati, è tutto il resto che manca. Dalla vita culturale a quella democratica. “Il valore critico dell’arte non è più apprezzato e possiamo solo sperare che cambi quando non ci sarà più l’attuale primo ministro. È sempre stato un problema, dopo il fatidico 1989, riconoscere il ruolo degli intellettuali e degli artisti”, spiega il collettivo Pneuma Szöv. Quella funzione del sapere come surrogato della libertà che per il socialismo reale era di importanza fondamentale. Come lo era, nei paesi dell’Est, l’amore per la cultura, la letteratura e la musica. “Negli anni Novanta si chiedeva di fare ‘arte secondo i modelli occidentali’ e la domanda ha spinto molti ad accettare forme di creatività senza riflettere con attenzione sulle proprie condizioni lavorative, che non erano autentiche”, proseguono. “Budapest non è da meno. Non è facile trovare finanziamenti pubblici e spesso gli artisti cercano fondi in modo alternativo, per esempio attraverso l’imprenditoria sociale. Eppure non manca chi si oppone al premier e chi rivendica quanto l’arte sia essenziale per immaginare modi di vivere diversi dai soliti e creare comunità”, aggiungono le due attiviste.

Oggi l’esecutivo del primo ministro non incontra ostacoli che ne mettano a rischio la sopravvivenza. Fidesz gode della maggioranza parlamentare, i due terzi dei seggi raggiunti grazie all’alleanza con i cristiano-democratici del Kdnp, ed è popolare nelle aree rurali del paese. Uno scenario che può suggerire un elettorato ungherese intenzionato a proseguire con la politica dell’uomo forte, fedele al suo programma sovranista e conservatore. L’Unione Europea ha più volte ripreso Orbàn, accusandolo di essere autoritario, limitare la libertà dei mezzi di comunicazione e attuare una gestione illiberale della cosa pubblica. Sono molti a sostenere come, dopo la caduta del Muro di Berlino, l’Ungheria non abbia mai vissuto un autentico percorso democratico perché è passata in modo repentino dal partito unico a un sistema pluripartitico, che non c’era mai stato nella sua storia nazionale, caratterizzata dall’assenza dell’esperienza della democrazia partecipativa.

Il concetto di democratia nel paese sembra essere diventato espressione del programma di un solo partito e della politica di un unico soggetto. Fidesz è riuscito a sfruttare il malcontento per il centrosinistra tenendo uniti gli ambienti di destra, e i suoi sostenitori, legandoli a un concetto di partecipazione funzionale ai suoi interessi politici. Ora, non ci saranno elezioni legislative fino al 2022 ma alle elezioni locali il partito dell’esecutivo non ha sorriso. Orbàn ha perso Budapest, dove ha ottenuto un risultato poco incoraggiante per il suo movimento autoritario. “La sua sconfitta è stata un cambiamento significativo. I cittadini ungheresi possono vedere realmente un’alternativa al partito del premier”, affermano le due artiste di Pneuma Soz. “Certo, quanto verrà in futuro dipende dalle capacità dell’opposizione. Però stiamo vivendo la sensazione di poter respirare di nuovo”.

Marta Facchini

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