Perché accettò quella rielezione
che davvero non voleva

È stato il primo presidente della Repubblica a essere rieletto per un secondo mandato, come tutti hanno ricordato. Eppure davvero non voleva. Era stanco proprio perché i poteri “a fisarmonica” del Quirinale (copyright di Giuliano Amato) si erano sovraccaricati di compiti nella spaventosa emergenza del 2011, quando Napolitano aveva inventato una sorprendente soluzione con il governo Monti, preparato con la sua nomina a senatore a vita, e poi con l’incarico, cosa che riuscì a evitare il precipizio di una crisi con lo spread sopra i 500. Tanto buona era e necessaria la soluzione che fu approvata anche dal partito del Cavaliere, il quale dovette rassegnarsi e riconoscere il fallimento del suo governo. Chi sostiene la teoria del complotto si può andare a vedere la cronologia degli eventi. Che ci fosse poi bisogno di un complotto per screditare la figura di Berlusconi come capo di governo e statista capace di pilotare il paese durante quella crisi lo può pensare soltanto chi era rinchiuso nella bolla propagandistica dei suoi telegiornali. Le responsabilità del presidente della Repubblica in Italia crescono quando la crisi politica si avvita nella paralisi dei veti incrociati, dell’inconcludenza, dell’”irresponsabilità” dei partiti, avrebbe poi detto lo stesso Napolitano, nello stizzito (alla sua maniera) discorso con cui avrebbe accettato la seconda elezione. Insomma il ritmo di lavoro aveva già superato (e minacciava di peggiorare) il livello che ragionevolmente si poteva chiedere a una persona dopo gli ottant’anni. E alla fine del 2012, entrati nel semestre bianco, il capo dello Stato aveva superato gli 87. L’inconcludenza dei partiti si manifestava chiara alla vigilia della scadenza del mandato.

Fu così che chi vi scrive, per Reset, insieme a Mondoperaio (allora diretto da Gigi Covatta) e alla Fondazione Socialismo (Gennaro Acquaviva) pensammo bene di stendere un documento, in cui si perorava la rielezione di Napolitano. Speravamo di raccogliere adesioni tra i parlamentari; e la cosa andava avanti abbastanza bene. A insaputa del presidente, certo. L’appello avrebbe dovuto uscire nel momento opportuno e catturare consensi oltre che – si sperava – convincere lo stesso candidato, di cui conoscevamo la sincera e motivata avversione all’idea. L’idea però fu bruciata e spazzata via, con mesi di anticipo, dall’iniziativa di un giornalista, Tommaso Labate, che su un neonato quotidiano, Pubblico che visse una sola stagione (ora lavora al più solido Corriere), scoprì la cosa e ne fece un titolone, rovinandola. La reazione di Napolitano fu fulminante; nel gelido comunicato che ne seguì il presidente si manifestava non solo “indisponibile” ma anche “contrariato”, un aggettivo che nel suo repertorio significava molto, ma molto, seccato (e forse anche desideroso di punirci), perché il fuoco amico era peggiore di quello degli avversari e poteva accreditare l’idea che lui desiderasse restare. Non poteva immaginare che la catena delle “irresponsabilità” avrebbe raggiunto nuovi devastanti livelli con le bocciature di Marini e soprattutto di Prodi con i famosi centouno franchi tiratori. E che l’impasse lo avrebbe costretto ad accettare, dando per così dire ragione alla nostra richiesta, che era una speranza e si rivelò una previsione fortunata. A cose fatte, si può dire che non fummo altro che mosche cocchiere degli eventi.

Ma questa pagina della biografia di Giorgio Napolitano è l’ultima di una lunga vita, che lo ha visto dirigente di primo piano del Pci, protagonista della svolta dell’’89, poi del Pds e del Pd, parlamentare europeo, presidente della Camera, ministro degli Interni, ruoli diversi in tempi diversi, anche molto lontani tra loro, che ha interpretato sempre con la pratica del dialogo democratico tra le parti e nel rifiuto netto di atteggiamenti partigiani. Credo che l’uso del concetto di “settarismo” come marchio negativo ne abbia fatto una delle parole più usate nel corso della sua vita di oratore rigoroso, che non improvvisava mai ma preparava con cura meticolosa le sue parole. Da giovane giornalista dell’Unità, ricordo che ai comitati centrali del Pci, i resoconti a volte laboriosi e fonti di contrasti con l’oratore, nel caso di Napolitano si risolvevano nel prendere dalle sue mani il testo per consegnarlo tale e quale in redazione. Rigore da insegnante severo e cultura grande, vale a dire non solo preparazione ma anche attive relazioni con gli intellettuali liberali europei e americani. Napolitano non solo aprì un varco politico, come primo dirigente del Pci a mettere piede negli Stati Uniti, ma coltivò intensi dialoghi ed amicizie nelle università.

Quando nell’’89, feci il mio primo giro da giornalista nei campus della East Coast per incontrare Amartya Sen o Robert Dahl, o quando incontravo a Londra Ralf Dahrendorf sentendomi pioniere che gettava ponti tra la sinistra italiana e la cultura liberale, mi sentivo dire che “era già passato Napolitano”, che aveva gettato molti suoi ponti insieme a Joseph La Palombara, diventato amico per il resto della sua vita. Erano aperture coraggiose, innovative della sua cultura e Napolitano amava collegarle a un impianto fondamentalmente “socialdemocratico”. Era questa la definizione che preferiva e di cui pur conosceva i costi nella sinistra italiana, per la sua impopolarità. Da notare che a lungo fu evitata anche dal Psi di Craxi. Il modello era la Spd che era passata, come si usava dire, da Bad Godesberg, e cioè dalla fine del rifiuto del sistema capitalistico, che avvenne con il congresso del 1959 in quella città termale, mentre il Labour Party arrivò a questo passo soltanto negli anni Novanta con Tony Blair. E anche la formula liberal-socialista, ispirata da Carlo Rosselli, poteva andare ma a condizione che non fosse uno stratagemma per evitare di pagare il tributo del riconoscimento della vittoria della socialdemocrazia sul comunismo. Napolitano era il leader dei “miglioristi” e come si sarebbe detto più avanti dei riformisti, o anche l’ala destra della sinistra, erede di Giorgio Amendola.

Ma avrebbe mai potuto diventare il segretario del Pci, oppure più tardi il numero uno dei partiti che ne sono discesi fondendosi con altre componenti, cattoliche, socialiste, repubblicane? La risposta a questa domanda è negativa per una ragione che era chiara anche a Napolitano. Non era questione di mancanza di coraggio, come in molti si è detto. Questo non gli mancava e ce ne voleva sempre molto per sostenere posizioni impopolari di fronte al mainstream della sinistra, come nel caso dell’abolizione della scala mobile o in anni più vicini a noi dell’articolo 18. Era invece questione di lucidità nel sapere che nel grande partito della sinistra – vedi la “legge di ferro” del partito socialdemocratico di Roberto Michels e della sua inevitabile tendenza oligarchica – la leadership poteva essere solo del centro, non dell’ala sinistra e non dell’ala destra, salvo sconvolgimenti che avrebbero destabilizzato l’intera struttura. Per questo Berlinguer e non lui. Per questo neppure Luciano Lama poté davvero pensare di prendere il comando del Pci. E tuttavia, grazie a non del tutto sondabili leggi di compensazione della storia, quello che non lo portò alla guida della sinistra lo avrebbe portato alla guida dello Stato. Le sue doti di equilibrio e mediazione, la sua cultura democratica, e sì, alla fine liberale, nonostante il contrasto con il suo lunghissimo passato di ex comunista, il suo rigore, anche nel descrivere sé stesso e la propria traiettoria nei suoi libri, e, ancora, la grandissima capacità di lavoro, e resistenza fisica, ne hanno fatto un uomo prezioso per il suo paese fino all’ultimo.

Credo che abbia ragione Paolo Pombeni quando scrive che abbiamo potuto beneficiare delle doti di chi “aveva vissuto una pluralità di stagioni di passaggio, perché queste davano una saggezza e una capacità di relativizzare che sono doti di fondamentale importanza per il vero uomo politico”. E alla fine dei conti “anche la generosità con cui si piegò ad essere rieletto per un secondo mandato, che non voleva, è testimonianza del suo appassionato tentativo di provare a favorire un riequilibrio del nostro sistema politico.”

 

Foto di copertina: Giorgio Napolitano in conferenza stampa al palazzo del Quirinale il 15 febbraio 2014 (foto di Filippo Monteforte/Afp).

Controcopertina: foto di Andreas Solaro/Afp.

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