Giorgio Napolitano, totus statista:
il ricordo del primo incontro 50 anni fa

Più che un totus politicus, come avevo definito Emanuele Macaluso, lo definirei una totus statista. Un uomo di Stato, nell’accezione classica che ne dava Cicerone: “Coloro che saranno responsabili dello Stato (res publicae), ricordino due precetti di Platone: il primo affinché perseguano l’utilità dei cittadini così che, dimentichi dei loro interessi, riconducano a quella qualsiasi cosa che fanno; il secondo affinché si occupino di tutto l’organismo dello Stato, in modo che, mentre (ne) curano una parte, non trascurino le altre”. Certo, è stato anche uomo di parte, anzi di partito. “Un uomo della Terza internazionale”, ebbe a definirlo, in una conversazione privata un suo stretto amico il giorno della sua elezione al Quirinale. Non solo per fatto generazionale, ma anche per disciplina, rigore, severità, moralità, abnegazione, convinzioni forti. Uno statista di sinistra. Ma all’antica, insofferente di populismi, retoriche e sinistrismi chiacchieroni ed esibiti. Soprattutto insofferente di sciatterie, pressapochismi. Di qualunque tipo e colore. Specie di quelli della sua parte. Insomma uno serio.

Non era amato da molti della sua parte, la sinistra. Ero rimasto un po’ sconcertato, infastidito da come era stato ricordato nelle tv. L’impressione era di una sorta di corsa ad appropriarsene, omologarlo a destra. Dagli stessi che sino a non molto fa lo tacciavano di “viltà” e “tradimento” (Giorgia Meloni, ad esempio, tanto per fare un solo nome). Quando Almirante si recò alle Botteghe Oscure a rendere omaggio a Berlinguer, era un’iniziativa politica e un segno di rispetto. Ora la cosa mi sapeva semmai di tentato scippo. Il funerale alla Camera ha smentito questa prima impressione. I volti più noti della destra erano lividi, annoiati, infastiditi. Guardavano fissi, o da un’altra parte, scarabocchiavano sui fogli, sembravano non vedere l’ora che la cerimonia finisse, di passare ad altro. Forse gli sembrava inconcepibile che ancora per mezza Italia non è uno scandalo ricordare che uno è stato comunista, mentre al contrario resta un marchio ricordare che uno è stato fascista.

Lo avevo conosciuto, a fine anni ‘60, alla Botteghe Oscure. Era stato Emilio Sereni a presentarmelo. “Ecco il giovanotto che alla stazione di Napoli lavava con la pompa gli scugnizzi che partivano per essere accolti da famiglie emiliane”. La presentazione, inaspettata, faceva a pugni con la figura alta, elegante, quasi aristocratica, in camicia immacolata e completo blu. Poi mi presentò un altro comunista napoletano: Gerardo Chiaromonte. “La mente più lucida che abbiamo”, mi disse. Napolitano in quel momento era il capogruppo Pci alla Camera. Il riferimento ai bambini lavati in stazione era a una delle iniziative umanitarie del Pci nell’immediato dopoguerra. Mirava a togliere dalle strade gli orfani scalzi, sporchi e affamati, che altrimenti sarebbero divenuti facile preda della delinquenza. “Quante ne combinarono… Alcuni misero incinte le figlie delle famiglie che li avevano accolti…”, aveva aggiunto Sereni. Non oso immaginare le reazioni se capitasse ai minori che oggi arrivano coi barconi!

Io avevo vent’anni, e un problema. Ero turco. Ma anche se vivevo da quasi due decenni in Italia, e mi sentivo italiano, era impossibile anche solo fare domanda di cittadinanza. Sereni mi voleva a lavorare con lui a Critica marxista. Ma con un permesso di soggiorno da rinnovare ogni anno, ad arbitrio totale della questura, a quei tempi sarebbe stato impossibile. Napolitano mi diede una mano a superare l’inghippo. Aveva già un approccio pratico, concreto, umano, privo di ideologismi, a un problema che poi si sarebbe ingigantito oltre ogni attesa: l’immigrazione.

Poi mi capitò di lavorare con lui. Nel frattempo era diventato responsabile della cultura. Ricordo la prima volta che mi invitò a cena a casa sua. Mi aveva accolto assieme a Clio. Poi lui mi accompagnò in un stanza a vedere “la meraviglia”. Era il figlioletto Giulio, appena nato. Mi colpì quanto fosse commosso, emozionato. Fu allora che scoprii che dietro l’apparente freddezza e distacco, c’era un cuore molto caldo, una gigantesca umanità.

Napolitano e Chiaromonte erano talenti, puledri di razza della politica, scoperti a Napoli da un talent scout d’eccezione, un altro “statista nato”: Giorgio Amendola. Un altro comunista della vecchia scuola, un altro che mangiava pane e politica. Fossero stati altri tempi, avrebbe fatto anche lui benissimo il Presidente della Repubblica. Non avrebbe potuto fare invece il segretario del Pci: metà del suo partito non lo amava, così come non ha amato Napolitano.

 

Erano uomini accomunati dal senso dello Stato. Erano abituati ad anteporre l’interesse della Res publica ai propri interessi personali, di carriera, e anche all’interesse della sola propria parte. Facevano politica nel senso che dice Papa Bergoglio: politica come “una delle più alte forme della carità, perché è servire il bene comune”. E non per niente Francesco ha rotto con ogni protocollo precedente recandosi al Senato a dare un ultimo saluto all’“amico” non credente. Abbiamo avuto in altri tempi, e certo non solo nel Pci, politici di una pasta speciale, che non si sarebbero mai sognati di giocare d’azzardo sulla pelle del Paese. Che so, di rischiare di portarlo al fallimento, di isolarlo, o di spaccarlo per racimolare consenso alla propria parte, o addirittura consenso personale, di arrischiare il bene comune per una briciola di potere in più, qualche voto in più.

Continuo a sentir dire che nel suo partito non fece mai battaglia fino in fondo. Non capisco. Che doveva fare? Rompere? Mancava alla lunga storia della sinistra un’ennesima scissione? Semmai, a lui e a tutti gli altri della vecchia guardia si può rivolgere il rimprovero di aver fatto poco per garantire la formazione di nuovi gruppi dirigenti degni di questo nome. No, non era tenero nelle battaglie interne, così come gli altri non furono teneri con lui. Ma a chi nasce per fare l’uomo di Stato vanno stretti gli abiti del capo-corrente. Ricordo una conversazione di molti decenni fa. Io non avevo ancora perso l’abitudine di fare il grillo parlante. Ero incurante di quanto potesse essere presuntuoso, irritante, e inutile. Gli dissi dei miei dubbi sul gruppo dirigente del Pci. Lui mi rispose che era troppo vecchio per occuparsi di cose tipo chi dovesse fare il capogruppo parlamentare, se D’Alema o Veltroni. Forse sbagliava lui. Ma la cosa che ancora mi sorprende è che stesse ad ascoltare anche uno come me, che non era nessuno. Un altro che stava ad ascoltarmi curioso, contro ogni ragionevole aspettativa, era Gerardo Chiaromonte. Considerava la politica “la scienza più difficile di tutte”. In una delle conversazioni di ritorno dalla Cina gli avevo detto che quello che allora si chiamava “socialismo reale” era una schifezza, da cui il Pci doveva staccarsi del tutto e subito. Non mi contraddisse. Mi rispose: “Ma così, ragazzo mio, tu resterai solo”.

Napolitano non sopportava il protagonismo ai fini di carriera, i fanatismi ideologici.  Meno ancora l’improvvisazione, la sciatteria, le fumisterie. Aveva invece un debole per gli intellettuali seri, del tutto indipendentemente dal se le loro opinioni coincidessero o meno con le sue. Gli economisti innanzitutto: da Luigi Spaventa a Franco Modigliani, Amartya Sen a Mario Monti e Mario Draghi. Non poteva concepire che un uomo di Stato potesse disinteressarsi o usare in modo strumentale la dismal science. Così come aveva un debole per gli storici, i costituzionalisti anche quelli con cui avrebbe poi dissentito come Stefano Rodotà e Sabino Cassese, e così via, ma anche per artisti e musicisti come Riccardo Muti.

Anna Finocchiaro ha ricordato il terrore che le suscitavano i suoi micidiali bigliettini vergati con calligrafia nitida e puntuta. Ho conservato un biglietto di Napolitano, in inchiostro stilografico blu, in cui mi rivolge un rimprovero severo. “Hai cercato il consenso di tutti. Ma ci sono cose su cui non si può fare. Lo dirò nelle mie conclusioni”. Era un riunione dei dirigenti sindacali e delle fabbriche della Lombardia. Avevo fatto l’introduzione. Alcuni condonavano, o addirittura simpatizzavano con posizioni operaiste, estremiste. Io avevo esagerato a cercare l’unità, a non rompere. Aveva ragione Napolitano. Ci sono cose su cui una forza politica responsabile non può transigere. Al diavolo la perdita di consensi. Non si mette a rischio la democrazia per qualche soldo in più in busta paga. Non si rischia che l’inflazione travolga tutto nel vano, illusorio tentativo di proteggere solo alcuni. C’era chi sottovalutava la presa che le Br e altri estremismi operaisti avevano in alcune fabbriche del Nord. Mancava un anno o giù di lì al rapimento Moro.

Io avevo deciso di abbandonare la politica di partito (non era il mio mestiere). Preferivo fare il giornalista. Lo dissi a Napolitano una volta che a Milano lo accompagnavo con la mia auto a prendere il treno. Lui mi rimproverò di nuovo. “Anche a me sarebbe piaciuto fare il giornalista, magari il corrispondente da Parigi o da Londra. Ma la politica è un servizio…”. Io scelsi la posizione più comoda. Che mi consentì per molti decenni di rovistare i guai e le magagne degli altri (Iran, Cina, America, Europa), anziché sudare, sporcarmi le mani a raddrizzare quelle di casa mia. Restammo amici lo stesso.

 

Immagine di copertina: l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un incontro a Roma il 20 giugno 2016 (foto di Tiziana Fabi/Afp).

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