Il comunista liberale
che leggeva Mann nel 1947

“A Giorgio, che non perde mai la calma nemmeno dinanzi all’Apocalisse”: conforta immaginare che quella dedica di Curzio Malaparte, autografata quasi settant’anni fa sulla copia di Kaputt ancora fresca di stampa, sia da ultimo tornata in mente a Napolitano come il sigillo prezioso alla sua lunga vita. Un viatico, forse… Omega e Alfa: il principio visto dalla fine.

Siamo a Capri. Nel suo diario segreto, alla data del 27 febbraio 1944 Malaparte appunta: “Alle 11 è venuto a trovarmi Giorgio Napolitano con Latitudine. Un giovane molto intelligente”. Ha solo 19 anni. Latitudine è l’effimera rivista di uno sparuto gruppo di gufini, giovani universitari fascisti in odore di fronda, che Giorgio, sfollato con la madre a Capri, deve recapitare al celebre scrittore che era stato amico di Bottai e Ciano, ma già pronto a seguire nuove bandiere. Forse inconsciamente Napolitano intravedeva negli sfrontati funambolismi ideologici di Malaparte una strada originale per diventare comunisti dopo essere stati fascisti.

Succede che in quei giorni si sia rifugiato a Capri anche Palmiro Togliatti per preparare il discorso che sancirà la “svolta di Salerno” al cinema Modernissimo di Napoli l’11 di aprile. Il giorno prima che nasca il nuovo Pci, con la scusa di fare una passeggiata, Togliatti si lascia condurre nella villa di Malaparte. Una vista mozzafiato sul Monacone e i Faraglioni. Napolitano assiste alla conversione dello scrittore sedotto dalla nuova via italiana al comunismo. E nel suo piccolo decide di farsi comunista pure lui. Un comunista speciale, a cui la storia ha riservato la missione paradossale di prendere il potere della nuova Italia postfascista conquistando il Quirinale senza bisogno di fare la rivoluzione. “Buscar el Levante por el Poniente”: la formula usata da Cristoforo Colombo per rappresentare il paradosso geografico che l’aveva portato in America funziona bene anche per spiegare il paradosso politico del comunismo togliattiano di Napolitano. Comincia così il suo cursus honorum dove l’auctoritas troverà sempre la sua legittimazione nella dignitas civile.

Al di là del sostantivo però, per definire Napolitano, è cruciale l’aggettivo: fu certo un comunista, un comunista togliattiano, amendoliano, liberale, socialdemocratico, di destra… Sempre in linea con il Partito: con l’Urss in Ungheria nel 1956, contro l’Urss in Cecoslovacchia nel 1968. Un “comunista di classe” era una battuta corrente sintesi fra il Capitale di Karl Marx con il Lato Debole di Camilla Cederna. “Comunista liberale alla napoletana”, come lo ha definito al momento dell’elezione al Quirinale lo scrittore amico e compagno fin dai tempi di Latitudine Raffaele La Capria, sul Mattino di Napoli.

Che un comunista avrebbe occupato il vertice delle istituzioni della Repubblica, sembrava impossibile fin dal 1948, quando la Dc aveva conquistato il monopolio del governo del paese lasciando al Pci il monopolio dell’opposizione. Che sia stato possibile per la caduta del Muro di Berlino non è così pacifico. Meglio allora cercare nello stile politico di Napolitano per capire come un comunista, figlio della prima Repubblica, arrivato al Quirinale in piena evoluzione e sommovimento della Seconda repubblica, sia riuscito a diventare il “barometro morale” di un clima politico attraversato da un diffuso senso di sfiduciato discredito. Per dire come “la politica racchiuda molta durezza, necessita, amoralità, molte expediency… ma non potrà mai… rinnegare completamente la parte etica e rispettabile della sua natura”, Napolitano cita Thomas Mann, che avrebbe letto fin dal 1947, quando era ancora un autore proibito a sinistra, o quasi, certamente inconsueto fra i militanti tipo del Pci.

Nella storia del Quirinale ci sono state diverse tipologie di esercizio del potere presidenziale: dal notaio Einaudi al politico Segni, dal popolare Gronchi al populista Pertini, dal moderato Saragat all’interventista Scalfaro al presidenzialista Ciampi, a Cossiga che ne ha impersonato più di una. A quale tipologia si può inscrivere Napolitano? Con lui il Quirinale sembra aver raggiunto il massimo del potere costituzionale possibile. Per molto meno Cossiga è stato costretto a difendersi da un possibile e affatto impensabile impeachment!

La pratica costituzionale di Napolitano è assolutamente inedita, innovativa per l’influenza che ha saputo dispiegare dentro le istituzioni, riformatrice per la forza con cui è riuscita a imporre i suoi poteri. Così, proprio lui che nell’autobiografia del 2005 – Dal Pci al socialismo europeo – lamentava un eccesso di personalizzazione della politica, ha finito per scalare le vette dei sondaggi d’opinione, unico leader nel Paese capace di ispirare fiducia nel sentimento pubblico in un tempo così attratto dall’antipolitica. Ricucendo lo strappo politico operato da Cossiga con la proposta mancata di una riforma costituzionale, Napolitano è riuscito a trasformare il Quirinale in un centro di potere dello Stato, capace di affrontare lo svolgersi degli eventi guidandone l’evoluzione attraverso una innovativa strategia della parola. È la strategia politica, per scegliere un esempio emblematico, con cui ha battuto le pulsioni antiunitarie della Lega e imposto al governo l’agenda politica per i festeggiamenti dei 150 anni di Italia unita del 17 marzo 2011. Altro che moral suasion!

L’effetto Quirinale, che fornisce al capo dello Stato, insieme alla carica, uno speciale carisma, trova piena realizzazione nella prassi quotidiana. Come se si fosse preparato da sempre, ovviamente senza mai confessarlo nemmeno a sé stesso, Napolitano amplia con misura e costanza il perimetro del potere della parola presidenziale: se Cossiga ha introdotto nella Costituzione materiale del Quirinale il concetto e la pratica dell’Esternazione, Napolitano la reinventa con l’uso sistematico del Monito. Una formula più aggraziata, meno invasiva, che assolve a priori il Quirinale dall’accusa di arrogarsi prerogative che non gli competono. Una geometria variabile che mette il Quirinale nelle condizioni di affermare nel Paese la sua politica, surrogando la debolezza degli altri poteri, soprattutto l’inadeguatezza di governo a Palazzo Chigi. C’è stato un momento in cui le voci di dentro della sinistra sembrava avessero individuato in lui, anticipando la fine del suo mandato, l’unico candidato capace di sconfiggere Berlusconi alle elezioni politiche. Un disegno a dir poco azzardato sul piano della civilizzazione politica, che comunque un qualche effetto lo ha prodotto visto che la sinistra si trovò poi nella necessità di costringere Napolitano a ritornare sul Colle per un secondo mandato.

Spetta adesso agli storici affrontare e sciogliere il paradigma politico dell’“ultimo comunista”, alla ricerca di una storia esemplare dell’Italia che sappia, al di là del perimetro della cronaca politica, raffigurare e tramandare l’aria del tempo che abbiamo attraversato.

 

Pasquale Chessa è giornalista e storico, ha scritto L’ultimo comunista. La presa del potere di Giorgio Napolitano (Chiare Lettere, 2013).

Immagine di copertina: Giorgio Napolitano, appena rieletto presidente della repubblica, durante il suo discorso di insediamento. A lato Laura Boldrini e Pietro Grasso. Roma, 22 aprile 2013 (crediti: Alberto Pizzoli/Afp).

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