Il Paese che ha smesso di aspettare

Se si volesse suddividere la recente storia dell’arcipelago indonesiano in fasi, potremmo dire che, dopo la liberazione dal dominio olandese a metà del secolo scorso, l’Indonesia ne ha conosciute fondamentalmente tre: l’epopea rivoluzionaria “non allineata” guidata da Sukarno e brutalmente interrotta dal colpo di stato del 1965; la fase di ordine, crescita ma anche di oscura dittatura degli anni del regime del generale Suharto, e infine l’attuale: la Reformasi, l’epoca di riforme – democratiche, economiche e del costume – che l’Indonesia sta ancora vivendo e che si è aperta con la fine della dittatura dell’Orde Baru (Ordine Nuovo) e la nascita di una democrazia che negli anni si è consolidata mettendo mano a interventi importanti nella struttura istituzionale, economica e culturale di questo grande Paese.

Se volessimo tracciare un bilancio di questo mezzo secolo di storia, dalla metà degli anni Novanta a questo primo spicchio di XXI secolo, il risultato non potrebbe essere che positivo e con prospettive future interessanti. Non di meno qualche ombra ancora grava soprattutto per quel che riguarda i conti con la propria memoria e soprattutto con quell’oscura fase che, nella metà degli anni Sessanta, doveva gettare l’arcipelago nelle braccia di una dittatura pesante e apparentemente impossibile da sconfiggere, nata da una repressione brutale delle forze della sinistra locale e da avvenimenti gravi e dolorosi sui quali ancora non vi è stato un esercizio di revisione che li possa finalmente archiviare restituendo dignità alle vittime e alle loro famiglie. Una fase durata 32 anni.

L’Indonesia è il quarto Paese più popoloso del pianeta e il primo Paese al mondo per numero di musulmani. Gli indonesiani chiamano questa nazione insulare tanah air kita, ossia la “nostra terra d’acqua”, con un’evidente richiamo a una realtà dispersa territorialmente in oltre 16mila isole su molte delle quali (per quasi due terzi sono disabitate) è ancora in corso un lavoro, sia geografico sia di ricerca storica, che ne definisca esattamente posizione e identità. Giava, l’isola più popolosa e più ricca di tradizioni, è sempre stata il motore propulsore di questo grande Paese e ancora oggi gioca un ruolo chiave nell’economia e nell’architettura istituzionale di un pianeta così variegato da comprendere centinaia di lingue, comunità e tradizioni assai diverse. Ma di questa diversità l’Indonesia è sempre stata cosciente tanto da farne un elemento importante della sua difficile geometria amministrativa e la chiave di volta di una convivenza che, oltre che nel Pancasila (i cinque principi alla base della Costituzione), si ritrova nel motto nazionale: “Unità nella diversità”. Un motto che non è solo uno slogan ma il segno di uno sforzo, non del tutto concluso, per trovare un denominatore comune alle molte anime del Paese e ridimensionare la centralità di Giava. Un’unità che può rifarsi alla memoria di vasti regni insulari come quello di Srivijaya (comprendeva Sumatra, la penisola malese e una parte di Giava) o all’estensione della dominazione coloniale, o ancora all’elemento unificante dell’islam (che non è però la religione di Stato) al netto di una forte identità delle singole isole o di parte di esse e della presenza di caratteristiche linguistiche, etniche, religiose, tradizionali e persino agricole completamente diverse: dalla civiltà della risaia inondata a Giava e Bali al mondo della palma sagu nell’estremo oriente indonesiano. E così, sotto il profilo culturale, dal teatro delle ombre giavanese alle immaginifiche architetture dei Batak sumatrani, ai differenti culti dei morti e degli antenati. Una vastità di elementi culturali così diversi e affascinanti che fanno sempre di più di questo Paese un’attrazione turistica importante, decisivo motore della sua economia; motore di sviluppo ma a volte anche elemento di disgregazione ambientale (il caso di Bali) o elemento paradigmatico della sempre difficile convivenza tra influssi esterni e realtà locali.

Con oltre 250 milioni di abitanti su quasi due milioni di terre emerse, il crogiolo indonesiano è sempre stato forzatamente un laboratorio di convivenza tra anime differenti, rese ancora più lontane dalla presenza del mare, un elemento che spesso unisce ma che assai più spesso divide. Una convivenza che non ha un passato indenne da forme di violenza e da spinte identitarie spesso sostenute e sfruttate a fini politici dalle forze politiche soprattutto giavanesi, le più articolate e quelle al centro della macchina del potere statale. Decentramento e gestione del potere locale e nazionale restano ancora problemi sui quali il lavoro sembra non terminare mai ma con una realtà in rapido movimento che sembra sempre più in grado di articolare la costruzione nazionale tenendo conto delle diversità e cercando di far fronte alle spinte centrifughe: un fatto endemico  in un mondo insulare e un problema comune – oggi – all’intero pianeta, dalla Catalogna alla piccola nazione di Timor, nata agli inizi di questo secolo dopo sanguinosi anni di resistenza all’invasione dei soldati inviati da Giava.

Ma la stagione dei grandi conflitti interni, che hanno marcato soprattutto gli anni della dittatura di Suharto da Timor all’Irian Jaya, dalle Molucche ad Aceh, sembra ormai alle spalle e proprio la nascita di Timor indipendente, ex enclave portoghese, fu il segnale importante degli effetti positivi dell’avvento di una democrazia che stava cambiando anche il rapporto tra centro e periferia. L’estremismo islamico è stata la vera emergenza recente ma, a parte casi sempre più sporadici benché molto violenti (come nel caso dell’attacco dello Stato islamico nel cuore di Giacarta nel gennaio 2016), il Paese sembra essere riuscito a contenere un fenomeno che aveva segnalato il suo ingresso nello scenario indonesiano con l’attentato di Bali del 2002 e il rafforzamento della Jemaah Islamiyah, organizzazione filoqaedista (e in parte filo Stato islamico) ancora presente ma fortemente ridimensionata. Fenomeno complesso e spiegabile anche con la manipolazione dei movimenti radicali da parte di servizi deviati o da colpi di coda dei nostalgici della dittatura, attivi sostenitori di gruppi radicali e di gang di preman (criminalità organizzata locale). Le grandi organizzazioni islamiche del Paese, ben radicate nella società civile e capaci di avere rispetto per il  variegato mondo spirituale locale (comprese forme diffusissime di animismo e correnti tradizionali fortissime come quella del misticismo giavanese), sembrano aver saputo gestire questa emergenza dimostrando ancora una volta la capacità di far convivere espressioni religiose diverse, disinnescando anche potenziali scontri interni tra modernisti e tradizionalisti, tra Stato laico e organizzazioni religiose. Non si può negare che un problema esista né che l’Indonesia non stia conoscendo una sorta di revivalismo islamico (un’inchiesta del New York Times sostiene che dei sei milioni di giovani indonesiani che frequentano l’università, il 20% si laurea in teologia in un Paese che soffre di una mancanza cronica di tecnici specializzati) ma la forza di un Paese sta nella capacità di comprendere e controllare, pacificamente, spinte e suggestioni che, quando non prendano strade violente e clandestine, possono anche risolversi in uno stimolo. E dunque persino in esempio virtuoso di convivenza.

L’epoca della Reformasi ancora in corso è dunque quella in cui il Paese ha dovuto fare i conti, ancora aperti, sia con il problema delle spinte radicali (fenomeno forse ormai persino residuale ma sempre sintomo di un malessere); con quello delle sfide poste dalla crescita economica (McKinsey stimava nel  2012 che l’Indonesia potesse diventare entro il 2030 la settima potenza economica mondiale a condizione di uno sforzo nella qualificazione della forza lavoro in un Paese che ha 57 milioni di lavoratori formati ma che entro il 2030 dovrebbe averne almeno 113  e che ha solo il 10% della sua forza lavoro laureata); con il problema, a lungo ignorato, di una distribuzione più equa della ricchezza e con un’estensione del welfare cui il presidente Jokowi ha messo mano in un paesaggio economico segnato da disparità enormi e da una distanza delle periferie dal centro che spesso è stata  sintomo di abbandono, di servizi sanitari e scolastici inesistenti, di dipendenza dai grandi conglomerati con sede a Giava. Se non è oro tutto quel che luccica, si può ben dire però che la sfida della Reformasi ha più luci che ombre ed è alla fine la dimostrazione di un coraggio politico, non solo basato su una crescita del Pil e sulla capacità di far fronte alla gravissima crisi finanziaria della fine degli anni Novanta, ma anche su una capacità negoziale con Paesi vicini e lontani che ha visto ridimensionare la sua dipendenza dagli Stati Uniti, per anni faro economico (e diplomatico) del Paese.

Oggi l’Indonesia è un partner economico importante anche per Cina, Giappone e altri Paesi della regione e un protagonista fondamentale dell’area con una presenza significativa nei consessi internazionali e un ruolo chiave nell’Associazione dei Paesi del Sudest asiatico (Asean). Il “giovane” Paese nato dall’indipendenza nel 1949 è ormai un adulto che cammina saldamente sulle sue gambe.

Le ombre restano tante e le sfide da vincere non mancano. A quelle economiche e sociali abbiamo accennato e così ai conti in sospeso con la memoria di un golpe militare costato almeno 500mila morti e una ferita non ancora rimarginata che il Paese fatica ad affrontare come prova, ad esempio, il divieto della circolazione di un documentario come The Act of Killing, un film di Joshua Oppenheimer (2012) proprio sulla memoria di quelle stragi. Ma, se per citare un fortunato libro di Adam Shwarz del 1999 (un anno dopo la caduta di Suharto), l’Indonesia era alla fine del secolo scorso A Nation in Waiting, oggi forse questa attesa è terminata. La strada per liberarsi anche delle ombre del passato è probabilmente meno in salita di quanto si possa pensare.

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