Cooperative e cittadini, futuro riformista

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In agosto (mese sempre meno “vacanziero” anche dal punto di vista delle notizie importanti), il presidente di Legacoop Emilia-Romagna, Paolo Cattabiani, ha rilasciato un’intervista a Dario Di Vico, apparsa sul Corriere della Sera, che ha innescato un bel dibattito. Una discussione molto interessante anche per chi si occupa dei futuri programmi e contenuti di una sinistra (autenticamente) riformista.

Cattabiani, infatti, lanciava due idee-cardine, quella di una grande “mutua dei cittadini”, integrativa del Servizio sanitario nazionale e in grado di fornire prestazioni e prodotti a prezzo controllato e quella dell’attivazione di cooperative di utenti in grado di operare nei paesi di montagna dove chiudono gli uffici postali. Ovvero, due esempi idealtipici di mutualismo.

Cooperazione e mutualismo è un’accoppiata che ha ancora parecchie cose da dire al pensiero progressista, spesso in affanno, di questa nostra epoca postmoderna (o, forse, più appropriatamente, ormai post-postmoderna).
Ne abbiamo parlato con Cattabiani.

Presidente Cattabiani, in cosa consiste questo rilancio dell’idea mutualistica che ha una storia così lunga (e gloriosa), ma sembrava essere passata alquanto in cavalleria?

In verità, si tratta di un’idea ancora, anzi ancor più oggi, di attualità. Noi vogliamo organizzare una intesa volontaria che sia complementare, e non sostitutiva, del welfare pubblico. Questo è un punto importante (e per noi qualificante), che va sottolineato fortemente. L’idea di fondo che anima questa iniziativa consiste nel “mettersi in mezzo” tra il mercato e lo Stato; cosa che, dal punto di vista del movimento cooperativo, significa chiaramente non solo organizzare l’offerta, ma anche cercare di dare una forma adeguata alla domanda di utenza.

Tale “ritorno alle origini” nasce, indubbiamente, anche dalla volontà di “mettersi in mezzo” (per usare un’espressione di Aldo Bonomi), non lasciando le persone sole con uno Stato che non appare più in grado di organizzare i bisogni dalla culla sino alla fine come accadeva in passato. Per questo stiamo rilanciando anche l’idea delle cooperative di comunità, che non vanno ricondotte alla nozione di “piccolo è bello”, ma vanno intese come recupero di una filosofia che ha ispirato la genesi stessa del cooperativismo (in più, se ci pensiamo con un po’ di attenzione, la “logica della comunità” è applicabile su qualunque scala urbana, in fondo persino la stessa New York è pensabile come un insieme di comunità).

Noi non intendiamo svolgere una supplenza rispetto alla politica, ma nei riguardi della mano pubblica e dello Stato. La storia della Legacoop, infatti, è da almeno un ventennio – è bene ribadirlo – una storia di autonomia e indipendenza. I partiti i voti se li devono meritare e cercare, ed è ampiamente finita la stagione del collateralismo e delle cinghie di trasmissione. L’autonomia non significa autosufficienza o separazione rispetto alla politica, una visione lontana dalle nostre intenzioni, bensì un lavoro e scelte indipendenti, che, beninteso, vogliono confrontarsi con la politica, ma da posizioni proprie. E, infatti, non è un caso che, da qualche tempo, la Legacoop si sia data delle norme per la selezione dei gruppi dirigenti. L’ACI (Alleanza delle Cooperative Italiane) rappresenta il riconoscimento di questi mutamenti; e quindi va molto apprezzato lo sforzo di realizzarla da parte dei presidenti delle tre centrali cooperative (e, nel nostro caso, del presidente Giuliano Poletti).

Quindi, c’è una riflessione da parte vostra sui bisogni emergenti e che cambiano.

Il bisogno, ancora ai nostri giorni e forse ancor più, viste le mutazioni delle istituzioni pubbliche, si incontra con la forma cooperativa. Il nostro compito è quello di declinarlo anche all’insegna dei parametri di impresa – non appartengo al mondo eccessivamente romantico di coloro che pensano che le coop possano permettersi di agire indipendentemente dal mercato – e di dare così forma al mutualismo nei termini di una modalità alta di solidarietà capace, altresì, di responsabilizzare i soggetti. È così che la cooperazione riesce a tenere insieme le persone.

Si diffondono nuovi bisogni, ma la prima emergenza ha, purtroppo, un sapore antico, perché è quella del lavoro. Nel corso di questi quaranta mesi di crisi abbiamo operato con forza, e la nostra struttura societaria ci ha permesso di fronteggiare l’emergenza e di tenere meglio di altre formule imprenditoriali.

La cooperazione, e non voglio fare della retorica, è anche educazione civica. Se, difatti, l’azienda appartiene alle generazioni, esiste indiscutibilmente un senso maggiore di responsabilità, e l’attenzione non verte esclusivamente sul consolidato patrimoniale. Ma anche su quello che potremmo chiamare il “consolidato valoriale”. E al movimento cooperativo servono entrambe le dimensioni, l’efficienza aziendale ma anche i valori.

In tutto questo che ruolo dovrebbe avere la politica, se lo Stato si ritira?

L’idea che la politica rappresenti unicamente un costo (certo, beninteso, gli eccessi esistono, e vanno neutralizzati) è decisamente pericolosa. E pensare che solo chi dispone di risorse proprie possa farla è un’idea precisamente contraria a quella della cooperazione.

Anche noi facciamo politica, nel senso buono e alto dell’occuparci delle questioni collettiva. E per farlo oggi bisogna, tra le priorità fondamentali, poter contare su gruppi dirigenti all’altezza delle sfide che ci si pongono davanti. Pertanto, guardando in casa nostra, abbiamo bisogno di investire su di una nuova leva di dirigenti cooperativi. I padri fondatori della stagione del secondo dopoguerra (dotati di bassa scolarizzazione, ma di grande visione strategica e carica ideale) avevano rilanciato con forza il movimento cooperativo dopo gli anni del totalitarismo. Poi è venuta, dopo di loro, una leva di dirigenti in possesso di diplomi e lauree. Ora va portato a termine tale processo di cambiamento, e occorrono dirigenti con alte specializzazioni, ma con l’iniezioni di un adeguato bagaglio valoriale e ideale. Il rinnovamento va dunque completato. E l’esperienza di Generazioni (il network di dirigenti, soci e dipendenti giovani di coop dell’Emilia-Romagna) rappresenta proprio un segnale in tale direzione e, al tempo stesso, la “spia”, per così dire, delle difficoltà che ancora abbiamo sotto questo profilo. Produrre il ricambio è fondamentale, perché innesca una modificazione di fondo e di carattere più generale (anche nelle stesse regole di funzionamento delle nostre strutture), naturalmente tributando il giusto riconoscimento a chi ha svolto ruoli di direzione fino a oggi.

C’è chi dice che crescendo finite per snaturare il dna cooperativo?

Pensare che una coop sia tale solo se rimane di piccole dimensioni è decisamente sbagliato. Essere piccoli, ricordiamolo, rappresenta spesso una condizione, e non l’effetto di una scelta deliberata. Basti citare, al riguardo, alle Famiglie cooperative trentine, che costituiscono delle esperienze identitarie straordinarie, ma non potrebbero contare, nei loro spacci e negozi, su quei prezzi se non aderissero a Coop Italia, che unisce le nove grandi cooperative di distribuzione italiane. Le Famiglie trentine sono consorziate in Sait (Consorzio delle cooperative di consumo trentine) che aderisce a Coop Italia. Al crescere delle dimensioni nascono indubbiamente anche problemi e contraddizioni, ma si tratta di una dinamica irrinunciabile.

Qual è il tipo di mercato che vorrebbe la cooperazione?

Nel secolo scorso il compromesso tra capitalismo manifatturiero e Stato e democrazia – ne ha scritto anche la filosofa Nadia Urbinati – ha prodotto risultati formidabili. Se la finanza procede con la linea di condotta di questi ultimi decenni di neoliberismo, diventa ancora più indispensabile puntellare e rilanciare il mutualismo.

Noi non siamo un’alternativa al mercato. Vorremmo – e la nostra direzione di marcia tenta di supplire alle carenze in tal senso – che ci fossero regole in grado di premiare maggiormente quelli più bravi e di assicurare maggiore trasparenza. In buona sostanza, servirebbe più etica. D’altronde, se ci pensiamo bene, alle spalle, e all’origine, di questi oltre 40 mesi di crisi, c’è anche, in maniera marcata, una caduta di tensione morale nei soggetti dell’economia. E visto che l’etica prevede forme di adesione strettamente individuali, i problemi rischiano di non finire. Di qui, l’opportunità e l’esigenza di un intervento della mano pubblica che premi maggiormente i comportamenti virtuosi nella vita economica.

Ecco, mi piacerebbe stare all’interno di un mercato nel quale gli attori fanno tutti la propria parte; innanzitutto perché un mercato di questo genere, un mercato trasparente, seleziona gruppi dirigenti trasparenti. Ed è ciò di cui abbiamo un estremo bisogno in questa fase.

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