Machiavelli radicale

C’è stato un periodo, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, in cui sul nome e nel nome di Machiavelli si combattevano imponenti battaglie ideologiche e ogni minima scoperta erudita o filologica a proposito del fiorentino sembrava avere ricadute decisive sul presente. In particolare, nell’Italia della guerra fredda, prendere posizione sul Principe o sui Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio voleva dire automaticamente schierarsi: con Benedetto Croce e la separazione tra politica e morale (i liberali), o con Antonio Gramsci e il suo «moderno principe», ovvero il partito di massa (i comunisti).

Per circa un quarto di secolo tutto questo, almeno in Italia, è sembrato appartenere a un’età rivolta, contando grosso modo dall’inizio degli anni Ottanta. Libri su Machiavelli naturalmente hanno continuato a uscirne, ma della passione militante che ispirava le controversie di un tempo sembra essersi persa ogni traccia. E non è un caso che, da noi, i maggiori risultati di questa stagione siano probabilmente legati ad alcune edizioni di particolare pregio.

Eppure, non appena usciamo dai confini nazionali, ecco che il Principe e i Discorsi ricominciano ad accendere passioni e ripulse, come se qualsiasi ragionamento sui principali concetti della filosofia politica (utile e onesto, educazione, impiego della violenza, interesse privato e bene pubblico, fede religiosa e coesione civica, bilanciamento dei poteri, libertà…) non potesse prescindere dal confronto, magari antagonistico, con queste opere. Se insomma in Italia Machiavelli è diventato un oggetto storiografico “freddo”, all’estero e soprattutto nell’area anglosassone la sua figura sembra ancora in grado di ispirare la filosofia contemporanea e polarizzare i diversi pensatori.

Nel dibattito attuale il primo dei due contendenti risponde al nome di “scuola di Cambridge” ed è associato soprattutto alle figure di John G.A. Pocock e Quentin Skinner, ai quali si deve la più organica sistematizzazione degli sforzi della critica novecentesca per liberare definitivamente Machiavelli dalla sua leggenda nera valorizzando il repubblicanesimo dei Discorsi a scapito del più noto (ma anche più “occasionale”) Principe. La tesi fondamentale di Pocock, espressa ne Il momento machiavelliano (uno dei saggi di teoria politica più influenti della seconda metà del secolo), è che, proprio grazie ai Discorsi, il repubblicanesimo classico di Aristotele e Cicerone sarebbe giunto prima alla rivoluzione inglese e poi alla rivoluzione americana. Al momento della pubblicazione, nel 1975, il libro possedeva una precisa valenza polemica, non immemore della lezione di Hanna Arendt sul valore della vita activa: se il fine della politica è la virtù ed essa si nutre della partecipazione dei cittadini, bisogna riconoscere che l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, con le loro masse spoliticizzate, hanno tradito la missione che Thomas Jefferson e John Adams (due grandi ammiratori dei Discorsi) avevano assegnato loro. Da accusato, l’“immorale” Machiavelli diventava così il principale accusatore delle miserie del nostro tempo.

Negli anni successivi questa interpretazione ha conosciuto un crescente favore, anche grazie all’opera di Skinner che ha riformulato la tesi di Pocock spogliandola dei suoi elementi più radicali di critica al presente. Nel corso degli anni Skinner ha sostenuto per esempio che la tradizione neo-romana di Machiavelli si fonderebbe su una concezione della libertà diversa tanto da quella degli antichi greci quanto da quella dei liberali moderni. Sostanzialmente, il repubblicanesimo di Machiavelli non elogerebbe la partecipazione in quanto tale (come fa Aristotele) ma come antidoto contro la tirannide: se non ci si preoccupa del bene comune, questo verrà inevitabilmente distrutto dai prepotenti. In tale prospettiva la politica andrebbe considerata la volontaria condanna degli uomini liberi piuttosto che la loro compiuta realizzazione e le democrazie moderne potrebbero essere incolpate tutt’al più di una certa tiepidezza ma non di aver sbagliato strada.

A torto o a ragione, negli anni Novanta simpatie per il repubblicanesimo di Pocock e Skinner sono state attribuite a più di un membro delle amministrazioni di Bill Clinton e di Tony Blair, nonché ad alcuni leader dell’Europa continentale come Romano Prodi e Jacques Delors. Non è nemmeno troppo strano allora che l’attacco alla scuola di Cambridge sia stato portato da un gruppo di studiosi che in vario modo si richiamano alla filosofia di Leo Strauss, il pensatore ebreo tedesco naturalizzato americano che è stato anche l’ispiratore e spesso il mentore dei Neo-Con statunitensi, compresi alcuni dei principali collaboratori di George Bush figlio come Paul Wolfowitz. Sin dagli anni Cinquanta Strauss aveva tratteggiato un’immagine a tinte fosche del fiorentino, indicato come il fondatore della teoria politica moderna in quanto colui che avrebbe sostituito alla ragione la fortuna, alla virtù la forza, all’ammirazione per i saggi uno sfrenato populismo, all’educazione la paura, alla libera scelta l’impero della cruda necessità. I suoi seguaci contemporanei muovono appunto da qui. Se da una prospettiva europea continentale, la cesura proposta da Strauss appare abbastanza scontata e quasi manualistica (già Hegel avrebbe sottoscritto che la fine del pensiero politico classico coincide con le opere del fiorentino), così non è per la storiografia anglosassone, dove la modernità politica veniva fatta coincidere piuttosto con la tradizione del liberalismo, da Hobbes in poi. Mentre per la scuola di Cambridge c’è una modernità di Machiavelli (repubblicana) e una modernità di Hobbes (liberale), agli straussiani preme invece affrancare il primo da qualsiasi influsso della tradizione politica greco-romana. Dal momento, infatti, che i regicidi inglesi del Seicento si sono esplicitamente richiamati ai Discorsi, è ovvio che in base al giudizio che daremo di quest’opera Cromwell & C. appariranno necessariamente una delle ultime incarnazioni dei valori della polis o il primo baluginio di una nuova forma di prudenza politica. Una questione cruciale, perché a seconda della risposta anche il nostro presente dovrà essere giudicato un tradimento o la compiuta realizzazione dei principi ispiratori delle grandi rivoluzioni da cui esso ha avuto origine.

Anche se di tutto questo dibattito in Italia è giunta scarsa eco, tra il 2004 e il 2008 la sola Cambridge University Press ha pubblicato non meno di cinque libri su un tema apparentemente così specialistico, a riprova di quanto nel mondo anglosassone la questione appaia attuale e scottante. Per quanto possa apparirci strano, che il metro con cui valutare i successi e gli insuccessi di un Occidente opulento ma politicamente apatico debba essere l’incremento del PIL o la virtù dei cittadini dipende anche dal modo di leggere un passo del Principe o dei Discorsi.

Per trent’anni, così, il dibattito su Machiavelli è girato attorno al conflitto tra un paradigma apertamente reazionario (Leo Strauss e allievi) e un paradisma moderato (la scuola di Cambridge). Si è trattato in altre parole del conflitto tra un Machiavelli demoniaco e un Machiavelli rassicurante, persino troppo rassicurante: difensore del «vivere civile» contro la tirannide; civil servant del comune di Firenze; amante della filosofia degli antichi come tanti umanisti del suo tempo; apologeta di una «terza libertà», non impegnativa come la libertà degli antichi (la «libertà positiva» di fare qualcosa), ma nemmeno limitata come la libertà dei moderni, da Hobbes in poi (la «libertà negativa» dagli impedimenti esterni).

Nell’inflazione dei titoli, le ultime scaramucce denunciano una certa stanchezza, come se a poco a poco gli argomenti degli uni e degli altri fossero diventati ormai scontati, persino prevedibili. La sensazione prevalente è che si sia giunti alla fine di un ciclo. La proposta degli studiosi di Cambridge ha avuto sicuramente il merito di contribuire a riscattare il segretario fiorentino dalla leggenda nera dell’antimachiavellismo (ancora ravvisabile nella scuola di Leo Strauss) e di mettere in luce l’importanza della sua opera nella riflessione politica della Rivoluzione inglese e della Rivoluzione americana; allo stesso tempo, però, ha finito per cancellare le ragioni dello scandalo che per secoli hanno fatto del Principe e dei Discorsi due testi tabù del pensiero europeo non soltanto per i numerosi propositi anti-religiosi che li percorrono. Dopo tutto, se Machiavelli fosse davvero quello che dicono gli specialisti della così detta «scuola di Cambridge», difficilmente lo distingueremmo da un Leonardo Bruni o da un Mattero Palmieri. I conti, insomma, non tornano, e diversi studiosi hanno cominciato a dimostrarlo con abbondanza di prove.

Sin dal suo primo apparire l’interpretazione di Pocock e di Skinner ha ricevuto molte critiche, soprattutto per una certa disinvoltura con cui accomuna testi e figure troppo distanti tra loro (basterà ricordare le tempestive censure di Cesare Vasoli, Carlo Dionisotti e Mark Hulliung); quello cui stiamo assistendo oggi si annuncia però piuttosto come un vero e proprio salto di paradigma. È possibile individuare almeno quattro punti attorno ai quali la nuova immagine di Machiavelli sta prendendo forma. C’è anzitutto il ruolo centrale del conflitto negli scritti del segretario fiorentino, che negli ultimi anni è stato al centro delle ricerche di Filippo Del Lucchese, John McCormick e di chi scrive. Al contrario di una tradizione classica che esaltava i benefici della concordia, Machiavelli non esita ad affermare la bontà dei tumulti regolati di Roma. La libertà nasce solo dal dissenso: al punto che i Romani avevano predisposto un’istituzione particolare, i tribuni della plebe, per suscitare periodicamente il conflitto (incanalandolo, allo stesso tempo, in forme non distruttive per la comunità). La competizione per le cariche, certo, favorisce la virtù dei cittadini, secondo un’idea che si trova anche nei filosofi antichi. Nel caso di Machiavelli però incontriamo una posizione ben altrimenti radicale: l’educazione e l’autocontrollo (cari agli aristocratici) sono inutili; nell’arena politica solo la minaccia garantisce che gli oppressi di ieri non si trasformino anch’essi negli oppressori di domani; l’unico ordine realmente stabile è quello che riesce a controbilanciare a vicenda le spinte egoistiche degli uomini, e soprattutto le mire dei più ricchi e influenti (un’idea che avrebbe ispirato la tesi della separazione dei poteri di Montesquieu). Istituzioni come i processi popolari e la leva militare avranno dunque lo scopo di contenere la voracità dei «grandi», che cercano di usurpare al popolo i suoi diritti fondamentali e che per questo vanno combattuti con una serie di provvedimenti ad hoc; mentre la possibilità di appellarsi a un dittatore legibus solutus dovrebbe assicurare un analogo effetto moralizzatore nei confronti degli «appetiti» del popolo (che però per Machiavelli rimangono in ogni caso «più onesti»).

Il secondo campo nel quale si concentrano le novità è l’economia, su cui lo scorso anno è uscito un libro di grande importanza di Jérémie Barthas. Machiavelli è stato considerato a lungo un teorico di un’economia di conquista e del primato della forza militare: come recita un capitolo del Principe, la potenza di uno Stato risiede anzitutto nelle sue armi. Ricerche recenti hanno però rivelato l’importanza della riflessione machiavelliana su temi sino a ieri insospettati come quello della finanza pubblica: la stessa ipotesi di sostituire l’esercito di mercenari per mezzo della coscrizione popolare viene così letta oggi come il tentativo di liberare il comune dall’indebitamento verso le famiglie fiorentine più ricche, che si facevano pagare interessi enormi per anticipare le somme necessarie alle campagne militari di Firenze.

La centralità della guerra nel pensiero di Machiavelli rimane tuttavia indiscutibile (e alcuni lavori recenti di Mikael Hörnqvist e di Andrea Guidi hanno fatto luce sullo straordinario impegno da lui profuso in qualità di segretario della repubblica fiorentina per organizzare la milizia). È questo anzi, probabilmente, un altro settore nel quale la rottura con il paradigma di Pocock e Skinner appare più profonda. Radicalmente filopopolare, Machiavelli non nasconde però gli obiettivi imperialisti delle riforme da lui proposte. Ai suoi occhi, in altre parole, Roma va imitata perché ha saputo coinvolgere la moltitudine nella gestione della cosa pubblica, ma anche perché, in conseguenza di questa opzione anti-aristocratica, ha potuto fondare sul popolo la più straordinaria macchina da guerra del mondo antico. Questo non vuol dire affatto che Machiavelli sia un guerrafondaio: nell’Arte della guerra si dice anzi chiaramente che, mentre i mercenari hanno tutto l’interesse a proseguire all’infinito i conflitti, una milizia di cittadini desidererà la pace. E tuttavia l’importanza della guerra rimane, come prova il fatto che andando avanti negli anni Machiavelli abbia voluto farsi teorico militare: quasi che, riconosciuta la centralità delle armi, avesse sentito la necessità di dotarsi di tutti gli strumenti concettuali e tecnici necessari per parlarne con le competenze di un vero specialista. La sua conversione dalla teoria politica alla teoria militare ricorda molto, in questo senso, il passaggio del giovane Marx dalla filosofia all’economia politica.

E vi è infine, quarto punto, la grande questione dello Stato. Nel Novecento Machiavelli è stato letto soprattutto attraverso la lente deformante di Hegel, che aveva visto in lui il primo teorizzatore dell’assolutezza dei poteri del moderno Leviatano. Così, per decenni, gli studiosi si sono affaticati di ricostruire dettagliatamente tutti gli usi e i significati del lemma «stato» nella sua opera, da quelli più tradizionali (come condizione o potere personale) a quelli più astratti e tecnici (lo Stato con la lettera maiuscola), per riconoscere un po’ a malincuore che i primi rimangono nettamente prevalenti. Oggi, paradossalmente, la riflessione machiavelliana sulle istituzioni interessa invece proprio per questa apparente debolezza rispetto alla statolatria della piena modernità. Nella crisi forse irreversibile dello Stato etico hegeliano, i Discorsi offrono una teorizzazione delle forme in cui si organizzano le società umane che non conosce ancora il contratto di Hobbes e la sua concezione assolutista della sovranità ma descrivono l’arena pubblica piuttosto come il luogo del confronto (e a volte dello scontro) tra forze e istituzioni non interamente riconducibili alla grande macchina dell’amministrazione e del governo (gli stessi tribuni, a Roma, non erano una vera e propria magistratura). Ancora una volta in nome dell’idea che solo il pluralismo e il conflitto, anche duro, garantiscono la libertà.

Sono tutte domande che ci riguardano direttamente. E non è affatto un male che, anche in Italia, dopo la grande stagione degli studi machiavelliani del dopoguerra, si stia facendo strada una rinnovata consapevolezza che parlare di Machiavelli vuol dire inevitabilmente parlare della società e della politica che desideriamo. E così sarà anche in futuro.

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