Cooperazione virtuosa? Ma l’Italia preferisce armi e affari

Orfani del “Gendarme del Mare”, al secolo Muammar Gheddafi. Spiazzati dalle “rimozioni forzate” di quei rais sostenuti e foraggiati per decenni dall’Occidente perché ritenuti il “male minore” rispetto all’espansione del “virus integralista”, e soprattutto perché interessati “sodali di affari”: da Hosni Mubarak a Ben Ali…Uno sguardo d’insieme delle politiche di cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo, focalizzate sull’Italia, raccontano una doppia “verità”. Quella ufficiale è fatta di buoni propositi declinati a più riprese, in meeting, incontri ufficiali, documenti, summit internazionali: offrire opportunità di crescita e di lavoro che scongiurino l’”invasione” della prospera Europa da parte di un esercito di diseredati. Investire per prevenire. Ma la realtà è ben altra. Gli investimenti fatti, dalla Tunisia di Ben Ali alla Libia di Muammar Gheddafi e all’Egitto di  Hosni Mubarak. Antiche rendite di posizione – e di giro d’affari – sono state rimesse in discussione dalle ”nuove leadership” sorte dalle cosiddette “Primavere arabe”.  L’Italia è ancora ai primi posti nella partnership commerciale con diversi Paesi della sponda Sud del Mediterraneo (Libia, Tunisia, Egitto) ma deve fare i conti con i crescenti appetiti (soprattutto petroliferi) di Francia e Gran Bretagna.

EMERGENZA CONTINUA

Instabilità politica. Devastazione sociale. Conflitti etnici. Fuga dall’inferno e speranza di raggiungere una “sponda di vita”.  Orrore e illusione: sono alla base della fuga disperata intentata da una umanità sofferente dalle aree di crisi: Maghreb, Corno d’Africa, Medio Oriente. Una fuga che crescerà ulteriormente nei prossimi mesi come conseguenza della guerra in Siria (l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati calcola per la fine del 2012 in oltre 900mila i profughi siriani).  Per molti di loro, questa fuga finisce in fondo al mare. Il mare della morte: il Mediterraneo. Nei primi nove mesi del 2011, sono più di 2mila le persone scomparse tra i flutti nel tentativo di raggiungere l’Europa. Ampliando il lugubre conteggio all’ultimo ventennio, si scopre che nel Mediterraneo hanno trovato la morte almeno 17.856 persone. Numero che potrebbe essere inferiore a quello reale, considerando la possibilità di naufragi fantasma di cui potrebbe non essersi mai avuta notizia. I dati sono tratti dal blog Fortress Europe, che li raccoglie analizzando le notizie riportate dalla stampa internazionale degli ultimi 23 anni. Nel giugno scorso, Amnesty International ha lanciato il rapporto “SOS Europe” sull’impatto dei controlli in materia d’immigrazione sui diritti umani, con il quale chiede ai governi e alle istituzioni dell’Unione europea (Ue) di cessare di porre a rischio la vita dei migranti alle frontiere europee. L’organizzazione per i diritti umani sollecita le istituzioni europee a svolgere fino in fondo il loro ruolo di controllo affinché i governi dei paesi membri siano chiamati a rispondere del trattamento riservato a migranti, richiedenti asilo e rifugiati alle frontiere europee.  “Per l’Ue, il rafforzamento delle frontiere europee è chiaramente prevalente sul salvataggio delle vite umane. Nel tentativo di stroncare la cosiddetta immigrazione irregolare, i paesi europei hanno rafforzato misure di controllo delle frontiere oltre i loro confini, senza riguardo per i costi umani. Queste misure, di cui l’opinione pubblica non è informata, pongono le persone in serio pericolo” – rimarca Nicolas Beger, direttore dell’Ufficio di Amnesty International presso le Istituzioni europee  Nel 2011 almeno 1500 uomini, donne e bambini sono annegati nel Mediterraneo mentre cercavano di raggiungere l’Europa. Alcune di queste morti avrebbero potuto essere evitate. I soccorsi ritardati significano perdita di vite umane. In diverse occasioni, l’Italia ha respinto persone verso la Libia, paese in cui sono state poi arrestate e sottoposte a maltrattamenti. In un contesto nel quale trasparenza e controlli sono scarsi, le violazioni dei diritti umani lungo le coste e le frontiere europee finiscono spesso per rimanere impunite. Quando si parla di diplomazia degli affari e di diplomazia dei diritti non si può prescindere da questo scenario.

AFFARI: IL PARADIGMA LIBICO

Il passato: armi e infrastrutture. 140 miliardi di dollari: è l’ammontare dei contratti che erano sati sottoscritti complessivamente con il regime di Gheddafi dalle 130 aziende italiane impegnate in Libia. In ordine sparso, solo per citarne alcune: Eni, Enel, Finmeccanica, Ansaldo, Iveco spa, Augusta-Westland, Alenia Aermacchi, Oto Melara, Intermarine spa, Selex Sistemi Integrati, Mbda Italia. E ancora: Telecom e Alitalia, Edison e Grimaldi, Alenia Aermacchi e Martini silos, Gruppo Trevi e Impregilo, Italcementi e Astaldi, queste ultime impegnate nell’opera di infrastrutturazione della Libia, a partire dai 1.700 km della nuova superstrada Rass Ajdir-Imsaad, la cui realizzazione è stata affidata, dagli uomini del Colonnello, a imprese italiane. L’asse degli affari Tripoli-Roma investe anche le banche, settore sul quale la Libia ha messo gli occhi e anche molti soldi. La Libyan Investments Autorithy – il braccio finanziario di Gheddafi nato con lo scopo di gestire i proventi del petrolio – ha incrementato (2010) la propria partecipazione in Unicredit, facendo così lievitare l’intera compagine libica oltre il 7,5%, visto che la Banca Centrale Libica e la Libyan Arab Foreign Bank sono insieme titolari del 4,98%.Nel 2002 il fondo Lafico ha acquistato il 5,31%della Juventus calcio, corrispondente a circa 6,4 milioni di euro in azioni. Nel 2009 la partecipazione è salita al 7,5 per cento. Il fondo libico possiede azioni di Mediobanca per 500 milioni di dollari, e il26%di Olcese, un’azienda tessile. Nel 2000 il fondo è tornato a investire in Fiat, acquistando il 2% delle azioni della fabbrica automobilistica. La Libia possiede una quota di Fiat di poco inferiore al 2%. Dalle banche alle costruzioni. La voce più importante è quella relativa all’Autostrada sulla costa mediterranea libica: il Trattato di amicizia – sottoscritto nell’agosto 2008 da Berlusconi e Gheddafi – prevede che Romaversi a Tripoli 5 miliardi di dollari per la realizzazione dell’opera alla quale partecipano 21 imprese italiane. Sempre nel settore, è da registrare che a Lybian Development Investment Co si è associata con l’Impregilo Lidco, che ha ottenuto contratti per 1 miliardo di euro per la costruzione di tre centri universitari e infrastrutture a Tripoli e Misurata. Venti miliardi di dollari: è quanto ha investito l’Eni in Libia. Negli ultimi 10 anni la società petrolifera italiana ha investito lì 50 miliardi di dollari. Nel 2009 Finmeccanica ha sottoscritto un memorandum d’intesa col governo libico per la cooperazione in un vasto numero di progetti in Libia, Medio Oriente e Africa.

IL PRESENTE: In un recente viaggio a Tripoli, Mario Monti ha cercato di perorare la causa del “sistema-Italia” in Libia con la nuova leadership libica. La disponibilità a mantenere una “relazione privilegiata” con l’Italia è stata manifestata dagli interlocutori del presidente del Consiglio ma in un quadro di “rinegoziazione”. L’accordo prevede la creazione di una joint venture di cui faranno parte Finmeccanica e il fondo Lafico. Da gennaio il fondo Lia detiene il 2,01% di Finmeccanica. La società italiana ha vinto diversi contratti d’appalto in Libia, tra cui uno del valore di 247 milioni di euro per la costruzione di una ferrovia. Nel gennaio 2008 Alenia Aeronautica, altra società del gruppo Finmeccanica, ha siglato con il ministero dell’Interno libico un contratto da oltre 31milioni di euro per la fornitura del velivolo da pattugliamento marittimo ATR-42MP Surveyor. La nuova Libia dovrà dotarsi di regole sulla concessione di appalti petroliferi e non deve affidarsi a scelte politiche. Il monito è  dell’allora primo ministro del Cnt, Mahmoud Jibril. «Avviso il nuovo governo che le regole economiche dovrebbero essere la Regola. È molto pericoloso avere contratti politici». Oggi Jibril è un ex primo ministro. Il fatto è che la Libia del dopo-Gheddafi è un Paese ingovernato, privo di un governo accettato da quanti, oltre i partiti, detengono ancora il potere nel Paese nord africano: dalle fazioni armate alle tribù. Il presente è in discussione, il futuro incerto.

AFFARI “ARMATI”

L’Italia – rileva un recente rapporto dell’ARCHIVIO DISARMO – ha esportato armi da fuoco in tutti i Paesi nordafricani interessati dalla “Primavera araba”: l’Egitto, la Tunisia e in particolare la Libia che ha ricevuto oltre 8,4 milioni di euro, totalmente rappresentate da pistole e carabine Beretta e fucili Benelli finite nelle mani del settore di Pubblica Sicurezza del Comitato Popolare Generale (l’istituzione di Governo Libica), con la fondata convinzione che possano essere state utilizzate per la repressione in atto negli ultimi mesi. Sono state fornite armi, proiettili ed equipaggiamento militare e di polizia usati per uccidere, ferire e imprigionare arbitrariamente migliaia di manifestanti pacifici in Paesi come la Libia, la Tunisia e l’Egitto e tuttora utilizzati dalle forze di sicurezza in Yemen. Lo Yemen ha importato dall’Italia una cifra pari a 487.119 euro di armi e oggi versa in una situazione di conflitto che ha provocato centinaia di morti; la dura repressione del governo, nei confronti delle manifestazioni popolari verificatesi a sud del Paese, ha causato molte vittime tra manifestanti e civili.

NOTA BENE: Secondo i principi definiti dalla legge 185/90, l’Italia non può trasferire materiali di armamento in Paesi in stato di conflitto armato, in Paesi che conducono una politica estera aggressiva e propensa all’uso della forza, in Paesi sottoposti ad embargo deciso dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea, in Paesi cui governi sono responsabili di accertate gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani o qualora vi sia in rischio di “triangolazioni”. Le autorizzazioni all’esportazione sono coordinate dal Ministero degli Affari Esteri e dal Ministero della Difesa.

L’EGITTO: COMUNQUE PARTNER

La parola d’ordine è: mantenere la posizione. Ieri con l’ultimo “faraone” (Hosni Mubarak), oggi con il “primo Fratello (Musulmano)”, divenuto presidente dell’Egitto: Mohamed Morsi. Negli ultimi anni, l’Italia si è confermata secondo partner economico a livello mondiale dell’Egitto (primo in Europa), secondo mercato in assoluto per le esportazioni, al quinto posto tra i Paesi fornitori, tra i primi Paesi per valore di investimenti. Una partnership importante più dal punto di vista geopolitico che per il volume complessivo d’affari. Nel recente (12 settembre) bilaterale a Roma, protagonisti Monti e Morsi, Italia ed Egitto hanno sottoscritto , recita una nota della Farnesina, “quattro Dichiarazioni Congiunte che aprono importanti prospettive di sviluppo in vari settori di cooperazione di rilievo strategico: dal turismo, al partenariato per lo sviluppo di piccole e medie imprese in Egitto, all’utilizzo di una parte dei fondi derivanti dalla conversione del debito egiziano per la costruzione di panifici industriali in Egitto, particolarmente apprezzati dalla società civile e dall’ opinione pubblica del Paese, alla cooperazione per la formazione professionale e tecnica, un’ area di cruciale importanza per lo sviluppo socio economico dell’ Egitto, a beneficio soprattutto delle giovani generazioni”.

GRANDE ASSENTE

Il valore di quelle Dichiarazioni è politico prim’ancora che economico. Un valore che travalica i confini egiziani e si proietta verso la Tunisia e gli altri Paesi del Vicino Oriente la cui transizione tra il vecchio e il nuovo ordine ha visto l’affermarsi di partiti e movimenti islamisti. Non si tratta di una nuova coniugazione del vecchio adagio secondo cui “pecunia non olet” (anche se c’è anche questo) ma la consapevolezza che sulla sponda Sud del Mediterraneo occorrerà sempre più fare i conti con quell’Islam politico che si “istituzionalizza” e assume come suo punto di  riferimento il “modello turco” di Recep Tayyp Erdogan.  Resta, però, un capitolo mancante, un vuoto che ancora non si intende coprire: quello di un qualche legame “codificato” tra affari e diritti. In nessun accordo bilaterale, vecchio o nuovo, viene vincolata la partnership economica – pubblica o privata – alla verifica del rispetto almeno degli standard minimi, riconosciuti internazionalmente, in materia di diritti umani e civili. Solo colmando questo vuoto sarà possibile attivare una cooperazione virtuosa, che faccia della salvaguardia, legittima, degli interessi nazionali , una leva di crescita – non solo materiale –  dell’area mediterranea, e non solo di essa.

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