L’accoglienza nell’epoca della globalizzazione

Chiedo asilo. Essere rifugiato in Italia è il libro di Marina Calloni, Stefano Marras e Giorgia Serughetti da poco uscito per Egea. Un libro che traccia un quadro completo della condizione del richiedente asilo in Italia e, più in generale, del rifugiato politico nel mondo.

Accoglienza: una parola che ci riporta subito al senso più profondo delle relazioni umane, al portare accanto a sé qualcuno, nel riceverlo con amore e familiarità. Significa accettare l’alterità con le sue differenze costitutive e nello stesso tempo accordare ospitalità a chi ce la chiede.

Se l’accoglienza è un’emozione della sfera affettiva, un precetto religioso che sta alla base della sacralità delle religioni rivelate e un sentimento morale estendibile agli esseri umani in quanto tali, tuttavia è molto più controversa la sua valenza politica. La prassi dell’accoglienza viene, infatti, perlopiù riferita allo “straniero”, a chi non è a noi prossimo, ma che ci chiede solidarietà e vicinanza territoriale, ci domanda di poter di travalicare i confini geografici che sono stati tracciati fra “noi cittadini” e gli “altri, forestieri, non-appartenenti”. L’inclusione dell’Altro in società multiculturali, utilizzando l’espressione coniata da Jürgen Habermas, è infatti alquanto assai problematica, dal momento che comporta una molteplicità di ambivalenti interventi socio-politici e legislativi, che non sono sempre coronati da successo. L’accettazione dell’alterità, intesa come rispetto delle diversità e insieme convivenza integrata, lascia così spesso posto ad un precario senso di ospitalità, alla marginalizzazione del diverso, al suo rifiuto, se non al respingimento al di là delle frontiere.

La politica dell’accoglienza dello straniero è al giorno d’oggi una delle più spinose questioni, presenti nelle agende politiche sia di governi nazionali che di organismi internazionali. Si riferisce perlopiù a quei massicci processi migratori che nell’età della globalizzazione hanno comportato l’aumento esponenziale della mobilità non solo di merci, bensì di individui e comunità. Si spostano alla ricerca di una migliore qualità della vita, fuggendo di fronte a guerre e a carestie, ma anche semplicemente proponendosi l’obiettivo di garantire a sé e alla propria famiglia un diverso futuro e maggiori opportunità esistenziali.

Il nuovo ordine geo-politico, che segue la fine dell’ideologia della Guerra Fredda, ha portato con sé nuove motivazioni per la fuga o per l’abbandono dai paesi d’origine. A livello internazionale, l’immigrazione – ovvero il passaggio compiuto da un cittadino da uno Stato all’altro – viene solitamente raggruppata sotto due diverse tipologie socio-politiche dalle distinte ricadute legislative, a seconda delle cause che l’hanno indotta. Si tratta di: migrazione forzosa (dovuta al sopraggiungere di fatti traumatici, dalle violenza politica alla tratta di esseri umani) e di migrazione economica (connessa a scelte lavorative). Da ciò consegue che sono diverse le entità politiche che si occupano dei migranti e della loro “accoglienza”. Da una parte ci sono infatti organismi internazionali e sovranazionali, quali l’ONU, il Consiglio d’Europa, l’Unione Europea, mentre dall’altra ci sono i singoli paesi (Stati nazionali). Di fatto, sono sempre i Paesi interessati che decidono in ultima istanza delle politiche immigratorie e del trattamento da riservare agli stranieri, venendo sempre più a limitare il potere delle convenzioni internazionali e aumentando la loro forza discrezionale, a proposito di chi accogliere o respingere.

I migranti forzosi che chiedono rifugio in un altro Stato perché soggetti a persecuzioni, sono definiti richiedenti asilo. Soltanto a seguito del riconoscimento del loro status politico da parte dello Stato interessato, vengono ufficialmente denominati rifugiati. Possono dunque procedere alla richiesta di una nuova cittadinanza sulla base alle norme statali vigenti, con i diritti e doveri che ne conseguono.

Il diritto d’asilo è normato da una Convenzione, firmata dagli Stati membri delle Nazioni Unite il 28 luglio 1951. Si tratta della cosiddetta Convenzione di Ginevra, siglata subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Viene definito rifugiato chi si trova

“nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.” (Art. 1)

Ne sono conseguite norme e protocolli, a protezione di coloro che sono perseguitati dal proprio Stato, anche grazie all’istituzione dell’Alto Commissariato preposto alla difesa di richiedenti asilo e rifugiati (UNHCR).

I migranti economici sono invece intesi come coloro che cercano lavoro in un altro Stato e per questo ricadono sotto le leggi nazionali del territorio dove intendono recarsi o si trovano già. Le leggi sull’immigrazione sono sempre dunque deliberate dai parlamenti nazionali, contrariamente a quanto accade per i richiedenti asilo.

In Italia la differenza fra migranti forzosi ed economici è stata negli ultimi anni volutamente negata. Politiche migratorie restrittive, unitamente a persistenti immaginari, hanno reso il nostro paese sempre meno accogliente

Fino all’inizio degli anni Novanta, l’Italia ha sempre concepito se stessa come una terra di migranti che cercavano la propria fortuna in terre più prospere e accoglienti. Tale memoria si è definitivamente infranta quando si è scontrata con la realtà di barconi di Albanesi che erano attraccati sulle coste adriatiche: cercavano da noi libertà e lavoro. Era il 1991. Da allora si è diffusa la sensazione di essere accerchiati e attaccati, nonostante che l’Italia si appoggi in buona parte sull’occupazione di lavoratori stranieri (regolari e non), dai campi, alle fabbriche, fino alle case e alla cura.

In Italia esistono leggi sull’immigrazione fin dai primi anni Novanta (Legge Martelli, 1990). Nonostante che le leggi successive (Turco-Napolitano, 1998; Bossi-Fini, 2002) abbiano cercato di prendere atto delle trasformazioni in corso anche se in modo difforme, tuttavia le conseguenze sono state alquanto problematiche e progressivamente restrittive. Non esiste in Italia una legge organica sul diritto d’asilo; è stato approvato il reato di clandestinità (“Pacchetto Sicurezza”) per quegli stranieri immigrati illegalmente o senza documenti; si assiste ad un progressivo restringimento del riconoscimento dello status di rifugiato attraverso la concessione di due diversi tipi di permesso – per protezione sussidiaria e per motivi umanitari -, forse perché la maggioranza dei richiedenti provengono ora dal continente africano.

Con la svolta sicuritaria, da una parte si tende a non far più alcuna distinzione nei flussi misti fra migranti forzosi ed economici (contravvenendo a convenzioni internazionali); dall’altra parte vengono rafforzati i campi di internamento – detti Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), in sostituzione dei precedenti Centri di permesso per Centri di Permanenza Temporanea (CPT) – che si sono in realtà trasformati in vere e proprie prigioni. Se a livello di Unione Europea esistono norme internazionali per la tutela dei richiedenti asilo, non esiste invece alcuna comune legislazione sull’immigrazione economica; viceversa si assiste ad una crescente politica di protezione delle frontiere comunitarie (Frontex, EUROSUR). Anche per la pericolosità dell’attraversamento del mar Mediterraneo, i confini dell’Unione Europea sono diventati i più pericolosi al mondo. L’osservatorio Fortress Europe ha calcolato che dal 1988 al 2011 sono morti in mare almeno 18.346 persone, di cui 2.352 soltanto nel 2011.

In tale contesto, non deve allora stupire che la Corte Europea dei Diritti Umani, afferente al Consiglio d’Europa a Strasburgo, abbia condannato quest’anno il governo italiano per il mancato soccorso in mare di migranti. La sentenza della Corte deve essere ora rispettata. Ma fino a quando?

Proprio per la mutata situazione geo-politica che coinvolge tutti i paesi e i cittadini del mondo, si sta ora affermando a livello internazionale un acceso dibattito sul significato e la praticabilità (non solo teorica) del cosmopolitismo. Tale discussione prende le mosse dal noto saggio di Immanuel Kant su “Per la Pace Perpetua” (1795), in cui l’accettazione dello straniero non è fondata né sulla semplice benevolenza od ospitalità, ma su un’accoglienza che mira a integrare chi è ancora straniero nella nostra cittadinanza. Come scrive Kant nel “Terzo articolo definitivo”:

“Non si tratta di filantropia, ma di diritto, e quindi ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di un altro Stato di non essere da questo trattato ostilmente. Può essere allontanato, se ciò può farsi senza suo danno, ma, fino a che dal canto suo si comporta pacificamente, non si deve agire ostilmente contro di lui. Non si tratta di un diritto di ospitalità, cui fare appello (a ciò si richiederebbe un benevolo accordo particolare, col quale si accoglie per un certo tempo un estraneo in casa come coabitante), ma di un diritto di visita, spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a far parte della società in virtù del diritto comune al possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e coesistere Nessuno in origine ha maggior diritto di un altro ad una porzione determinata della terra.”

Accoglienza significa dunque cercare di re-incontrarsi, dopo la diaspora biblica dei popoli, seguita alla distruzione della Torre di Babele voluta dall’intervento della violenza divina. Tale incontro diventa tanto più urgente, quanto più continuano ad essere rinfocolate guerre violente per il possesso di “una porzione determinata della terra.“ Seppur consapevoli che la cessazione di tali contese è di difficile soluzione, tuttavia l’accoglienza come interesse per politiche eque e come apertura all’alterità è un compito che spetta a tutti noi, in quanto cittadini, per l’appunto, del mondo.

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