Via dalle trappole a tradimento
Perché Biden frena Netanyahu

 

Il generale Eli Zeira, direttore dell’intelligence militare israeliana, era convinto, fino a poche ore prima che fosse scatenato, che un attacco fosse “molto poco probabile”. Avrebbero dovuto essere pazzi, sapevano benissimo che non potevano vincere, che andavano incontro a una sconfitta certa. Il generale Shlomo Gazit continuava a ripetere: “Se osano attaccarci gli spezzeremo le ossa”. Si diceva preoccupato solo che la guerra non durasse abbastanza “da darci il tempo di distruggerli completamente”. Ariel Sharon, a capo del comando Sud, prometteva che al prossimo scontro la linea di difesa araba sarebbe arretrata “sino al Cairo”. Il primo ministro Golda Meir sostenne che sarebbe stato del tutto “illogico” per il presidente egiziano Sadat cercare lo scontro armato perché i risultati erano scontati. Il suo ministro della difesa Moshe Dayan, il trionfatore della guerra precedente, quella del 1967, ammise poi di essere rimasto sorpreso e frastornato dalla capacità di combattere degli arabi, depresso dall’impreparazione dell’esercito israeliano. I vertici riflettevano una certezza, una sicumera diffusa, contagiosa. Negli sketch comici il trio Hagashah Hashiver chiedeva se gli egiziani potevano concepire “un piano più idiota dell’attraversare il Canale di Suez” (dalla guerra del 1967 la sponda occidentale del canale era in mano israeliana).

Non avevano capito che la trappola era proprio fargli credere questo. Che facevano un favore al nemico. Gliel’avevano preparata con cura. Il generale Zeira fu additato dalla successiva commissione d’inchiesta sugli errori nella guerra del Kippur come il principale responsabile del disastro di intelligence. Gli si rimproverò si aver nascosto alla premier che le sue valutazioni si basavano sostanzialmente su una sola fonte: il genero di Nasser, Ashraf Marwan, che lavorava a stretto contatto con Sadat. Ancora si discute se Marwan facesse il doppio gioco. Passava sì informazioni agli israeliani. Ma anche disinformazione. Lui non può più dire la sua. Qualche anno dopo cadde o fu buttato dal balcone del suo appartamento a Londra.

Qual è invece il gioco di Hamas? La cosa apparentemente più assurda è che è la macchina propagandistica di Hamas a diffondere capillarmente, ad amplificare gli orrori. Non quelli contro Gaza, ma quelli commessi dai loro miliziani negli attacchi contro i kibbutz. Sono stati operatori embedded con i commandos di Hamas a riprendere le prime scene agghiaccianti: Noa che urla disperata mentre viene portata via in motocicletta; la giovane donna della quale si vedono solo le gambe nude e spezzate, forse incosciente, forse ferita, forse morta, adagiata sul cassone di un camioncino mentre miliziani armati esultano attorno a lei; la nonna trucidata in una pozza di sangue; l’esecuzione di civili in fuga, i cadaveri per strada o pendenti da auto crivellate, giovani, donne coi capelli bianchi portati via come al macello. Sono accompagnate da scritte in arabo.

Lo show dell’orrore è partito da Hamas. Era voluto, non qualcosa che gli è scappato di mano. Sono immagini e video ripresi e diffusi a bella posta. Non dalle vittime ma dai perpetratori dell’attacco. Presuppongono un’équipe agguerrita che si occupa dell’editing e della diffusione per conto di Hamas, una regia minuziosa su cosa mostrare. Sono stati moltiplicati da un esercito di troll. Sono diventati virali, con milioni di click. Specie su X (ex Twitter), meno su altre piattaforme che hanno deciso di filtrarli. Solo in seconda battuta sono arrivati, prima i racconti, poi le immagini di qualcosa di ancora più orripilante: la carneficina di bambini nel kibbutz di Kfar Aza. Ci hanno pensato poi le tv a mettere tutto in un unico tritacarne, di spezzoni in cui non si distingue più chi ha filmato e poi postato che cosa.

A che scopo l’esibizione deliberata dell’orrore da parte di Hamas? Mostrare l’impreparazione israeliana e la prodezza militare di Hamas? Seminare terrore? Creare disorientamento, umiliazione, una sensazione di paralisi e di impotenza? Dirgli: ecco possiamo colpirvi quando e come vogliamo? O piuttosto dirgli: sì, siamo bestie come voi dite, vendicatevi, veniteci a prendere a Gaza?

Guai a considerarli sprovveduti, improvvisatori. Sono almeno due anni che preparavano l’assalto da Gaza. Ma sono decenni che Hamas si esercita a un uso oculato e professionale dei media, dei messaggi. Studiano, calcolano le possibili reazioni. Sono addestrati a pensare come potrebbero pensare gli israeliani e quali reazioni e decisioni potrebbero venire dal governo e dai vertici militari del nemico. Fanno un uso minuzioso, capillare di quel che in gergo si chiama “Open source intelligence”, l’informazione pubblica. C’è un’intera nuova branca di analisi in merito. “È il nemico a insegnarci come agire”, si vantano. La conoscenza dell’ebraico e dell’inglese è obbligatoria per i loro specialisti. ‘The enemy teaches us how to operate’: Palestinian Hamas use of Open source intelligence (OSINT), in its intelligence warfare against Israel (1987-2012), uno studio dell’analista israeliano Netanel Flamer, pubblicato in rete nel maggio 2023, è illuminante.

Non avevano bisogno di spie per sapere quanto fosse spaccata Israele. Che erano stati rimossi capi militari, dell’intelligence, giudici sgraditi al governo. O che Netanyahu aveva spostato il grosso delle forze israeliane a difendere i nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania, che sono lo zoccolo duro della sua constituency e della sua maggioranza, sguarnendo i kibbutz a ridosso della striscia di Gaza. Bastava loro leggere i giornali.

Appena pochi giorni prima di questo maledetto 7 ottobre, lo studioso israeliano Michael Milshtein aveva ricordato sul quotidiano Haaretz (del 30 settembre) fino a che punto già cinquant’anni fa Israele rischiò di soccombere, a causa degli errori di valutazione, dell’ubriacatura da precedenti successi militari e, soprattutto, a causa dell’arroganza, del disprezzo, della sottovalutazione dei nemici arabi. Lo spunto gli veniva dalle sempre nuove rivelazioni che escono dagli archivi o dalle memorie dei protagonisti, e in particolare dai verbali delle riunioni del governo israeliano nei giorni precedenti e durante la guerra dell’ottobre 1973, aperti al pubblico solo qualche settimana fa. Colpisce la leggerezza con cui tutti sono convinti che la guerra non ci sarebbe stata. E poi lo stupore dei protagonisti di quelle discussioni per il fatto che gli avversari arabi combattessero con audacia e determinazione. E ancor più per il fatto che quelli erano riusciti a immedesimarsi nel modo di pensare israeliano meglio di quanto gli israeliani fossero riusciti a capire ed entrare nel modo di pensare degli arabi.

L’arroganza, la boria è sempre pessima consigliera. Netanyahu non si attendeva l’attacco di Hamas da Gaza. Così come, 50 anni prima, Golda Meir non si attendeva che Egitto e Siria attaccassero Israele a tenaglia nel giorno di Kippur. Ma c’è un errore ancora più grave, più di fondo del farsi prendere di sorpresa. È un errore di strategia: prendere abbagli su chi sia il nemico da cui davvero guardarsi. Nel 1973 Sadat non voleva distruggere Israele. Voleva prendersi una rivincita sul 1967 e riprendere il Sinai. Fu lui poi a fare la prima pace con Israele, prima di venire ammazzato da estremisti islamici. Così come poi Yitzhak Rabin, che stava facendo la pace con Arafat, fu assassinato da un estremista ebreo.

Si sente dire: l’attacco di Hamas porta acqua al mulino dell’Iran. Ne siamo così sicuri? Cinquant’anni fa il gran vincitore della guerra del Kippur era stata l’Arabia saudita. I prezzi dell’unico suo prodotto, il petrolio, erano saliti in modo esponenziale. L’embargo alle esportazioni petrolifere verso gli Stati uniti avrebbe messo in ginocchio l’economia americana, e di tutto l’Occidente, per anni. Arricchendo a dismisura i custodi dell’estremismo wahhabita e trasformando un paese di serie B nell’arbitro degli equilibri mondiali. Già nelle scorse settimane l’Arabia saudita, affamata di denaro fresco, aveva riportato, solo stringendo i rubinetti, i prezzi nuovamente sulla soglia dei 100 dollari. Col raid di Hamas c’è stato un balzo immediato di un ulteriore 5 per cento. Ma i futures sono saliti di oltre il 16 per cento. Al momento chi ne approfitta di più è sempre l’Arabia saudita.

Scegliere male i nemici è peggio che scegliere male gli amici. Da decenni per Israele il nemico assoluto è l’Iran. Mentre il nemico assoluto per l’Iran è l’Arabia saudita. Ne consegue, come in un corollario matematico, l’avvicinamento di Usa e Israele all’Arabia saudita. Una scelta. Ma non una scelta ineluttabile. Si può discutere se per il futuro, per la sicurezza, l’esistenza stessa di Israele rappresentino un pericolo maggiore il nazionalismo e le ambizioni di egemonia regionale dell’Iran sciita, o il fondamentalismo sunnita, arabo e saudita. La cosa certa è che scegliere tra due nemici acerrimi tra di loro, scegliere di stare con l’uno per mettere nell’angolo l’altro è la cosa più pericolosa di tutte. Senza contare che, Dio non voglia, i due potrebbero anche decidere un giorno di mettersi in combutta contro di te. Trump aveva seguito all’estremo la scelta strategica di Netanyahu. Biden è più cauto.

L’Iran degli ayatollah non ha mai nascosto né temperato l’odio per Israele. Ma la guerra finora l’hanno fatta – ferocissima e totale – solo all’Iraq arabo e sunnita di Saddam Hussein. L’atomica, se riuscissero a farsela, la punterebbero contro i sauditi, prima che contro Israele. L’ayatollah supremo Khamenei è comparso in tv per smentire che dietro l’azione di Hamas ci sia l’Iran. Subito dopo ha aggiunto: “Baciamo le mani di quei giovani palestinesi intelligenti e coraggiosi che hanno pianificato l’attacco al regime sionista. Siamo orgogliosi di loro”. Propaganda truce. Ma anche prudenza. Intrecciati. A cui fa riscontro la prudenza americana. Sì, l’odio nei confronti di Israele è uno dei pilastri del regime iraniano. Ma una cosa è abbaiare, un’altra mordere. Khamenei sa bene che la stragrande maggioranza degli iraniani non hanno nessuna voglia di morire per i Palestinesi. Sono persiani, sciiti, nazionalisti. Ce l’hanno da sempre con gli arabi, i sunniti. È diventato virale il video in cui si vedono, ad operazione di Hamas in corso, gli spettatori di una partita di calcio a Teheran fischiare rumorosamente la comparsa di bandiere palestinesi.

L’interesse storico dell’Iran, anche di questo Iran, non è “distruggere l’entità sionista” come continuano a ripetere, allargare il conflitto a mezzo Hezbollah, tanto meno provocare una guerra con l’America. È evitare che Israele, Usa e Arabia Saudita si compattino a danno dell’Iran. Rassicurati su questo, potrebbero anche sacrificare Hamas.

Le trappole più micidiali sono quelle in cui ci si infila di buon grado, da soli. Yahya Sinwar, la mente dell’operazione di Hamas – Mohammed Deif, detto “l’ospite” perché dorme ogni notte in un luogo diverso a Gaza, è solo l’esecutore – si era fatto la fama di “pragmatico”, di “ragionevole”. “Non voglio più guerre” aveva dichiarato nel 2018 in un’intervista pubblicata sul giornale israeliano Yedioth Ahronoth e ripresa da Repubblica. “Chi vorrebbe affrontare una potenza nucleare con delle fionde?”, aveva aggiunto. Come dire: non sono mica pazzo. Ma allora, dove vuole arrivare? A che gli serve l’esibizione ossessiva, sistematica degli orrori perpetrati dai suoi miliziani? Ad attirare Tsahal nella trappola di Gaza? A coinvolgere Hezbollah, la forza militare più consistente al servizio e al soldo dell’Iran (contano su 100mila armati, hanno dieci volte più missili di quelli di Hamas, più sofisticati e a più lunga gittata)? A coinvolgere direttamente l’Iran? Se questo è il progetto di Hamas, vogliamo proprio assecondarlo? Biden sta facendo il possibile per evitare che Netanyahu si infili a capofitto nella trappola di Hamas.

 

 

Immagine di copertina: due soldati israeliani si tappano le orecchie nell’esplosione di un M109 vicino al confine con Gaza, 17 ottobre 2023. Crediti: Menahem Kahana/Afp.

Controcopertina: alcuni quotidiani di Teheran sull’accordo tra Iran e Arabia Saudita mediato dalla Cina per il ripristino delle relazioni diplomatiche. Foto di Atta Kenare/Afp.

 

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